I nuovi poteri di Roma

È iniziato il lungo percorso per modificare la Costituzione e dare al comune la possibilità di approvare leggi in autonomia, tra qualche dubbio dei costituzionalisti

Piazza del Campidoglio a Roma
Piazza del Campidoglio a Roma (ANSA/FABIO FRUSTACI)
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Il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge che modifica l’articolo 114 della Costituzione per dare più poteri alla città di Roma. È una riforma di cui si discute da circa 30 anni, e che sia il centrodestra che il centrosinistra hanno provato più volte a fare con diversi progetti di legge. Come qualsiasi modifica della Costituzione, il ddl dovrà passare due volte alla Camera e due volte al Senato per essere approvato definitivamente, con tempi piuttosto lunghi. Non è l’unico problema: finora infatti non è ben chiaro come questa riforma sarà applicata concretamente. Per capirlo, e per stabilire con precisione i confini dei poteri della città, servirà un’ulteriore legge.

Il disegno di legge è stato voluto tanto dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, di destra, quanto dal sindaco di Roma, di centrosinistra. Prevede che Roma potrà approvare leggi in autonomia in undici settori: trasporto pubblico locale, polizia amministrativa, governo del territorio, commercio, gestione di beni culturali e ambientali, promozione di attività culturali, turismo, artigianato, servizi e politiche sociali, edilizia residenziale pubblica e organizzazione amministrativa.

Con questa riforma Roma entrerà a far parte della struttura della Repubblica insieme a stato, regioni, province, città metropolitane e comuni. La città non viene trasformata in una regione a parte – rimarrà la regione Lazio – ma avrà più competenze e poteri legislativi. Significa che l’assemblea capitolina, ovvero il consiglio comunale di Roma approverà leggi esattamente come fa la regione sulle materie che le sono state assegnate. Ora il consiglio comunale, come qualsiasi consiglio comunale in Italia, si limita ad approvare delibere, cioè atti solitamente proposti dalla giunta su materie di competenza comunale, che sono assai ridotte. Le delibere riguardano casi specifici, progetti singoli, e si limitano ad attuare le leggi.

Avendo la possibilità di legiferare, il comune potrà aggirare questo limite. Le leggi infatti sono fonti del diritto primarie. Quindi in sintesi il sindaco potrà continuare – anzi, in alcuni casi rafforzerà – i poteri avuti durante quest’anno del Giubileo, durante il quale sono stati approvati e portati avanti progetti con molta autonomia decisionale e molti più soldi rispetto al solito.

La maggiore autonomia nella gestione del trasporto pubblico è uno dei vantaggi più evidenti. Oggi la programmazione delle corse e delle frequenze viene fatta in base ai soldi gestiti del fondo nazionale dei trasporti assegnati dallo stato alla regione Lazio, e poi distribuiti dalla stessa regione alle città e alle province. In teoria la riforma consente alla città di avere soldi direttamente dal fondo nazionale dei trasporti, con criteri speciali che dovrebbero portare più risorse per finanziare autobus e metropolitane.

Un altro esempio riguarda la possibilità di introdurre divieti per governare il fenomeno degli affitti brevi. Da anni grandi città come Roma, Milano, Firenze e Bologna chiedono – invano – al governo di concedere ai sindaci più poteri. Molte delle ordinanze e dei regolamenti finora approvati sono stati rigettati dai tribunali amministrativi regionali in seguito a ricorsi, proprio perché su questo tema la competenza è dello stato. L’unica città che finora ha avuto poteri speciali è Venezia, anche se li ha sfruttati solo in parte. Roma vorrebbe limitare la trasformazione di case abitate in affitti brevi soprattutto in centro.

Sul commercio invece il comune potrà approvare leggi per gestire meglio le occupazioni di suolo pubblico e limitare la proliferazione dei dehors, cioè gli spazi esterni aggiuntivi di ristoranti e bar. In merito all’organizzazione interna, il comune potrà gestire il personale con più autonomia dipendendo meno dalle leggi statali o regionali, con la possibilità di intervenire sugli stipendi per trattenere dipendenti e collaboratori.

Mercoledì Gualtieri ha detto che tutte queste nuove competenze hanno bisogno di nuovi finanziamenti dati direttamente dallo stato al comune, così come prima venivano dati alla regione o alle province. Si stima che Roma potrà avere circa un miliardo di euro all’anno in più di trasferimenti statali. Tutti questi dettagli, tra cui i finanziamenti e soprattutto l’applicazione concreta delle singole materie, dovranno essere inseriti in una legge di attuazione della riforma, da approvare dopo la modifica alla Costituzione.

Il disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri dovrà essere votato due volte da entrambe le camere: in prima lettura, con possibilità di modifica del testo, e in seconda lettura con approvazione a maggioranza qualificata, cioè di almeno i due terzi dei parlamentari. Se nelle seconde votazioni l’approvazione è solo della maggioranza assoluta, quindi più della metà dei componenti, è possibile chiedere un referendum popolare che confermi o respinga la riforma. La procedura per la riforma di Roma Capitale prevede quindi quattro passaggi in aula e poi la definizione e l’approvazione di una legge di attuazione.

Gualtieri ha auspicato che il processo di approvazione della legge costituzionale e della legge di attuazione sia allineato per ridurre i tempi. Ha anche chiesto che la legge di attuazione sia predisposta da una commissione composta da esponenti di governo, regione e comune di Roma. La definizione del contenuto della legge di applicazione sarà molto importante, per molti versi anche di più del ddl approvato mercoledì dal Consiglio dei ministri.

Negli ultimi anni, già discutendo le proposte di riforma presentate dalla maggioranza e dall’opposizione, diversi costituzionalisti avevano espresso dubbi sulla necessità di una legge costituzionale per dare più poteri a Roma. Molte delle critiche sono dovute al fatto che il comune di Roma Capitale ha già uno status particolare previsto dallo stesso articolo 114 della Costituzione, finora tuttavia mai attuato.

Roberta Calvano, costituzionalista dell’Università UnitelmaSapienza, segnala che la scelta di proporre una revisione della Costituzione comporta un procedimento lungo e complesso, che finirà col ritardare ulteriormente l’entrata in vigore dell’attuazione della norma costituzionale su Roma Capitale, che già esisteva.

Riformare quella norma (l’articolo 114 della Costituzione era stato modificato nel 2001, e poi mai attuato) richiederà un anno, e dopo la fine del procedimento di revisione costituzionale servirà aspettare l’attuazione del nuovo articolo 114, mentre sarebbe stato sufficiente fare una legge ordinaria per applicare quanto previsto sin dal 2001, e cioè uno status di maggiore autonomia per Roma Capitale. «Questa riforma appare insomma uno strumento di propaganda più che un provvedimento per risolvere effettivamente i problemi di Roma», dice Calvano, che sottolinea anche possibili problemi, incertezze applicative e conflitti di competenze tra Roma Capitale e le altre istituzioni. «In questa riforma non sono stati individuati in modo chiaro i confini territoriali – saranno quelli del comune di Roma o della città metropolitana? [cioè la provincia, ndr] – così come quelli tra le competenze statali, regionali e quelle della nuova entità Roma Capitale. Il rischio che si produca solo altra confusione è elevato».

Calvano e altri costituzionalisti sostengono anche che molti dei settori coinvolti nella riforma non avrebbero bisogno di poteri legislativi. A Roma basterebbe applicare in modo più efficace regolamenti comunali, organizzare meglio procedure amministrative e avere adeguate risorse finanziarie, senza la necessità di attribuire a Roma il potere di approvare nuove leggi che potrebbero complicare l’assetto legislativo già molto complesso.