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  • Mercoledì 23 luglio 2025

Una giornata alla ricerca di cibo nella Striscia di Gaza

Per riceverlo bisogna partire di notte, camminare chilometri e aspettare ore: ogni volta si rischia di essere uccisi, spesso è inutile

Una famiglia palestinese mostra il cibo recuperato in un sito della Ghf (AP Photo/Abdel Kareem Hana)
Una famiglia palestinese mostra il cibo recuperato in un sito della Ghf (AP Photo/Abdel Kareem Hana)
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Dal 27 maggio l’unica organizzazione autorizzata a distribuire cibo nella Striscia di Gaza è la Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), fondata su impulso di Israele per rimpiazzare la rete della distribuzione del cibo che da molti anni era formata da circa 200 ong. Ci sono limitate e saltuarie eccezioni, ma i palestinesi possono trovare cibo quasi solo nei centri gestiti dalla Ghf. I centri sono quattro, contro i 400 punti di distribuzione attivi in precedenza: per raggiungerli bisogna fare un viaggio lungo e pericoloso e passare notti o giorni interi in coda, con poche certezze di riuscire a ottenere davvero qualcosa.

I punti di distribuzione restano aperti pochi minuti al giorno: tempo in cui le persone corrono ad accaparrarsi tutto ciò che possono, senza troppe regole. Solo pochissimi riescono a tornare a casa con qualche rifornimento di cibo e spesso soldati israeliani e contractor statunitensi sparano sulla folla, uccidendo ogni volta decine di persone. Secondo le Nazioni Unite dal 27 maggio a oggi più di 1.000 palestinesi sono stati uccisi mentre cercavano di ottenere del cibo.

I quattro centri sono chiamati ufficialmente Sds, ossia “Secure distribution sites”, siti di distribuzione sicuri, anche se non hanno nulla di sicuro. Hanno strutture simili: uno spiazzo recintato e sorvegliato da torrette militari, vicino a installazioni militari, con una strada di accesso sul retro per i camion e due percorsi pedonali, uno di entrata e uno di uscita.

Tre centri sono nella zona meridionale: Tal al Sultan (anche detto Villaggio svedese), Quartiere Saudita e Khan Yunis. Uno è al centro della Striscia, vicino al corridoio militare Netzarim: il Wadi Gaza. Tutti sono all’interno di zone che Israele definisce di “operazioni militari” (l’esercito controlla ormai l’85 per cento della Striscia), ossia aree in cui i palestinesi normalmente non possono stare: possono entrarci solo quando i siti di distribuzione sono aperti.

Un centro di distribuzione sorvegliato da un carro armato (AP Photo/Abdel Kareem Hana)

Funzionano secondo la regola nota in inglese come “first come first served”, “il primo che arriva è il primo a essere servito”, motivo per cui essere lì per primi è fondamentale. Capire quando aprono però è il primo problema. Nelle prime settimane venivano aperti in modo totalmente imprevedibile, anche di notte. Ora il sistema è diventato un po’ più regolare (di solito in mattinata, fra le 9 e le 12), ma l’inizio della distribuzione può variare anche di alcune ore. Ci sono poi giorni in cui l’attività è sospesa.

La Ghf comunica le aperture attraverso vari canali social: una pagina Facebook, canali Telegram e WhatsApp. Lo fa però pochi minuti prima dell’effettiva apertura, e ci sono stati giorni in cui il post con cui segnalava la chiusura per esaurimento scorte arrivava prima di quello dell’apertura. Insomma, i social non sono una fonte sufficiente o affidabile, soprattutto per chi deve partire ore prima per raggiungere le code. Bisogna avvicinarsi al centro, e poi aspettare e sperare.

Per arrivare ai centri da al Mawasi o Deir al Balah può essere necessario spostarsi di una decina di chilometri (quasi sempre a piedi): si parte in piena notte, ci si avvicina al sito fino a dove si può e si aspettano segnali di apertura. Bisogna attraversare zone militari e chi lo fa troppo presto viene considerato “una minaccia” dall’esercito israeliano: sparano i soldati, sparano i droni e sparano i carri armati. Chi lo fa troppo tardi però resta senza cibo.

Chi c’è stato racconta che dal segnale di apertura del sito scatta una corsa verso i cancelli e i checkpoint: se è un falso allarme, si rischia la vita. Nei giorni scorsi alcuni siti della Ghf hanno introdotto un sistema di bandiere: bandiera verde quando il sito è aperto, rossa chiuso. L’hanno molto pubblicizzata, anche con post con vignette create con l’intelligenza artificiale.

La folla all’esterno del centro di Khan Yunis (AP Photo/Abdel Kareem Hana)

L’ultima parte delle code prevede un percorso fra reticolati con filo spinato, con una serie di corsie e un checkpoint finale: era previsto un riconoscimento d’identità con scannerizzazione dell’iride (per verificare chi avesse diritto a ricevere il pacco settimanale), ma questi controlli spesso saltano, per ammissione della stessa Ghf. È un’altra fase in cui si possono creare enormi problemi, per la pressione della folla e per la disperazione di chi si rende conto che non otterrà nulla. In varie occasioni gruppi di persone hanno provato a scavalcare le recinzioni o ad abbatterle: soldati e contractor hanno sparato e i siti sono stati chiusi immediatamente.

In testa alla coda arrivano quasi sempre uomini soli e giovani, mentre donne, bambini e anziani restano indietro. A volte i contractor cercano di creare dei corridoi riservati, ma sono iniziative saltuarie che a volte provocano reazioni da chi si vede superato. Sulla sua pagina Facebook Ghf ha annunciato per domani, giovedì, una distribuzione per sole donne nel centro “Quartiere Saudita”, rimandando a domani per i dettagli.

Gli scatoloni con il cibo sono posizionati all’interno dello spiazzo, su tavoli, cassoni o per terra. Chi entra dentro prende quello che può, spesso trasferendo il contenuto dentro sacchi portati da casa. Ghf sostiene che ogni scatolone contenga il necessario per 60 pasti, e così conteggia i pasti distribuiti (dice di aver superato gli 80 milioni). Il contenuto non è sempre lo stesso, ma di solito ci sono 4 chili di farina, un paio di pacchi di pasta, due lattine di fagioli, due pacchi di riso, una scatola di bustine di tè, dei biscotti. Olio per cucinare, lenticchie e zucchero sono presenti solo in alcuni scatoloni.

Uno degli scatoloni della Ghf (AP Photo/Abdel Kareem Hana)

Nel giro di dieci-quindici minuti finisce tutto, in una competizione che diventa spesso violenta. Per questo molte persone devono provare a tornare più volte e alcune stanno spostando le loro tende nei punti accessibili più vicini ai siti. Per chi vive lontano la spedizione può occupare gran parte di una giornata e rivelarsi inutile.

Anche per chi è riuscito a ricevere del cibo i problemi non sono finiti: bisogna infatti ripercorrere la lunga strada verso casa e alcuni palestinesi hanno raccontato di essere stati fermati al ritorno da persone armate e incappucciate che hanno rubato almeno parte del cibo.

Il pericolo maggiore è però costituito dall’esercito israeliano. Il medico spagnolo Raúl Incertis Jarillo, che lavora in un ospedale vicino ai punti di distribuzione, dice che le persone ferite raccontano tutte che i soldati sparano sui civili «senza avvertimenti e senza motivo». Non solo le situazioni descritte in precedenza possono causare le stragi: vari testimoni dicono che gli attacchi sui civili sono spesso totalmente imprevedibili e sembrano deliberati.

Il ritorno in una tenda vicino a Rafah di un uomo palestinese dopo una giornata alla ricerca di cibo in un sito della Ghf (AP Photo/Abdel Kareem Hana)

Per questo buona parte della popolazione palestinese ha evitato in queste settimane di avvicinarsi ai centri Ghf, nonostante la scarsità di cibo. Le alternative sono comprare cibo sul mercato, in quantità sempre minore e a prezzi sempre meno sostenibili; mangiare i pochi ortaggi coltivati sul posto; talvolta affidarsi ai rifornimenti dei pochi camion delle Nazioni Unite che attraversano il confine nord. Ma è sempre più difficile, i casi di malnutrizione sono sempre più frequenti e le persone costrette a tentare la fortuna verso i centri Sds sempre di più, nonostante siano consapevoli dei rischi. Mercoledì 109 organizzazioni umanitarie hanno diffuso un comunicato congiunto per chiedere al governo israeliano di permettere l’ingresso di cibo e altri beni essenziali nella Striscia di Gaza, dicendo che «l’assedio» di Israele nella Striscia «affama le persone».