Che fare con le riserve d’oro italiane che sono negli Stati Uniti
Sono tante, quasi la metà del totale, e sono lì da decenni; c'è chi pensa che ora che c'è Trump sia meglio riportarle indietro

Nei magazzini di massima sicurezza della Zecca degli Stati Uniti e della Federal Reserve, la banca centrale americana, è custodito il 43 per cento di tutte le riserve di oro della Banca d’Italia, la banca centrale italiana: 1.061 tonnellate perlopiù in lingotti, che con la quotazione attuale dell’oro valgono all’incirca 98 miliardi di euro. Anche la Bundesbank tedesca detiene lì il 37 per cento delle sue riserve di oro, pari a 1.240 tonnellate e a 114 miliardi di euro.
Fino a poco tempo fa era una curiosità da economisti che due dei paesi europei più importanti avessero una così ampia quota di patrimonio in un altro continente. Ma con Donald Trump presidente, imprevedibile e non proprio accomodante con l’Unione Europea, la curiosità è diventata preoccupazione: una recente ricostruzione del Financial Times ha raccontato che le due banche stanno seriamente pensando di riportare indietro tutto il loro oro, che per ragioni storiche è lì da decenni.
Le riserve auree sono una componente essenziale del bilancio delle banche centrali, cioè le autorità monetarie che si occupano della stabilità dei prezzi e della moneta. L’oro infatti è il bene rifugio per eccellenza: difficilmente perde valore, non si deteriora, e non risente dell’inflazione. Ed è proprio nei momenti di incertezza e crisi finanziarie, quando il valore di quasi tutti gli strumenti finanziari crolla, che quello dell’oro invece sale a fronte della grande domanda da parte di chi cerca un investimento sicuro.
In queste occasioni le riserve d’oro – insieme a quelle detenute in valuta straniera – possono servire alle banche centrali per garantirsi i fondi necessari per intervenire sui mercati finanziari, qualora le cose dovessero mettersi male: un esempio classico è quello per cui la banca centrale deve difendere il valore della valuta che rappresenta, e quindi deve comprarne in grande quantità. L’oro è quindi una sorta di garanzia della stabilità finanziaria di un paese – più ne ha, più può far fronte facilmente a crisi valutarie – e le banche centrali di tutto il mondo detengono complessivamente un quinto di tutto l’oro estratto.
La Banca d’Italia è la terza banca centrale al mondo per dimensione della sua riserva d’oro fisico dopo quella degli Stati Uniti, la prima, e quella tedesca, la seconda. Complessivamente ne ha 2.452 tonnellate. La gran parte si trova nei depositi nazionali della Banca d’Italia (il 45 per cento), il 6 per cento è in Svizzera e un altro 6 nel Regno Unito.
Le banche centrali hanno riserve di oro anche non fisico, cioè sotto forma di strumenti finanziari derivati, ancorati al valore dell’oro. In questa storia però sono centrali solo quelle di oro fisico.

La sede centrale della Banca d’Italia, in via Nazionale a Roma (Mauro Scrobogna/LaPresse)
Ci sono ragioni sia finanziarie che storiche per cui sia la Banca d’Italia che la Bundesbank hanno una quota così ampia delle loro riserve d’oro negli Stati Uniti, divise tra la sede della FED di New York e Fort Knox, nel Kentucky, dove si trova il famoso deposito di massima sicurezza e la riserva aurea del paese. A New York c’è innanzitutto la più importante piazza di scambio di oro per gli investitori, insieme a quella di Londra. Questo motivo si lega poi alla storia del sistema internazionale dei pagamenti, in cui l’oro e il dollaro statunitense hanno avuto un ruolo centrale.
Fino alla Prima guerra mondiale tutte le monete ruotavano intorno all’oro, con un sistema che si chiamava gold standard: le banche centrali dovevano sempre assicurare la convertibilità delle banconote e delle monete in oro vero, che doveva essere tenuto come riserva in proporzione alla quantità di banconote e monete in circolazione. Si poteva insomma andare in banca e chiedere di scambiare le proprie banconote con oro, e questo garantiva un certo valore alle banconote e alle monete.
Con la Prima guerra mondiale, la ricostruzione e la crisi economica, questo sistema diventò insostenibile e si arrivò così al sistema del gold exchange standard: affiancava all’oro, troppo scarso, le valute estere ancora convertibili in oro, che potevano essere usate come strumento di riserva e per i pagamenti. In quel momento il dollaro divenne la valuta di riferimento mondiale, ruolo che rafforzò dopo la Seconda guerra mondiale con gli accordi di Bretton Woods. Questi accordi costituirono un sistema parzialmente legato all’oro, nel senso che il valore di tutte le monete dei paesi che ne facevano parte era vincolato al dollaro, il quale era a sua volta vincolato e convertibile in oro (ed era l’unica moneta a esserlo).
Allora erano i dollari la valuta con cui veniva finanziata la ricostruzione, e fu così che l’Italia portò negli Stati Uniti una parte delle sue riserve d’oro, che poi aumentarono nei decenni del “boom” economico grazie al commercio con gli Stati Uniti. Nel 1971 il presidente Richard Nixon sganciò il dollaro dall’oro, e fu la fine della convertibilità tra i due. Le riserve italiane sono però sempre rimaste lì anche perché in quegli anni i magazzini della FED e della Zecca statunitense erano considerati tra i luoghi più sicuri al mondo: c’era la Guerra fredda con il blocco comunista guidato dall’Unione Sovietica, e l’Italia era invece parte del blocco occidentale guidato dagli Stati Uniti. Ma anche a Guerra fredda finita riportare indietro tutto quell’oro è sempre stato ritenuto costoso e rischioso, e finora gli Stati Uniti erano sempre stati considerati un alleato affidabile dei paesi europei. Finora, appunto.

(AP Photo/Matthias Schrader)
Le decisioni erratiche di Trump e il suo rapporto turbolento con la Federal Reserve, il cui presidente è minacciato da mesi di venire licenziato, hanno portato a dubbi sulla sicurezza di queste riserve, e sulla possibilità di poterne disporre liberamente e velocemente in caso di crisi. Gli stessi Trump e Elon Musk – prima suo sostenitore e membro dell’amministrazione Trump e ora suo avversario politico – negli scorsi mesi avevano alimentato una teoria del complotto per cui le riserve auree di Fort Knox sarebbero state intaccate. Il segretario al Tesoro Scott Bessent aveva risposto che ogni anno c’è un controllo, e che l’oro era tutto lì.
Non ci sono quindi davvero segnali concreti che le riserve siano in pericolo, ma secondo un recente sondaggio del World Gold Council, sempre più banche centrali al mondo ritengono che in un contesto così instabile stia diventando sempre più opportuno non solo aumentare le proprie riserve d’oro, ma soprattutto tenersele vicine e a disposizione. Da qualche mese si è dunque riaperto un dibattito sull’opportunità di rimpatriare quell’oro, sia in Italia che in Germania, dibattito che in realtà in passato era già emerso.
In Germania l’idea è sostenuta da quasi tutti i partiti politici. Già nel 2010 ebbe una certa risonanza una campagna sul rimpatrio dell’oro, che portò addirittura la Bundesbank nel 2013 ad aumentare la quota delle sue riserve detenute in Germania: allora trasferì quasi 700 tonnellate di lingotti da Parigi e New York alla sua sede di Francoforte, con un’operazione che costò all’incirca 7 milioni di euro, tra trasporto e sicurezza. La Francia aveva fatto la stessa cosa a metà degli anni Sessanta, quando il presidente Charles de Gaulle decise di rimpatriare buona parte delle riserve auree perché non credeva più nel sistema di Bretton Woods.
In Italia negli scorsi anni era il partito della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, a essere il principale portavoce di questa istanza. Ma all’epoca era all’opposizione: da quando è al governo non ne ha più parlato.
Fratelli d’Italia presentò diverse mozioni in parlamento per riportare l’oro in Italia, gran parte delle quali a firma di Giovanbattista Fazzolari, oggi sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e Fabio Rampelli, attuale vicepresidente della Camera. Ad aprile lo stesso Fazzolari ha detto al Foglio che ora non è più una priorità: «Dopo i dazi americani stiamo adottando una linea del negoziato, non abbiamo intenzione di gettare benzina sul fuoco. Quello dell’oro italiano all’estero è un tema importante, ma non può essere trattato adesso».
Non tutti gli esperti sono concordi su cosa fare. C’è chi ritiene che smuovere quell’oro sia solo costoso, che negli Stati Uniti non solo è al sicuro, ma che è anche vicino al mercato più importante per lo scambio di oro, cioè New York, e che spostarlo ora sarebbe un pessimo segnale di rottura con il governo americano, con il quale già è difficile avere a che fare di per sé; e c’è chi invece ritiene che quando si parla di riserve d’oro non conta solo di chi è quell’oro, ma che è anche la disponibilità fisica dello stesso a fare la differenza, e che quindi a prescindere da Trump l’oro sarebbe bene tenerselo vicino.
Al Financial Times la Bundesbank ha comunque detto che al momento i magazzini degli Stati Uniti restano «un importante luogo di stoccaggio» e che non hanno alcun dubbio che la «FED sia un partner affidabile e degno di fiducia». A una richiesta di commento da parte del Post la Banca d’Italia ha preferito non rispondere.
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