A Milano sono rimasti pochi campi rom
La maggior parte è stata chiusa dal comune, che ha adottato un approccio più attento ai problemi sociali, dopo anni di sgomberi inefficaci

Alcuni politici di destra hanno attaccato il sindaco di Milano Beppe Sala dopo l’incidente avvenuto lunedì a Gratosoglio, un quartiere a sud della città, dove una donna di 71 anni è stata investita e uccisa da un’auto che aveva a bordo tre ragazzini e una ragazzina di un’età compresa tra gli 11 e i 13 anni. I quattro minori sono stati trovati dalla polizia locale in un piccolo insediamento di cinque roulotte in un’area coltivata a circa due chilometri dalla strada dove è avvenuto l’incidente.
Si sa ancora poco dell’accaduto perché le indagini sono appena iniziate, ma molti politici tra cui il leader della Lega Matteo Salvini hanno usato l’incidente come pretesto per chiedere con forza lo sgombero (Salvini ha usato l’espressione «radere al suolo») e la chiusura dei campi rom della città alludendo a una presunta volontà del comune di tenerli aperti. In realtà negli ultimi anni uno degli obiettivi del comune di Milano è stato proprio il superamento del modello dei campi rom, ormai vecchio e soprattutto discriminatorio. Qualche risultato è già stato ottenuto.
Secondo le stime diffuse in indagini fatte negli ultimi anni dall’ISTAT e da diverse associazioni come la “21 Luglio”, in Italia vivono circa 180mila persone che si identificano come rom, sinti o caminanti, tre sottogruppi uniti dal fatto di parlare una delle varie versioni della lingua romaní (in lingua romaní rom significa uomo).
La maggior parte di loro, circa il 70 per cento, è di nazionalità italiana, discendenti di famiglie rom arrivate in Italia nel Medioevo e risultato di diversi flussi migratori stratificati. Gli altri provengono quasi tutti dai paesi dell’Europa dell’Est, in particolare dalla Romania o dai Balcani. In totale sono state individuate 22 comunità ascrivibili a diversi momenti migratori con storie, tradizioni e dialetti diversi.
Al contrario di quanto possa trasparire dalla propaganda, solo il 6 per cento della popolazione rom – circa 13mila persone – vive in spazi come campi, aree residenziali monoetniche e insediamenti informali. La maggior parte vive in abitazioni convenzionali.

Una strada del campo di via Chiesa Rossa, a Milano (il Post)
La scelta politica di aprire i campi rom risale alla fine degli anni Settanta e continuò fino all’inizio degli anni Novanta, un periodo in cui arrivarono circa 40mila rom da quella che all’epoca era la Jugoslavia: erano in fuga dalla crisi dei Balcani culminata poi con la guerra. L’apertura dei campi fu giustificata dalle istituzioni come soluzione temporanea di “tutela della cultura nomade”, ma nessuno di quei gruppi era davvero nomade. Anzi, l’associazione tra rom e nomadi appare oggi infondata, come dimostrano studi e indagini: solo una quota minima, tra il 2 e il 3 per cento di rom e sinti, pratica il nomadismo. Si tratta soprattutto di famiglie di giostrai.
Anche a Milano, così come in molte grandi città italiane, dopo i primi insediamenti segnalati alla fine degli anni Settanta molti campi aprirono nella seconda metà degli anni Ottanta. I campi, formali o informali, furono aperti tutti in periferia, spesso vicino a discariche o aree inquinate. Gli alloggi erano pericolanti, sovraffollati, e le persone erano costrette a vivere in pessime condizioni igieniche, in molti casi senza avere accesso all’acqua potabile, senza allacciamenti alla fogna, senza usufruire della raccolta dei rifiuti e di un accesso sicuro a elettricità e riscaldamento.
È molto complicato capire come sia cambiata nel tempo la popolazione rom di Milano. Secondo una ricerca dell’Osservatorio regionale per l’integrazione e la multietnicità, nel 2008 in città abitavano circa 2.100 persone, di cui 1.300 distribuite in 12 campi regolari e circa 800 in decine di insediamenti spontanei.
Nel 2018, al termine di un’indagine durata tre anni, la Caritas stimò che a Milano abitavano 2.700 persone rom distribuite tra campi regolari e 134 insediamenti spontanei in prossimità di ferrovie (22 per cento), autostrade (24 per cento), fiumi e canali (11 per cento), aree abbandonate nei quartieri (17 per cento), campi agricoli (21 per cento).
Tra il 2006 e il 2011, durante il suo unico mandato da sindaca di centrodestra, Letizia Moratti si vantò di aver ordinato 500 sgomberi di campi rom informali, operazioni molto costose e che portavano a scarsi risultati: di fatto venivano sgomberate sempre le stesse famiglie che si spostavano in altre zone, in attesa dello sgombero successivo. All’epoca a Milano la maggior parte dei fondi stanziati dal governo per progetti di integrazione veniva spesa per queste operazioni di “sicurezza”, che tra l’altro alimentarono la diffusione di insediamenti più piccoli e precari.
Negli ultimi 15 anni l’approccio alla gestione dei campi rom è cambiato, tant’è che la maggior parte è stata chiusa: dal 2013 al 2024 le giunte di centrosinistra ne hanno chiusi 24, di cui 4 autorizzati e 20 irregolari. Oggi sono rimasti tre campi regolari: quello di Chiesa Rossa (a sud), di via Negrotto (a nord ovest) e di via Impastato (a sud est).
Da una politica emergenziale e securitaria si è passati a un intervento strutturato di politiche sociali. Il comune, anche sulla base di indicazioni che l’Unione Europea dà ai suoi stati membri, si è dato da tempo l’obiettivo di impedire la «segregazione» delle popolazioni rom e sinti all’interno dei campi, agevolandone l’inclusione e l’accesso ad alloggi sicuri che rispettino tutte le norme igieniche, al mondo del lavoro e alla scolarizzazione.
In questo lavoro sono stati coinvolti esponenti delle comunità rom e sinti per cercare un dialogo e convincere sempre più persone a spostarsi dagli insediamenti abusivi in posti pericolosi, vicino a strade e cantieri. Alle piccole comunità che devono spostarsi vengono offerte soluzioni alternative di accoglienza già alcuni giorni prima dello spostamento. L’obiettivo è conciliare il rispetto della legalità con le politiche di accoglienza, oltre che la frequentazione della scuola per i tanti minori, e l’accesso alle cure, prima molto complicato.
L’ultimo campo chiuso, nel luglio del 2024, è stato quello di via Bonfadini, nel municipio 4. Era un campo particolarmente problematico: al suo interno si trovavano auto e moto rubate di cui venivano rivenduti i pezzi e incendiate le carrozzerie, e le condizioni igieniche erano molto precarie. L’area è stata data a Sogemi, la società che gestisce i mercati generali di Milano e che sta ampliando le aree dedicate ai mercati e alla logistica.
Negli ultimi mesi il comune ha poi avviato un procedimento per chiudere il campo di via Chiesa Rossa, aperto 25 anni fa. A differenza di quello di via Bonfadini, il campo di via Chiesa Rossa è molto curato, al punto che i suoi abitanti preferiscono chiamarlo “villaggio delle rose”. All’interno le persone vivono in case prefabbricate, senza le fondamenta, che possono essere trasportate e spostate (anche se di fatto non vengono spostate mai). Le case sembrano delle villette, curate sia all’esterno (dove ci sono piante, statue e barbecue) che all’interno. Sono organizzate in cinque “file”, ovvero vie, e in ogni piazzola c’è una casa con un bagno container.

Un’area del campo rom di via Chiesa Rossa, a Milano (il Post)
Nell’ultimo anno gli abitanti hanno cercato in vari modi di impedire la chiusura del campo, anche creando un monumento all’ingresso che rappresentava simbolicamente la comunità del villaggio e la storia dei popoli rom e sinti. Lo scorso febbraio le persone rom che abitavano nel campo erano 180, quasi tutte di nazionalità italiana. Una trentina di famiglie ha accettato il trasferimento in un alloggio pubblico e sono in contatto con i servizi sociali del comune.
La scorsa settimana il comune ha notificato un’ordinanza che impone agli abitanti di lasciare l’area entro il 30 settembre. A luglio, tuttavia, è stato presentato un progetto per creare una cooperativa formata dai residenti del campo stesso. La costituzione di una cooperativa permetterebbe di formalizzare un impegno a trasformare il campo – a fronte di una concessione pubblica – risolvendo tutti i problemi segnalati negli anni dal comune, tra cui le edificazioni abusive e gli allacci abusivi alla rete elettrica. Una delle soluzioni potrebbe essere la costituzione di una comunità energetica. Finora ci sono stati tre incontri tra i rappresentanti degli abitanti e il comune, che non si è ancora espresso sulla proposta.
Con la chiusura o la riqualificazione del campo di via Chiesa Rossa rimarrebbero aperti solo due campi regolari in attesa di una soluzione, in via Negrotto e via Impastato, dove abitano meno di 300 persone.



