Una giornata con i braccianti nei campi del Fucino, in Abruzzo

Tra caporali che controllano i migranti, agricoltori che protestano per i controlli e misure di sicurezza inesistenti

di Angelo Mastrandrea

Lavoratori migranti raccolgono il radicchio nella piana del Fucino (Angelo Mastrandrea/il Post)
Lavoratori migranti raccolgono il radicchio nella piana del Fucino (Angelo Mastrandrea/il Post)
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Alle 10 di mattina Youssef Boussanna sta raccogliendo finocchi già da otto ore. Ha cominciato a lavorare alle 2 con una torcia sulla fronte, e ora va avanti sotto il sole, senza protezione. Non sa quando finirà il turno: prima la squadra, formata da una trentina di persone, deve riempire tutte le pile di cassette ancora vuote e caricarle su un camioncino per portarle via. Nel pomeriggio arriverà un altro gruppo di lavoratori, che raccoglierà i finocchi fino alle 2 del mattino successivo.

Lavoratori migranti raccolgono radicchio nella campagna di Trasacco (Angelo Mastrandrea/il Post)

Boussanna ha 25 anni, viene da un paesino nei dintorni di Casablanca, in Marocco, ed è arrivato nella piana del Fucino, in Abruzzo, tre anni fa dopo un viaggio a piedi attraverso l’Algeria e la Libia, e un altro viaggio di quattro giorni su un’imbarcazione verso la Sicilia senza cibo né acqua. Vorrebbe avere la residenza in Italia, ma non ci riesce perché non ha il permesso di soggiorno. Vorrebbe ottenerlo, dice, per poter tornare in Marocco a rivedere la sua famiglia.

Youssef Boussanna al lavoro nella piana del Fucino (Angelo Mastrandrea/il Post)

Secondo le stime dei sindacati, nelle campagne del Fucino lavorano almeno 6.500 persone, che arrivano anche a 10mila nei periodi di picco delle produzioni. La maggior parte sono migranti provenienti dal Marocco. Il campo in cui Boussanna raccoglie finocchi si trova tra le campagne di Ortucchio, Trasacco e San Benedetto dei Marsi, al centro della piana. Una volta la zona era un lago di 160 chilometri quadrati, poi prosciugato dal principe Alessandro Torlonia alla metà dell’Ottocento. Ci si arriva imboccando una serie di stradine sterrate e polverose utilizzate solo dai pulmini che trasportano i lavoratori, dai fuoristrada dei proprietari dei terreni e dalle bici dei lavoratori a giornata, che non fanno parte di nessuna squadra e sono i meno tutelati. Ogni via è identificata da un numero.

Lungo la strada 32, il primo luglio, un lavoratore rumeno ha investito con un trattore un altro lavoratore marocchino dopo una lite, uccidendolo sul colpo.

A poche centinaia di metri, alla fine di ottobre del 2024 A., un ventiquattrenne proveniente come Boussanna da un villaggio a sud di Casablanca, venne travolto da un ingranaggio di una macchina per la raccolta delle carote. La sua storia l’ha raccontata il Post a maggio. Il titolare dell’azienda e un caporale lo abbandonarono al pronto soccorso dell’ospedale di Pescina intimandogli di dire che era caduto da un muretto. Solo dopo sette mesi A. decise di denunciare l’incidente e così ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari: pensava di poter rientrare al lavoro e di ricevere i compensi stabiliti per i due mesi in cui era stato impiegato in nero. Sulla vicenda c’è un’inchiesta in corso di cui non si sa ancora nulla. L’unico particolare finora emerso è che, secondo le verifiche fatte dall’ispettorato del lavoro dell’Aquila, nell’azienda agricola per cui A. lavorava non risulterebbero persone dipendenti, cioè assunte con un regolare contratto.

Un pulmino che trasporta braccianti nella piana del Fucino (Angelo Mastrandrea/il Post)

Raccoglitori di radicchio a Trasacco (Angelo Mastrandrea/il Post)

– Leggi anche: Storia di una quasi morte sul lavoro

Per diversi chilometri, da Trasacco verso San Benedetto dei Marsi, ci sono terreni dove si coltivano ortaggi e tuberi che crescono a terra o sotto il suolo, come barbabietole, carote, cipolle, insalata e patate. Non ci sono alberi e nessun tipo di riparo. Nei campi sono completamente assenti anche i servizi igienici: per la legge ce ne vorrebbe uno ogni dieci lavoratori, con acqua potabile, lavabi con il sapone e asciugamani. «In campagna non ce n’è bisogno, i lavoratori sono tutti maschi e possono fare i loro bisogni all’aria aperta», dice Luigi Fina, un imprenditore che gestisce 300mila metri quadrati di terreni coltivati a radicchio.

In un altro terreno alcuni lavoratori raccolgono indivia. Non parlano volentieri e appaiono in imbarazzo quando gli si fanno delle domande. Hamid Hafdi, un mediatore culturale della FLAI (Federazione dei lavoratori dell’agroindustria) CGIL, scambia qualche battuta con loro in arabo. Dice che tra di loro c’è il caporale, che è un loro connazionale, e per questo hanno paura di parlare. «Quando ti accorgi che si guardano attorno vuol dire che stanno cercando l’autorizzazione del caposquadra», spiega. Non è un caso isolato. In una giornata trascorsa nelle campagne del Fucino non si vede neppure un caporale, ma se ne percepisce spesso la presenza. «Quando vai in un campo e c’è un lavoratore che vuole parlare per tutti gli altri, di solito è il caposquadra ed è bene diffidare», dice Hafdi.

Un bracciante in un campo di indivia nella piana del Fucino (Angelo Mastrandrea/il Post)

I «capi», come vengono anche chiamati, sono spesso nei campi a gestire i lavoratori, a guidare i trattori e se serve a fare da interpreti con il proprietario. Sono loro a guidare i pulmini parcheggiati lungo la strada, in genere forniti dal datore di lavoro. I migranti arrivati da poco si rivolgono a loro per trovare lavoro e risolvere qualsiasi problema, e anche per farsi portare al lavoro nei campi, poiché non esiste un servizio di trasporti pubblico. Lo fanno anche molte aziende, che si appoggiano alla rete di caporali per trovare i lavoratori che gli servono e negoziare le paghe. Molti imprenditori lo definiscono «caporalato di necessità»: sostengono che rivolgersi a loro è l’unico modo per reclutare lavoratori stagionali per l’agricoltura.

In un campo di patate, alcuni sindacalisti della FLAI CGIL distribuiscono ai lavoratori acqua e cappelli di paglia per proteggersi dal sole. Fanno parte delle «brigate del lavoro» organizzate dal sindacato per raggiungere i braccianti nelle campagne e monitorare le loro condizioni di lavoro. In pochi giorni ne hanno incontrati un migliaio. «Le misure di sicurezza non sono quasi mai rispettate, c’è una presenza costante dei caporali e molti lavoratori ci hanno detto che la paga oraria è inferiore a quella prevista dal contratto», riassume Luigi Antonetti, segretario locale della FLAI CGIL. Hafdi racconta che molti gli hanno detto, in arabo, che hanno contratti solo per poche ore e invece lavorano per 12 ore di fila, «fino a quando dice il padrone», con turni anche notturni. Molti lavoratori marocchini incontrati in una giornata nelle campagne del Fucino riferiscono di non aver trovato in Italia quello che si aspettavano, e aspirano ad andare in Francia, un giorno.

Un lavoratore marocchino in un campo di patate nella piana del Fucino (Angelo Mastrandrea/il Post)

Un lavoratore marocchino in un campo di patate nella piana del Fucino (Angelo Mastrandrea/il Post)

Un bracciante al lavoro in un campo di patate nella piana del Fucino (Angelo Mastrandrea/il Post)

Un pick up con due persone a bordo, italiane, si ferma lungo la strada. Cominciano a inveire contro i sindacalisti, intimandogli di andarsene. Dicono che è per colpa di chi li protegge che «questi [i braccianti, ndr] ora vogliono comandare». Urlano frasi razziste contro i lavoratori, insultano e minacciano i sindacalisti, che non reagiscono e si allontanano in silenzio. Spiegano che, dopo la denuncia dell’incidente di A., in prefettura è stata creata una “task force” di poliziotti, finanzieri e ispettori del lavoro che hanno aumentato i controlli nei campi, nelle aziende e anche lungo le strade tra i campi per intercettare i pulmini guidati dai caporali, e questo ha provocato tensioni con alcuni agricoltori e piccoli proprietari di terreni. Antonetti dice anche che non sono tutti così, anzi: la maggior parte degli imprenditori ha fatto andare i sindacalisti nei campi e ha risposto alle loro domande.

Secondo i dati della prefettura, dalla fine di maggio in tutta la piana sono state controllate oltre 200 aziende e ci sono state alcune decine di sanzioni per irregolarità contrattuali. Un allevamento di pecore è stato chiuso perché all’interno c’erano due pastori che lavoravano in nero per 12 ore al giorno. I lavoratori hanno raccontato che venivano pagati 2 euro l’ora ed erano costretti a dormire nella stalla insieme a 400 pecore.