Cosa vuol dire “non riconoscere le facce”
Lo spiega Sadie Dingfelder nel primo capitolo del nuovo libro pubblicato da Altrecose: ed è una cosa diversa dalla diffusa sensazione di "non ricordarsi le persone"

A tante persone capita di pensare di “non riconoscere bene le facce”, ma per Sadie Dingfelder “non riconoscere le facce” è un problema molto più serio che per la maggior parte di noi. È un problema che l’ha portata a salire in auto con sconosciuti, salutare persone mai viste prima o ignorare parenti e amici, per esempio. Ed è un problema che le ha fatto capire che il modo in cui percepiamo il mondo è diverso per ognuno di noi: una cosa difficile da capire e da spiegare, ma che aiuta a capire e spiegare tantissime cose di come siamo fatti.
Sadie Dingfelder, con Ci siamo già visti?, racconta di come a più di 40 anni ha scoperto di soffrire di prosopagnosia, dopo aver scambiato uno sconosciuto al supermercato per il proprio marito. Studiando articoli scientifici e sottoponendosi a test clinici ha imparato molte cose su come funzionano (o no) la nostra percezione, memoria e immaginazione. E tutte queste cose le ha raccontate nel suo libro, insieme a diversi peculiari episodi accaduti sia a lei, sia ad altre persone con questo tipo di neurodivergenze.
Quello che segue è l’inizio dell’introduzione dell’autrice al libro Ci siamo già visti?. Il libro può essere acquistato in tutte le librerie fisiche e digitali, ma potete anche ordinarlo sul sito del Post, senza spese di spedizione.
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Quando mio marito mi lascia davanti all’ingresso del parco, mi sento come una bambina al primo giorno di scuola. «Divertiti!» mi dice andando via. Un gruppo di donne pronte per l’escursione mi sta fissando, e so perché: ho quarantadue anni e per muovermi in macchina dipendo da mio marito. Sono qui per stringere nuove amicizie, ma adesso vorrei solo andare a nascondermi.
Invece mi presento ostentando sicurezza. Appena le altre mi dicono i loro nomi, tento di collegarli a qualcosa del loro aspetto. Jean ha i jeans, ma è improbabile che li indossi sempre. Sandy ha i capelli biondo sabbia, ma ci sono almeno altre cinque bionde. Una si chiama Dale: è un vero peccato che non abbia gli incisivi sporgenti o le guanciotte da scoiattolo.*
Sto partendo male e sono molto delusa. Eppure ho studiato! Prima di venire qui, ho cercato tutte queste donne su Facebook e ho sbirciato i loro profili. Ho perfino preparato delle flashcard, come quelle che si usano a scuola: davanti la foto, dietro il nome e i dettagli. Potrei tirarle fuori dallo zaino per ripassare, ma sembrerei una maniaca.
Finalmente vedo una persona che si distingue dalle altre: Kathy. È una settantenne minuta con capelli lunghi e arruffati. Nella sua foto profilo di Facebook suona un flauto di bambù a un festival rinascimentale.
«Hai un viso familiare», dico, e tecnicamente non è una bugia. «Per caso suoni il flauto? Sei una musicista?»
«No», risponde lei un po’ seccata (più tardi scopro che quella con il flauto era soltanto una foto in posa).
Ormai ho il cuore a mille e mi sento avvampare, malgrado l’aria frizzante d’inizio primavera. In fondo al parcheggio c’è un bagno prefabbricato… potrei avvicinarmi facendo finta di niente e nascondermi lì dentro finché non se ne vanno tutte. Chi se ne accorgerebbe?
Sono anche tentata di incollarmi un sorriso ebete sulla faccia e tenermi sul vago, evitando di usare i nomi quando parlo. Ma mi sono ripromessa di non farlo più. Ho intenzione di confessare la mia disabilità.
«Giusto per informarti… ho questa cosa per cui non distinguo le facce», dico a Sandy (sarà Sandy?) mentre ci inerpichiamo su una collina ripida.
«Anch’io! Sono un disastro con i nomi».
Dentro di me sospiro esasperata. I miei problemi sono molto, ma molto più complicati di così. Io non dimentico i nomi, dimentico le facce. E a causa della mia particolare combinazione di disturbi neurologici e stranezze, dimentico anche le persone: non solo come si chiamano, ma proprio che esistono. Poi, quando riesco a ripescare dalla mente il nome di qualcuno, mi entusiasmo a tal punto che ho bisogno di dirlo a tutti. Quando faccio le presentazioni, però, spesso mi si ritorcono contro, perché tendo a dimenticare i rapporti tra le persone («Sadie, guarda che Josh lo conosco. È mio fratello»).
Ho sempre saputo di essere un po’ stramba, ma per quarant’anni e passa non mi ero resa conto di avere difficoltà a fare cose che per gli altri sono semplicissime. Dal mio punto di vista, se siete come il 98 per cento della popolazione, siete campioni di riconoscimento dei volti. Grazie a una zona specializzata del cervello detta FFA (fusiform face area), guardando un viso riuscite a percepire un insieme di tratti – occhio sinistro, occhio destro, naso, bocca, sopracciglia, guance, lentiggini, fossette, attaccatura dei capelli e mille altre cose – e a coglierne le caratteristiche particolari, e intanto a capire in che rapporto stanno tra loro. Poi di quel viso create un modello tridimensionale che vi permette di riconoscerlo da angolazioni diverse e in tutte le condizioni di luce.** Nella vostra testa generate un’immagine in modo più veloce e preciso di quanto potrebbe fare il computer più all’avanguardia, e senza il minimo sforzo.
Perciò, anche se magari ogni tanto dimenticate il nome di qualcuno, scommetto che non avete problemi a seguire un film, nemmeno quando la protagonista indossa un cappello o – peggio che mai – quando si trasforma da brutto anatroccolo a cigno. (Io mentre guardo Pretty Woman: «E quella chi è? Che fine ha fatto la prostituta?»)
Tutte queste cose io non le so fare, e solo di recente ho scoperto perché. Sono affetta da prosopagnosia, detta anche cecità per i volti. In pratica mi manca una parte di quel software specializzato nel riconoscimento dei volti, così mi tocca ripiegare sul programma generico, quello che la maggior parte delle persone usa per riconoscere un bel sasso, per esempio, o un simpatico riccio che ti si è piazzato in giardino.
Faccio un respiro profondo e mi preparo a spiegarlo a Sandy. Poi però esito. Forse io e lei stiamo davvero parlando della stessa cosa. Prima di venire a sapere della prosopagnosia, anch’io dicevo sempre che ero pessima con i nomi. Forse nemmeno lei distingue le facce, o magari ha un disturbo neurologico completamente diverso che le rende difficile ricordare i nomi.
E comunque, perché mi credo tanto speciale? Tutti sono affetti da qualcosa, no? Secondo le stime degli scienziati, la cecità per i volti colpisce circa sei milioni di americani, e nella stragrande maggioranza dei casi non viene diagnosticata. Ma il numero non si avvicina nemmeno lontanamente ai disturbi visivi o cognitivi più comuni. Nel mondo ci sono trecento milioni di daltonici, e centinaia di milioni di persone hanno un disturbo neurologico di cui non sanno niente. Io conosco due persone che hanno ricevuto una diagnosi di ADHD dopo i trent’anni, e una che ha scoperto di essere dislessica a quaranta, non perché qualcuno le abbia consigliato uno specialista ma perché l’algoritmo imperscrutabile di TikTok ha cominciato a mostrarle dei video sul tema. Una mia collega si è resa conto di non avere l’olfatto solo a dodici anni. Quando gli altri parlavano degli odori, lei pensava di annusare «nel modo sbagliato», e nessuno si era accorto di niente finché lei non aveva completamente ignorato la puzza insopportabile di plastica che bruciava sui fornelli.
Quanto a me, per quarant’anni non mi sono accorta di fare errori che non fa nessun altro: salire sulla macchina di sconosciuti, perdermi nel trilocale di mio fratello, mettermi d’accordo con qualcuno per vederci e poi stupirmi di chi si presenta. La trama della mia vita è fatta di incertezza, improvvisazione e stravaganti disavventure, e non mi ero mai fatta delle domande finché non ho provato a raccontare per iscritto alcune di queste buffe storie. E finalmente mi sono resa conto che c’era qualcosa di strano.
Così ho fatto qualche ricerca, mi sono offerta volontaria per partecipare a uno studio e ho scoperto una cosa scioccante: non sono pessima a ricordare le persone, è che proprio non distinguo le facce. Se immaginate la curva a campana, mi trovate molto spostata sulla sinistra. Sono nel 2 per cento più lontano dal picco, due deviazioni standard sotto la media.
Nei prossimi capitoli visiterò laboratori di neuroscienze in tutti gli Stati Uniti. Passerò circa trenta ore dentro macchinari per la risonanza magnetica funzionale (fMRI), e per altre decine di ore svolgerò test al computer, talvolta con gli elettrodi in testa. Gli scienziati scriveranno articoli su di me! E scoprirò che a un certo punto, durante lo sviluppo, il mio cervello ha deviato su un sentiero poco battuto. Oltre alla cecità per i volti, ho anche la stereocecità (non percepisco la profondità dello spazio). In più sono affetta da afantasia (non ho immagini mentali), da SDAM (memoria autobiografica altamente deficitaria) e probabilmente da altre cose che non hanno ancora un nome.
Perciò, benvenuti nella mia crisi di mezza età. Non ci troverete macchine sportive e bagnini sexy, ma risposte a domande che mi hanno perseguitata per tutta la vita. Misteri come: perché non ho mai imparato a guidare? Perché nessun ragazzo mi ha mai chiesto di uscire? Perché da piccola ero sempre sola, e come ho fatto a stringere tante amicizie da adulta? (E perché continuo lo stesso a sentirmi sola?)
Imparerò cose affascinanti sulla vista, la memoria e l’immaginazione: nel nostro cervello si compiono milioni di miracoli in ogni istante! Ma scoprirò anche in quali ambiti il mio non riesce a essere così miracoloso, e questo mi costringerà a rivedere il giudizio su avvenimenti cruciali del mio passato e a piangere perdite che non sapevo nemmeno di aver subito. Tormenterò i miei genitori con domande indiscrete, farò preoccupare mio marito a forza di piangere e mi dispiacerò per la me ragazzina, che spesso non si sentiva capita e a volte si sente ancora così.
Nel tentativo di vedermi con più chiarezza, ho anche scoperto qualcosa che riguarda tutti: nel mondo c’è una quantità incredibile di neurodiversità nascosta. La vostra migliore amica, il vostro compagno, la vostra capa… la loro esperienza cosciente potrebbe essere completamente diversa dalla vostra, senza che nessuno di voi ne abbia la benché minima idea.
Ricordate la foto virale di quel vestito che a certe persone sembrava bianco e oro e ad altre blu e nero? Stavamo tutti guardando la stessa immagine, eppure vedevamo due cose diverse. Non è raro: cose di questo tipo accadono di continuo. Il mondo è pieno di informazioni ambigue, e cervelli diversi giungono a conclusioni diverse.
Poi c’è la vita interiore delle persone. La varietà di modi in cui fanno esperienza di essere vive da sveglie è francamente strabiliante. Se non mi credete, provate a chiedere ai vostri amici cose come:
Hai un monologo interiore?
Lo senti nella mente? Parla con la tua voce? È come origliare i tuoi stessi pensieri o più una cronaca di quello che stai facendo?
(Quanto a me, il più delle volte, la mia mente sta zitta.)
Quando leggi un romanzo, «vedi» i personaggi nella mente?
Visualizzi le ambientazioni e ti piacciono le descrizioni particolareggiate?
(Beati voi! Io vedo soltanto delle parole su una pagina, e spesso scorro velocemente i passi descrittivi per arrivare all’azione.)
Riesci a ricostruire in maniera vivida i momenti importanti del tuo passato, con dettagli visivi ed emotivi?
Questi ricordi sono a colori o in bianco e nero?
Li rivivi in prima o in terza persona?
Si muovono o stanno fermi?
(Tutto quello che ricordo del mio passato sono le storie che racconto su di me: solo parole, niente immagini e giusto un accenno di emozioni.)
Le mie esperienze potrebbero sembrarvi difficili da credere. A me sembrano altrettanto improbabili le vostre. […]
Questa storiella spiega bene perché:
Un pesce anziano passa accanto a un banco di pesciolini giovani e dice: «Salve, ragazzi, com’è l’acqua?»
«Cos’è l’acqua?» replicano loro.
Per capire cos’è l’acqua, i pesciolini hanno bisogno di confrontarla con qualcos’altro: l’aria, magari, o lo spazio vuoto, o qualcosa di veramente strano, come l’esperienza di nuotare nel cioccolato fuso. Be’, cari lettori, io sono il pesce che si è appena accorto di vivere in un mare di cioccolato fuso, e voglio provare a descrivere com’è, in modo che anche voi possiate capire in quale sostanza state nuotando.
Ovviamente, il pesce migliore a cui chiedere un confronto tra l’acqua e il cioccolato è il pesce che ha nuotato in entrambi. È anche per questo motivo che nei prossimi capitoli cercherò di fare esperienza del mondo come le persone neurotipiche. Tenterò di insegnare al mio cervello a valutare in fretta le distanze tra i lineamenti del viso. Cercherò di imparare a vedere in 3D usando videogiochi di realtà virtuale non ancora approvati dalla FDA (Food and Drug Administration). Lavorerò sulle mie capacità di visualizzazione con l’aiuto di educatori che insegnano ai bambini a usare l’immaginazione per sillabare le parole o per eseguire calcoli a mente. Se non funzionerà, mi immergerò in una vasca di deprivazione sensoriale, o proverò i funghi allucinogeni (magari questo no).
«Ma, Sadie, come puoi pretendere di celebrare la neurodiversità mentre fai di tutto per soffocare la tua?» direte voi. Ottima domanda. Grazie di averlo chiesto. Tutte le mie differenze cognitive e percettive hanno i loro pro e contro. Prendiamo la stereocecità, per esempio: quando gli occhi non lavorano insieme, è difficile afferrare una palla al volo, camminare su un terreno irregolare o immettersi in autostrada. D’altro canto, vedere solo con un occhio alla volta può dare un piccolo vantaggio artistico. È dimostrato che molti artisti famosi – Gustav Klimt, Edward Hopper, Andrew Wyeth, Marc Chagall, Frank Stella e Man Ray, per citarne alcuni – erano affetti da strabismo.
Pur sapendo tutto questo, intendo comunque imparare a vedere in 3D, o almeno provarci. Ho avuto la prima metà della vita per trasformare la mia stereocecità in talento artistico, e alla fine so disegnare soltanto sirenette.
Certo, potrebbe essere un grosso errore. Ma mi consola un po’ il fatto che convivo con il mio strambo cervello da più di quarant’anni. Se imparerò a visualizzare, per esempio, dubito che la mia povera anima in pena verrà travolta da una valanga di immagini indesiderate. Mi riterrò fortunata se capirò come evocare di tanto in tanto una vaga e fugace alba sulla spiaggia. Se fossi più giovane, mi preoccuperei di più.
Però voglio farcela. Voglio almeno intravedere come vive l’altro 98 per cento. Cosa si prova a sapere con certezza assoluta chi è la persona che si ha davanti? Che aspetto ha un albero in 3D? Non ci si distrae nel «vedere» cose che in realtà non esistono? È davvero possibile pensare prima di parlare?
Ovviamente, arrivata in fondo, potrei pentirmi delle mie scelte, o perfino cambiare idea.
Ma insomma, diamoci una mossa.
«Diamoci una mossa» è più o meno quello che mi dice Sandy quando si accorge che le altre escursioniste ci stanno lasciando indietro. La pandemia ha atrofizzato le mie competenze sociali, e ho appena finito un monologo molto simile a quello che avete appena letto, solo che sto anche ansimando. Sono fuori forma e non ho fiato, ma quello che davvero mi rallenta è la stereocecità. Muoversi su sentieri ripidi e irregolari è un’impresa, se non si percepisce la profondità.
So esattamente cosa ci vorrebbe in una situazione come questa: una bella lezione sulla visione stereoscopica!
Scherzo. Voglio che queste donne mi credano normale, almeno un pochino.
«Tu va’ pure avanti», dico crollando a terra carponi. «Prima o poi arrivo».
* In inglese sand significa «sabbia»; Chip ’n’ Dale sono i nomi originali di Cip e Ciop, i celebri scoiattoli animati della Disney. (N.d.T.)
** Se state pensando: «No, io non lo so fare. Non lo sa fare nessuno», be’, amici miei, forse nemmeno voi distinguete le facce.
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