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  • Venerdì 11 luglio 2025

La sentenza sul genocidio di Srebrenica cambiò le cose

Nel 2001 un comandante serbo bosniaco fu condannato con un’interpretazione innovativa del concetto di genocidio, che ha effetti ancora oggi

Un gruppo di donne e bambini bosgnacchi lasciano Srebrenica a marzo del 1995 (AP Photo/Michel Euler, File)
Un gruppo di donne e bambini bosgnacchi lasciano Srebrenica a marzo del 1995 (AP Photo/Michel Euler, File)
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Nel luglio del 1995 nella città bosniaca di Srebrenica, abitata a maggioranza da bosgnacchi (bosniaci musulmani), ci fu il più grave massacro di civili in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Il massacro fu compiuto dalle forze serbo bosniache, che il giorno prima erano entrate in città dopo un assedio durato tre anni. I serbo bosniaci separarono circa 25mila donne, bambini e anziani bosgnacchi dagli uomini da loro ritenuti in età militare, e che avevano all’incirca dai 15 ai 65 anni: i primi vennero caricati su autobus e portati via. Più di 8mila uomini, invece, furono uccisi. La loro sicurezza avrebbe dovuto essere garantita da un contingente di militari delle Nazioni Unite, che invece non intervenne.

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I processi per i fatti di Srebrenica furono tra i più complessi e importanti per crimini internazionali del secondo Dopoguerra.

18 persone furono condannate dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, creato nel 1993 dalle Nazioni Unite, e dall’organo che gli succedette. La cosa più rilevante del processo fu il fatto che 7 imputati furono condannati per genocidio, uno dei crimini più gravi previsti dal diritto internazionale, che fino a quel momento era stato associato solo a massacri sistematici compiuti su dimensioni enormi. Stabilire di applicarlo per i fatti di Srebrenica – dove a essere uccise furono poche migliaia di persone – fu una decisione rilevante, che ha effetti ancora oggi nel dibattito tra giuristi e sulla giurisprudenza.

Il massacro di Srebrenica fu compiuto durante la guerra in Bosnia Erzegovina, iniziata nel 1992 fra l’esercito del paese, che era appena diventato indipendente, e le forze della Republika Srpska, entità creata dai serbi bosniaci e guidata da Radovan Karadžić. La Jugoslavia aveva già cominciato a sgretolarsi e in quel momento era formata unicamente da Serbia e Montenegro. Srebrenica si trovava nei territori controllati dai serbi bosniaci, nonostante fosse abitata per lo più da bosgnacchi: la città era assediata dall’inizio della guerra e le condizioni di vita al suo interno erano durissime.

Il generale serbo bosniaco Ratko Mladic rassicura gli abitanti di Srebrenica che non sarà fatto loro del male, poche ore prima dell’inizio del massacro, il 12 luglio 1995.

Nei giorni successivi alla conquista di Srebrenica da parte delle truppe serbe bosniache, nel luglio del 1995, non fu subito chiara la portata dei massacri. Qualcosa si cominciò a capire il 15 luglio, quando alcune immagini satellitari statunitensi mostrarono enormi fosse comuni attorno alla città. I serbi bosniaci però impedirono agli investigatori delle Nazioni Unite di entrare nell’area fino al luglio del 1996, un anno dopo. In quei primi mesi le indagini si concentrarono su interviste a peacekeeper e sopravvissuti, e sui dati che potevano essere raccolti a distanza.

Le prime accuse formali vennero formulate già nel novembre del 1995. Riguardarono Radovan Karadžić, il presidente della Republika Srpska, e Ratko Mladić, il generale a capo dell’esercito serbo bosniaco. Entrambi furono da subito accusati di genocidio. Fu una decisione importante e inedita: da quando era stata approvata la Convenzione sul genocidio, nel 1948, nessuna persona era stata condannata per questo crimine.

Esperti forensi lavorano in una delle fosse comuni vicino a Srebrenica nel 2003 (ANSA /FEHIM DEMIR DEF)

Alla fine le condanne per genocidio arrivarono. La prima, nel 2001, fu per Radislav Krstić, il comandante del Corpo della Drina, le unità dell’esercito della Republika Srpska che operavano nell’area di Srebrenica, considerate le principali responsabili del massacro e delle deportazioni del luglio del 1995. Furono poi condannati anche Karadžić e Mladic.

Tutto il processo contro Krstić si concentrò su due punti: se un massacro di 8mila persone potesse rientrare nella definizione giuridica di genocidio, e se fosse possibile provare che alla base delle azioni dei serbo bosniaci ci fosse effettivamente un «intento genocidario», cioè se quel massacro fosse stato pianificato ed eseguito con l’intenzione di sterminare la popolazione bosgnacca di Srebrenica. Secondo la Convezione sul genocidio, infatti, senza intento genocidario non si può parlare di crimine di genocidio. 

Gli avvocati di Krstić sostennero che i fatti di Srebrenica non rientrassero nella definizione di genocidio perché non si poteva dimostrare l’intenzione delle truppe di distruggere «in tutto o in parte» il gruppo dei bosgnacchi. Sostennero che le 8mila persone uccise fossero solo una piccola parte dei bosgnacchi che abitavano la Bosnia Erzegovina (e che erano, nel 1991, 1,4 milioni di persone), e aggiunsero che erano solo uomini in età militare; dissero che questo, quindi la decisione di non uccidere anche donne e bambini, era sufficiente per dimostrare che non ci fosse un intento genocidario, ma solo la volontà di trasferire forzatamente il gruppo dei bosgnacchi da un’altra parte (azione che è comunque considerata un crimine contro l’umanità).   

Radislav Krstić, al centro, durante un’udienza a Varsavia, in Polonia, nel 2014, dove fu detenuto a partire da quell’anno fino al 2025; oggi sta scontando la sua condanna in Estonia (ANSA/EPA/PAWEL SUPERNAK)

Il Tribunale riconobbe che il massacro avesse coinvolto solo una piccola parte dei bosgnacchi della Bosnia Erzegovina, ma disse anche che la posizione «strategica» di Srebrenica, in quanto enclave musulmana in un’area che i serbi bosniaci volevano totalmente occupare, rendeva i suoi abitanti un gruppo a sé stante e ben definito. Stabilì inoltre che quegli 8mila uomini erano una «parte sostanziale» degli abitanti di Srebrenica (un’espressione che significa che era stata raggiunta la soglia prevista dalla definizione di genocidio) non tanto per il loro numero (in città, nel luglio del 1995, c’erano circa 40mila bosgnacchi), ma per la loro importanza per la sopravvivenza della comunità.

Nella sentenza, del 2001, il tribunale sostenne quindi che al tempo le forze serbo bosniache «non potessero non sapere» che uccidere quegli uomini e trasferire fuori da Srebrenica migliaia di donne appartenenti allo stesso gruppo avrebbe inevitabilmente portato alla scomparsa della popolazione bosgnacca dalla città. Secondo i giudici, l’esercito serbo bosniaco sapeva che la «scomparsa di due o tre generazioni di uomini» avrebbe avuto un impatto «catastrofico» sulla sopravvivenza di una «società tradizionalmente patriarcale» come quella di Srebrenica.

A differenza dell’Olocausto, per Srebrenica non esistevano dei piani scritti che certificavano la volontà di sterminare i bosgnacchi, e che quindi provassero con certezza l’esistenza di un intento genocidario. Alcuni documenti parlavano sì di uccidere quante più persone possibili, ma sempre con l’idea di spingere il resto della popolazione a lasciare Srebrenica (un obiettivo che si può riassumere nel concetto di pulizia etnica).

Anche in questo senso però la sentenza fu innovativa: i giudici decretarono che l’intento genocidario poteva essere dedotto dal contesto, dai documenti ufficiali redatti dal governo e dall’esercito della Republika Srpska e da alcune conversazioni fra gli imputati, intercettate o descritte nel corso dei processi da testimoni. Fra le altre cose, i generali serbo bosniaci descrivevano i bosgnacchi come oggetti, disumanizzandoli, e ordinavano all’esercito di «creare condizioni di totale insicurezza, intolleranza e disperazione per la sopravvivenza e la vita» degli abitanti di Srebrenica.

Una cerimonia di sepoltura di massa al cimitero commemorativo di Potočari, vicino a Srebrenica, l’11 luglio del 2011 (AP Photo/Marko Drobnjakovic)

Nel 2001 Krstić fu la prima persona europea a essere condannata per genocidio dalla fine della Seconda guerra mondiale. Non fu la prima al mondo, perché nel frattempo due persone erano già state condannate per il genocidio del Ruanda da un altro tribunale internazionale. 

Sul verdetto del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia ci furono opinioni contrastanti: da alcuni fu considerato una vittoria, altri invece lo criticarono. Alcuni giuristi sostennero infatti che il Tribunale avesse interpretato in modo troppo libero la definizione di genocidio: dissero che il fatto che i militari serbo bosniaci avessero ucciso migliaia di persone e volessero espellere i bosgnacchi da Srebrenica non bastava a provare oltre ogni ragionevole dubbio che ci fosse un intento genocidario.

Altre sentenze successive ribadirono però la tesi secondo cui quello di Srebrenica era stato un genocidio, inclusa una del 2007 della Corte internazionale di giustizia, il principale tribunale delle Nazioni Unite che solitamente propone un’interpretazione molto stringente della definizione di questo crimine.

Trent’anni dopo, Srebrenica è ampiamente riconosciuto come l’unico genocidio avvenuto in Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale, anche se moltissimi serbi, tanto in Bosnia Erzegovina quanto in Serbia, e i rappresentanti politici serbi di entrambi i paesi, si sono sempre rifiutati di farlo.

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