Vita e morte di Martina Oppelli

«Dopo aver trascorso gli anni della pandemia a pregare che fosse il Covid a liberarla, Martina ha attraversato il confine che separa l’essere credente dal rivendicare il diritto di pretendere una morte dignitosa, maturando una consapevolezza esplosa grazie a una miccia (l’ha chiamata proprio così) che passa per la fede e ha una data precisa»

(ANSA/US Associazione Luca Coscioni)
(ANSA/US Associazione Luca Coscioni)
Marianna Aprile
Marianna Aprile

Marianna Aprile vive a Roma, fa la giornalista in tv (La7), alla radio (Radio 24), sui giornali (ora a Marie Claire). Ha scritto qualche libro. L’ultimo, con Luca Telese, è Materiali resistenti (Piemme).

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Vivere sul confine e parlare le lingue che lo attraversano allena a chiedersi se quel confine sia anche un limite e per cosa valga la pena valicarlo. Martina Oppelli, architetta triestina, finché ha potuto ha attraversato i confini per curiosità, per viaggiare, per lavoro; il 31 luglio lo ha fatto verso la Svizzera per esercitare quello che riteneva un diritto che qui le era negato, in un momento in cui sentiva di non avere più tempo o, meglio, di non volerne più.

Per capire la storia di Martina bisogna seguirla lungo quei confini, ogni tanto attraversarli. Quelli tracciati sulle cartine geografiche, certo, ma anche quelli tra fede e laicità, tra speranza e disillusione, tra sconfitta e accettazione, tra ciò che è consentito e ciò che non lo è, tra un diritto e un’aspirazione.

E in fondo anche quello tra la vita e la morte. Perché, prima di andare a morire in Svizzera, accompagnata da due disobbedienti dell’associazione Soccorso Civile di Marco Cappato, Oppelli ha denunciato la Asl della sua città. La accusa di tortura e omissione di atti d’ufficio, per averle per tre volte negato la possibilità di accedere al suicidio assistito in Italia, a casa sua; per averle fatto attendere troppo a lungo la valutazione delle sue condizioni; per averla insomma costretta a dovercela fare anche se da tempo non ce la faceva più. La denuncia, quindi la battaglia, le sono sopravvissute, «Ma la mia non era una guerra contro di loro, qui stiamo parlando della vita. Non sono il baluardo di nessuno. Io me ne vado. E me ne sarei andata nell’oblio, mai avrei voluto rendere pubblica la mia storia», mi ha detto il giorno prima della sua partenza.

Eravamo da lei a Trieste, in un salotto con le librerie piene di foto, libri di Philippe Daverio («L’amore della mia vita, l’unico»), ninnoli colorati, Barbie danzanti (Martina è stata una ballerina) e scarpe con i tacchi da tempo inutili (da anni era tetraplegica). Dovevamo girare un’intervista per In Onda e con un escamotage era riuscita ad allontanare per un’oretta chi si prendeva cura di lei.

Della sua decisione di partire non sapeva quasi nessuno, la sua intenzione di morire, invece, era nota a tutti almeno dal 2018. Era malata di sclerosi multipla dal 1999, aveva già le cure palliative e qualcosa in lei si era incrinato: «Ero veramente sfinita, già in condizioni pietose, tetraplegica, con la spalla lussata, gli spasmi, sintomi nuovi che riescono a sorprendermi ancora oggi. Se oggi sono ancora viva è grazie a Marco Cappato (politico e attivista dell’Associazione Luca Coscioni, ndr)».

Oppelli gli scrisse per chiedergli di aiutarla a raggiungere la Svizzera e lui, in una mail che lei ha conservato, le aveva consigliato un supporto psicologico e l’aveva messa in contatto con una specialista. «E poi continuò, con poche parole: “Sappi che, che tu scelga di vivere o di morire, noi ti sosterremo sempre”. Così è stato. Quella psicologa mi aiutò a tornare lucida e a capire che, allora, quella del suicidio assistito sarebbe stata per me una scelta disperata».

Per aver chiaro che oggi, nel 2025, non lo era più bastava parlarle per pochi minuti: «Sono radicale dalla nascita, ho Marco Pannella nel cuore. Ma sono anche credente, cattolica, cristiana… anche non so se – dopo – mi vorranno ancora. Per me, la vita prima di tutto, sempre e comunque, fino all’osso. Ma si arriva a un punto in cui dolore e fatica superano la gioia. A quel punto è giusto arrendersi».

Dopo aver trascorso gli anni della pandemia a pregare che fosse il Covid a liberarla, Martina ha attraversato il confine che separa l’essere credente dal rivendicare il diritto di pretendere una morte dignitosa, maturando una consapevolezza esplosa grazie a una miccia (l’ha chiamata proprio così) che passa per la fede e ha una data precisa: «Il 6 aprile 2023, era un Giovedì Santo. Ero qui a guardare in tv la messa In Coena Domini con papa Bergoglio. Ed è stato per me un po’ aberrante, perché dopo aver fatto finta di lavare i piedi a una schiera lunghissima di persone accuratamente scelte e già lavate, il papa cambiò espressione del volto dicendo: “Questo è un lavoro da schiavi”. E io mi sentii un verme, la più grande delle schiaviste, perché ero lì immobile e nella stanza accanto avevo una schiava che giocava con l’iPhone. Vi faccio una domanda: che cos’è più difficile, lavare piedi a pagamento o accettare di doverseli far lavare per tutta la vita pagando?».

È un momento, quello, che in qualche modo spinge Martina a spostare il confine della sua fede un po’ più in là: «Mi sono sentita abbandonata da una Chiesa che non mi ha mai capita. Quel giorno mi sentii sollevata». Sull’onda di quel sollievo, trascorse i successivi tre giorni – venerdì, sabato e domenica di Pasqua – al computer, che usava, anche per il lavoro, coi comandi vocali, a fare le pratiche per chiedere alla clinica svizzera Dignitas il suicidio assistito.

«Poi, visto che esisteva la sentenza Cappato, cominciai a informarmi per ottenerlo anche qui, dall’azienda sanitaria giuliano isontina di Trieste». Progetta una penna che grazie a una impugnatura a forma di “t” si può inserire in bocca, un suo amico gliela realizza usando due spazzolini da denti e lei nell’agosto del 2023 la usa per andare a firmare la richiesta di accesso al suicidio: «Con quella, io firmo con la bocca come se firmassi con la mano. La chiamo “la mia Montblanc”».

Quello, diceva, è stato uno dei giorni più belli della sua vita, un altro sollievo.

Per la risposta della Asl, però, serviranno mesi e due solleciti dell’avvocata di Martina, Filomena Gallo dell’Associazione Luca Coscioni, seguiti dal diniego, il primo.

Dei quattro requisiti necessari per l’accesso al suicidio assistito in Italia fissati dalla Corte costituzionale la Asl non riconosce a Oppelli quello della “dipendenza da trattamenti di sostegno vitale”, perché nonostante necessiti di assistenza 24 ore al giorno per ogni cosa (non muove nulla, dal collo in giù; ha solo la voce) non è attaccata a una macchina. Sarà questa la motivazione anche dei due dinieghi successivi, arrivati dopo diffide, ricorsi d’urgenza e interventi del tribunale di Trieste sulla Asl. Nonostante nel novembre 2023 la stessa Asl avesse riconosciuto l’accesso al suicidio assistito a un’altra donna triestina affetta dalla stessa malattia di Martina e nelle sue stesse condizioni di dipendenza da persone e non da macchine.

E nonostante un’altra sentenza della Corte costituzionale (luglio 2024) abbia stabilito che possono essere considerati “trattamenti di sostegno vitale” anche procedure compiute da terzi (come l’inserimento di cateteri, l’aspirazione di muchi dalle vie bronchiali, l’evacuazione manuale) che se interrotte causerebbero la morte.

Sui suoi account social, nel video appello che nel maggio 2024 aveva fatto al parlamento perché legiferasse sul fine vita e nell’intervista alle Iene mesi fa, Martina si è sempre mostrata curatissima, truccata, perfetta, senza mai un cenno alla sofferenza con cui conviveva («È anche questo amore per la vita»). Al punto da far venire il dubbio che la scelta di non esibire il dolore non le si sia ritorta contro, in questa storia: «Non sono una persona violenta e far vedere a ogni costo le cicatrici, le piaghe, i cateteri è lasciare un’immagine violenta. Non voglio che una persona con la mia stessa patologia si arrenda perché mi vede e non vuole diventare come me. A chi sta male voglio invece dire vivi, godi, succhia la vita; poi però bisogna fare in modo che ci sia una soluzione, quando non c’è più la gioia».

Negli ultimi mesi le sue condizioni erano molto peggiorate. Niente più teatro (la sua passione grande, era melomane), niente più uscite (era chiusa in casa dal giugno scorso), niente più passeggiate vicino al suo mare, via ogni residuo di gioia. Era arrivato anche il catetere, erano aumentati gli antiepilettici, gli “spruzzi” di spray ai cannabinoidi contro gli spasmi, gli antidolorifici, in un mix che le ha fatto trascorrere queste settimane in equilibrio sull’ennesimo confine, quello tra la necessità di non soffrire e la volontà di continuare a esserci: «Non voglio perdere la mia lucidità, la capacità di autodeterminarmi, di parlare».

A rendere tutto più complicato ci ha pensato il clima. «L’estate è il momento peggiore per quelli come me e quest’anno è arrivata prestissimo e, prima, c’è stata una primavera esplosiva». Che per Martina, da sempre allergica e asmatica, ha significato diventare per un po’ anche afona: «Io non ho mai smesso di lavorare e di gestire tutto grazie al computer coi comandi vocali, non avere neanche più la voce è stato terribile». Per questo, nonostante avesse deciso di chiedere per la quarta volta alla Asl di valutare le sue condizioni, Martina è tornata a considerare l’idea di andare in Svizzera: «Sono abituata ad avere un piano A e un piano B, ferma non ci sto, se non fisicamente. Io non vivo, ma funziono».

Piano A e piano B si muovono a cavallo di un altro confine, quello tra ciò che è legale e ciò che non lo è, tra un diritto riconosciuto anche in Italia e un servizio a pagamento offerto dalla Svizzera. «Anche per questo serve una legge sensata, che tenga conto del dolore di tutti (laica, perché siamo uno Stato laico, e lo dico da credente), altrimenti il suicidio assistito diventa una prerogativa per ricchi che fuggono all’estero», diceva. E aggiungeva che quella legge serve anche perché criteri e procedure siano gli stessi ovunque, per abbattere quindi altri confini, quelli regionali, perché a stabilire se hai diritto a morire o se sei condannato a vivere non sia il luogo in cui hai la ventura di nascere.

Martina era indignata per l’ipocrisia che naturalmente ci porta a far finta di non vedere chi la questione la risolve da sé: «Sul dark web si possono comprare delle pasticche, le prendi e via così. Io non l’ho fatto perché non sono molto brava a delinquere. Ora però mi trovo costretta a farlo per la prima volta nella vita e due persone, che mi accompagneranno, sono costrette a delinquere per me».

Poco dopo aver presentato l’ultima richiesta di valutazione alla Asl, Oppelli ha cambiato la foto del suo profilo su Facebook con una immagine fatta da lei con l’AI. Rappresenta una ballerina bionda, che le somiglia molto e che ballando si lascia alle spalle la sedia a rotelle: «È quello che desidero, è la Martina che salta leggera oltre l’immobilità di una sedia. Va oltre. Può guarire. O può morire».

Quando raccontava della sua malattia, Oppelli diceva che a darle la forza di continuare era una domanda che faceva a se stessa: chissà cosa c’è dopo. Se l’è fatta anche alla vigilia della morte in Svizzera e si è risposta da cristiana: «Mi ritroverò, da credente, di fronte a Dio; mi rimetto al suo giudizio, è giusto che sia così. Ma confido in lui, che mi accolga. E mi accoglierà, perché lo ha sempre fatto, mi ha sempre accompagnata da quando sono nata, mi ha sempre offerto tutte le opportunità, e anche le capacità per affrontare difficoltà e incognite».

Diceva che tra le ragioni per cui avrebbe voluto ottenere il permesso di morire in Italia c’era anche il desiderio di non andarsene col rimpianto di non essersi suicidata quando avrebbe potuto farlo da sé, prima del 2012, quando ancora poteva muovere una delle due mani. Non so se l’aver potuto progettare e decidere il suo viaggio in Svizzera abbia lenito quel rimpianto. So che, nonostante gli spasmi che le torturavano i muscoli del volto, il sorriso incredibilmente sereno con cui alla fine dell’intervista ha detto: «Io vado» era lo stesso delle foto che dalle pareti di casa sua raccontavano un tempo in cui Martina e la sua vita si somigliavano davvero, senza confini di mezzo.

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