Il grande abbaglio sugli utensili di plastica nera da cucina
Da mesi uno studio con diversi errori sulla sicurezza di spatole, mestoli e altri strumenti genera preoccupazioni e incomprensioni

Lo scorso autunno uno studio pubblicato negli Stati Uniti segnalò che negli utensili di plastica nera che si usano per cucinare c’erano quantità rilevanti di ritardanti di fiamma, sostanze che possono essere pericolose per la salute. Non era la prima ricerca a farlo, ma fu rapidamente ripresa da alcune delle più grandi testate al mondo, talvolta con titoli perentori come “Gettate la vostra spatola di plastica nera”. Generò apprensione e soprattutto confusione intorno ad alcuni degli oggetti più utilizzati in cucina, al punto che se ne parla in quei termini ancora oggi nonostante quello studio sia stato ampiamente ridimensionato a causa di alcuni gravi errori di metodo e di calcolo.
È una storia che mette insieme un certo modo disinvolto di fare ricerca, qualche conflitto di interessi, la faciloneria con cui a volte viene raccontata la scienza e le nostre paure su cosa potrebbe farci ammalare, soprattutto tra le cose che mangiamo.
Lo studio era stato pubblicato sulla rivista scientifica Chemosphere da un gruppo di ricerca legato a Toxic-Free Future, un’associazione di Seattle (Stati Uniti) impegnata nel fare campagne per chiedere che sia vietato l’uso di determinati prodotti “chimici”. La ricerca si concentrava in particolare sui ritardanti di fiamma, cioè sulle sostanze che vengono aggiunte ad alcune plastiche per ridurre il rischio che prendano facilmente fuoco.
Ne esiste una grande varietà e sono strettamente sorvegliati dalle autorità scientifiche e di controllo da anni, proprio perché di alcune è nota la pericolosità per la salute se si superano certe soglie di esposizione. Non c’è ancora un consenso scientifico sugli effetti, in particolare sugli umani, ma in generale si ritiene che sopra certe quantità i ritardanti di fiamma possano causare danni al sistema riproduttivo, al sistema nervoso e ad alcuni organi come il fegato. La mancanza di evidenze conclusive per quanto riguarda gli umani rende difficile stabilire l’entità degli effetti e anche il calcolo di un “livello sicuro”, cioè una quota di esposizione entro la quale i rischi per la salute sono estremamente bassi.
L’impiego dei ritardanti di fiamma è strettamente normato nell’Unione Europea e, seppure in misura inferiore, negli Stati Uniti con alcune di queste sostanze che sono state via via vietate. In altre aree del mondo, come la Cina, le restrizioni sono state introdotte da meno tempo e ci sono dubbi sulla loro applicazione, che potrebbe influire sulla presenza di sostanze vietate soprattutto nei dispositivi elettronici, che per loro natura sono più esposti al rischio di prendere fuoco accidentalmente.
In generale i ritardanti di fiamma non servono negli utensili da cucina, perché un mestolo o una spatola non sono a rischio di incendiarsi durante il loro normale utilizzo in cucina. Non vengono quindi aggiunti intenzionalmente dai produttori, ma c’è il sospetto che in alcuni casi possano essere presenti se gli utensili sono stati realizzati partendo dalla plastica riciclata. Le plastiche nere sono molto usate nei dispositivi elettronici e quelle più vecchie potrebbero contenere ritardanti di fiamma ora vietati. Identificarli non è però semplice e questo ci porta allo studio pubblicato lo scorso ottobre.
Il gruppo di ricerca ha acquistato 203 prodotti in plastica nera, tra utensili da cucina, accessori per capelli, contenitori per alimenti e giocattoli e li ha analizzati per ricercare la presenza di bromo, un elemento chimico utilizzato per la produzione dei ritardanti di fiamma (bromurati). Dagli oggetti di partenza ne ha isolati 20 che contenevano più bromo degli altri e ha compiuto analisi più approfondite per stimare la presenza dei ritardanti e la loro quantità. Il gruppo si è concentrato in particolare sul BDE-209, una vecchia conoscenza dei regolatori perché impiegato per quasi 40 anni, prima di essere limitato in molti paesi per la sua pericolosità. Il BDE-209 è stato messo al bando nell’Unione Europea da tempo e non può essere presente nei materiali a contatto con gli alimenti (definiti MOCA).
Lo studio segnalava la presenza dei ritardanti di fiamma in 17 dei 20 campioni selezionati tra i 203 di partenza. Sul totale erano quindi meno del 10 per cento, ma la notizia era stata ripresa da molti giornali segnalando un dato dell’85 per cento, senza specificare che in questo caso ci si riferiva ai soli campioni analizzati più approfonditamente. Sembrava quindi che il problema riguardasse una quantità molto più grande di prodotti rispetto a quanto effettivamente riscontrato e già questo aveva contribuito alla circolazione di articoli a dir poco allarmati.
Se i ritardanti sono presenti negli utensili di plastica nera da cucina, occorre capire quale sia l’effettiva esposizione da parte di chi li utilizza. Per farlo la ricerca si rifaceva a uno studio pubblicato qualche anno prima per il quale i ricercatori avevano sminuzzato gli utensili in frammenti di pochi millimetri e li avevano poi immersi in olio bollente per circa quindici minuti, rilevando poi quanti ritardanti fossero stati rilasciati dalla plastica. Era uno scenario poco verosimile, considerato che se si sta friggendo qualcosa non si lascia una paletta di plastica costantemente immersa nell’olio per un quarto d’ora.
Usando quei dati, il gruppo del nuovo studio aveva concluso che l’esposizione giornaliera al BDE-209 per una persona adulta di 60 chilogrammi che usa utensili di plastica nera per cucinare fosse 34.700 nanogrammi, un valore che veniva definito molto vicino al limite di 42.000 nanogrammi, che lo studio diceva di avere calcolato usando le soglie di sicurezza dell’Agenzia per la protezione per l’ambiente (EPA) degli Stati Uniti. C’era però un problema non da poco che sarebbe emerso nelle settimane seguenti alla pubblicazione dello studio: il calcolo era sbagliato.
Tra i primi ad accorgersene ci furono Joe Schwarcz, chimico e tra i più famosi divulgatori nordamericani, e il divulgatore italiano Ruggero Rollini che scrisse alla rivista che aveva pubblicato lo studio per chiedere chiarimenti. Il 42.000 indicato nella ricerca era stato ottenuto moltiplicando i 7.000 nanogrammi per chilogrammo della soglia di riferimento dell’EPA per il peso di un’ipotetica persona di 60 chilogrammi, solo che nel farlo il gruppo di ricerca si era evidentemente perso per strada uno zero. 7.000 moltiplicato per 60 fa infatti 420.000, quindi un numero estremamente lontano dai 34.700 nanogrammi dell’esposizione stimata.
La rivista pubblicò una correzione all’articolo tardivamente, quando ormai la ricerca era stata ampiamente ripresa dai media, e gli autori dello studio sostennero che comunque l’impianto generale del loro lavoro fosse rimasto invariato e indicasse una rilevante presenza di ritardanti di fiamma in quegli utensili. Qualche mese dopo, sarebbe emerso un altro errore in una delle formule utilizzate dal gruppo di ricerca, tale da portare a un’ulteriore riduzione della stima di esposizione a meno del 2 per cento. In seguito alla scoperta del nuovo errore, nella comunità scientifica sono state espresse ulteriori perplessità sullo studio e la proposta di ritirarlo perché scarsamente affidabile.
Nonostante gli evidenti errori, lo studio riaffiora periodicamente soprattutto sui social network, con video in cui viene suggerito di non utilizzare gli utensili da cucina in plastica nera o con allarmi più ampi sulla mancanza di controlli. In realtà, come abbiamo visto, controlli e limitazioni ci sono e proprio negli ultimi anni si sta discutendo sulla possibilità di introdurre ulteriori limitazioni.
Nell’Unione Europea il compito di fare le valutazioni scientifiche su queste cose spetta all’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA), che analizza la letteratura scientifica sulle sostanze e sulla base di questa fornisce un proprio parere. La Commissione Europea ha poi il compito di prendere in considerazione i pareri dell’EFSA e di tradurli in decisioni politiche, sulla base delle valutazioni del rischio e di altri parametri, come la fattibilità di alcune limitazioni. I ritardanti di fiamma, per esempio, hanno senso in alcune applicazioni in ambito automobilistico e dell’aviazione, per questo vengono previste eccezioni su alcune sostanze.
I gruppi di lavoro studiano da tempo i MOCA, cioè i materiali a contatto con gli alimenti, per capire come determinate sostanze chimiche presenti in questi materiali possono trasferirsi nei cibi e nelle bevande che consumiamo. Nell’Unione Europea i MOCA devono essere prodotti seguendo specifici regolamenti, in modo che qualsiasi potenziale trasferimento di sostanze agli alimenti non dia problemi di sicurezza. Ci sono regole specifiche per le plastiche, sia su come devono essere prodotte sia utilizzate per quanto riguarda l’impiego con gli alimenti.
Detta in modo più semplice, se una spatola di plastica nera viene venduta regolarmente nell’Unione Europea significa che soddisfa i limiti di sicurezza, stabiliti sulla base delle attuali conoscenze. In Europa non è vietata la vendita di prodotti per alimenti ottenuti con plastica riciclata, ma questa deve venire da materie plastiche già prodotte per essere usate in ambito alimentare o prodotta con nuove tecnologie, che devono essere sottoposte a valutazione da parte dell’EFSA. È quindi improbabile che con queste regole possano finire nella plastica riciclata per gli alimenti quantità significative di plastiche usate per materiale elettrico ed elettronico.



