L’accordo sul futuro dell’ex ILVA è ancora lontano
Il comune spinge per una transizione energetica più rapida, che non convince governo e sindacati

Il 12 agosto è in programma l’incontro per firmare l’accordo di programma sul futuro dell’ex ILVA di Taranto, il più grande impianto siderurgico d’Europa tra quelli ancora alimentati a carbone. Mancano dieci giorni, ma le posizioni del comune, del governo e dei sindacati sono ancora molto distanti nonostante le trattative portate avanti negli ultimi giorni – piuttosto caotici – che hanno portato il sindaco di Taranto Piero Bitetti prima a dimettersi e poi a ripensarci per non abbandonare il confronto sul futuro delle acciaierie.
L’incontro al ministero delle Imprese per approvare la bozza dell’accordo di programma era già previsto per giovedì 31 luglio, poi rimandato proprio per via delle dimissioni del sindaco a cui il governo ha concesso ancora qualche giorno per arrivare a un compromesso.
L’accordo di programma, che deve essere firmato dal governo, dalla regione Puglia, dal comune e dai sindacati, è un documento essenziale per stabilire i tempi della decarbonizzazione, cioè il passaggio per l’impianto a un sistema di produzione meno inquinante rispetto agli attuali altiforni alimentati a carbone. Il governo e i sindacati spingono per una soluzione che consenta di mantenere l’occupazione, mentre il comune ha proposto una versione più radicale per limitare l’impatto ambientale.
Da mesi i comitati civici e ambientalisti di Taranto, che lunedì scorso hanno contestato il sindaco portandolo alle dimissioni, sono contrari agli scenari proposti dalle istituzioni, compreso quello del comune, giudicati poco attenti alla salute degli abitanti.
L’accordo di programma è così importante perché quel documento serve a dare prospettive ai possibili compratori. L’ex ILVA è da più di un anno in amministrazione controllata dopo la fallimentare gestione del gruppo franco-indiano ArcelorMittal, a sua volta preceduta da altri commissari pubblici e prima ancora dal gruppo Riva, che la acquisì negli anni Novanta quando era uno stabilimento pubblico, l’Italsider.
La gestione attuale è insostenibile: oggi è in funzione solo un altoforno su quattro perché la manutenzione sugli altri negli ultimi anni non è stata adeguata. Nel 2024 l’impianto ha prodotto meno di 2 milioni di tonnellate di acciaio, una quota che non compensa i costi. Per questo il governo vorrebbe vendere l’acciaieria e trovare un modo per risolvere una volta per tutte gli annosi problemi ambientali e occupazionali legati all’impianto.
Gli scenari per la decarbonizzazione sono stati definiti da un comitato scientifico del ministero delle Imprese. Il primo, il più ambizioso, prevede la realizzazione di tre forni elettrici, quattro impianti chiamati Dri (Direct Reduced Iron, un modo alternativo di produrre ferro che consente di utilizzare gas al posto del carbone), un sistema per la cattura e lo stoccaggio della CO2 associato a ogni impianto Dri. Il comitato scrive che questa ipotesi comporterebbe un fabbisogno energetico significativamente più elevato e richiederebbe una pianificazione infrastrutturale anticipata sia in termini di capacità di trasporto di gas che di approvvigionamento.
Anche il secondo scenario prevede la sostituzione degli attuali altiforni con tre forni elettrici. La differenza è che non sono contemplati impianti Dri e quindi nemmeno gli impianti di cattura e stoccaggio della CO2. In questo modo però l’acciaieria, che oggi dà lavoro a circa ottomila persone, non potrebbe garantire un posto a tutti e sarebbe dipendente da forniture esterne di materiale.
Il comune ha proposto uno scenario alternativo rispetto ai due prospettati dal comitato scientifico, una soluzione intermedia con tre forni elettrici, un impianto Dri e un relativo impianto per la cattura e lo stoccaggio di CO2. In questo modo secondo il comune sarebbe sufficiente l’attuale fornitura di gas.
Venerdì, durante l’incontro con il governo, i sindacati hanno chiesto che l’investimento sui nuovi forni elettrici sia accompagnato anche dall’installazione degli impianti Dri, la soluzione più adatta a mantenere l’occupazione. Rocco Palombella della Uilm, il sindacato metalmeccanici della Uil, ha detto che tra il governo e il comune non c’è ancora nessun accordo neanche sulla produzione di acciaio con i forni elettrici: «Si annuncia di costruirne tre a Taranto e uno a Genova, senza però decidere dove e come si produrranno la materia prima e il gas indispensabili per farli funzionare. Come può un privato comprare una scatola vuota rischiando ingenti risorse finanziarie senza garanzie minime?».
La Fiom ha annunciato che i sindacati chiederanno insieme un incontro a tutti i partiti politici per trovare una soluzione. Carlo Calenda, leader di Azione, è pessimista sulla possibilità di trovare un acquirente dopo tutta questa incertezza. «Dopo che abbiamo cacciato il più grande investitore al mondo sull’acciaio, un investitore che aveva un contratto blindato per 4 miliardi con un piano ambientale da 1,8 miliardi, Taranto è chiusa. Dobbiamo solo capire quanto tempo ci vorrà e quanti soldi ci mettiamo sopra. Poi resteranno 15 miliardi di bonifiche da fare».
I prossimi giorni saranno importanti per il sindaco Bitetti, chiamato a confrontarsi con la maggioranza di centrosinistra in vista del consiglio comunale fissato il 6 agosto in cui si discuterà della proposta da portare al governo il 12 agosto e di un eventuale compromesso. Accontentare tutti sarà impossibile anche perché i comitati civici e ambientalisti chiedono da anni una decarbonizzazione non basata sul gas, ma al limite sull’idrogeno “verde” ottenuto usando solo energia prodotta da fonti rinnovabili, come l’energia solare e quella eolica, o quella da riciclo. Tutte le soluzioni proposte dal governo invece fanno affidamento sulle forniture di gas.



