Quante cose si possono dire su questa banale sedia di plastica
Tante: le abbiamo scritte tutte qui dentro

La sedia di plastica bianca monoblocco, quella impilabile dei bar sulla spiaggia e degli spettacoli in piazza di tutto il mondo, resistente e facile da pulire, quest’anno ha avuto un piccolo momento di gloria quando è diventata la protagonista della copertina dell’ultimo e ascoltatissimo disco del cantante portoricano Bad Bunny. Nella foto, che ha fatto il giro del mondo, si vedono infatti due normalissime sedie bianche di plastica, diverse e un po’ storte, su un prato.
Quella sedia, in tutte le sue molte varianti, è probabilmente uno degli oggetti più riconoscibili e allo stesso tempo anonimi di sempre. È diventata popolare ovunque per il suo design semplice e funzionale e perché costa poco: gli stessi motivi per cui viene generalmente considerata dozzinale e brutta da vedere. Sebbene se ne trovino ovunque, non si può dire con certezza chi l’abbia inventata.
Paola Antonelli, curatrice del dipartimento di Architettura e Design del MoMA di New York, racconta che la sedia monoblocco nacque dal desiderio diffuso tra i designer del secondo dopoguerra di creare la sedia industriale perfetta. Con la sperimentazione di nuove tecniche e nuovi materiali si arrivò a impiegare il polipropilene, che veniva riscaldato a 220 °C e poi inserito in grossi stampi di metallo, di modo da ottenere una sedia fatta di un unico pezzo: da qui appunto il nome Monobloc, “monoblocco”.
Si ritiene che la prima sedia di questo tipo sia stata quella fatta dal designer canadese D.C. Simpson nel 1946, ma negli anni Sessanta ne spuntarono molti altri modelli, di colori e forme diverse: tra queste la sedia Panton del danese Verner Panton e la Bofinger del tedesco Helmut Bätzner, oppure ancora la Selene del designer italiano Vico Magistretti e la sedia universale di Joe Colombo. Fu però nei primi anni Settanta che vennero perfezionate le tecnologie per produrre sedie davvero economiche in massa.

Immigrati pakistani seduti su tre sedie monoblocco in un parcheggio di Salalah, Oman, 15 dicembre 2019 (Obie Oberholzer/laif via Contrasto)
Era il 1972 quando l’ingegnere francese Henry Massonnet realizzò il primo prototipo della sua Fauteuil 300, considerata il modello della sedia di plastica monoblocco che conosciamo oggi. Massonnet era riuscito ad accorciare il ciclo produttivo a soli due minuti, però non depositò mai una richiesta di brevetto: il risultato fu che molte aziende cominciarono a farne modelli simili, mantenendo grossomodo la forma e variando al massimo i colori o le sezioni forate su schienale e seduta.
Fin dagli anni Ottanta cominciarono a vendersene milioni se non miliardi in tutto il mondo, a partire dalla Resin Garden dell’azienda francese Grosfillex. Inizialmente costava l’equivalente di circa 50 euro: adesso farne una costa circa 3, e sul mercato si trova attorno ai 10.

Sedie di plastica impilate a Castel di Tora, sul lago del Turano, nel Lazio, 15 marzo 2013 (Christian Jungeblodt/laif via Contrasto)
Qualche anno fa l’informatico ed esperto di comunicazione Ethan Zuckerman, peraltro inventore dei pop up pubblicitari, scrisse che praticamente quasi ogni oggetto indica un tempo e un luogo, mentre la sedia monoblocco è uno di quei pochi che sono slegati da un contesto specifico. Se ne vedono nei bar lungo le spiagge italiane e nei mercati di strada a Bangkok, così come nei giardini privati e nelle chiese in Uganda.
Se da un lato questa sedia si è diffusa moltissimo per la sua semplicità e versatilità, dall’altro spesso viene vista come un oggetto anonimo e dozzinale. Per dare un’idea: dal 2008 al 2017 fu vietata negli spazi pubblici di Basilea, in Svizzera, perché considerata troppo brutta per il decoro urbano. A ogni modo nel 2017 le è stata dedicata una mostra al Vitra Design Museum, uno dei più importanti musei di architettura e design industriale, nel sudovest della Germania, e più di recente è stata anche al centro di un documentario. Il New York Times l’ha inserita nella sua lista dei 25 oggetti di arredamento più rappresentativi degli ultimi cent’anni, definendola «sia l’originale che l’imitazione».

Sedie monoblocco in una piscina di Atene dopo i gravi incendi del novembre 2018 (Joris van Gennip/laif via Contrasto)
Secondo Antonelli la sedia monoblocco è un paradosso nella storia del design, e simboleggia le complessità della cultura consumistica di oggi. In certi paesi è considerata un oggetto di valore e viene riparata o riadattata, per esempio per farci delle sedie a rotelle; molto più spesso però è vista come un oggetto così economico e facilmente rimpiazzabile che non ci si fa problemi ad accumularle e poi a buttarle via, con tutto ciò che comporta lo spreco di plastica per l’ambiente. Addirittura in un saggio del 2004 l’autore e artista tedesco Ingo Niermann le definì «il vero male della globalizzazione».
Nell’ultima decina d’anni ci sono stati alcuni artisti che l’hanno rivisitata, anche in chiave critica: tra questi ci sono il designer spagnolo Martí Guixé, l’altoatesino Martino Gamper e il russo Kuril Chto, che alla Biennale di Venezia del 2024 ne ha fatto un’installazione concettuale.
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