La turistificazione dell’ayahuasca

Da alcuni anni uno dei più potenti e tradizionali psichedelici sudamericani attira capitali, interessi culturali e scientifici, e frotte di curiosi

Una donna, di spalle, seduta per terra in un ambiente poco illuminato davanti a due persone indigene
Una cerimonia dell’ayahuasca nel villaggio Nuevo Egipto, nell’Amazzonia peruviana (AP Photo/Martin Mejia)
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Ogni anno decine di migliaia di persone visitano i centri di ritiro spirituale e le strutture specializzate che offrono l’ayahuasca, una delle più potenti sostanze psichedeliche al mondo, in posti più o meno sperduti in Amazzonia, ma spesso dotati di confort da centro benessere di alto livello. L’offerta varia, ma in generale i servizi sono rivolti principalmente a un pubblico facoltoso, che include anche imprenditori delle grandi aziende di tecnologia in cerca di ispirazioni, disposti a comprare i pacchetti turistici più costosi. I ritiri durano una settimana, in cui l’ayahuasca viene servito a ciascun partecipante tre o quattro volte durante apposite cerimonie guidate, ispirate ai modelli di consumo diffusi tra le popolazioni indigene.

Prima di assumerlo, nei centri più attrezzati e rinomati, bisogna superare un test attitudinale. La somministrazione avviene poi in un ambiente protetto, ed è seguita da attività psico-emotive pensate per facilitare l’elaborazione dell’esperienza, che spesso include tra le reazioni immediate vomito e diarrea. Sono un effetto degli alcaloidi contenuti in una delle piante usate nella miscela, Banisteriopsis caapi (chiamata anche ayahuasca, come il nome della preparazione): non interferiscono ma anzi prolungano gli altri effetti noti e ricercati, e cioè l’alterazione della coscienza, dei pensieri, dell’umore e delle percezioni.

Molte persone che hanno provato l’ayahuasca raccontano di aver sperimentato particolari distorsioni ed effetti visivi, e parlano di quell’esperienza come di una specie di sogno consapevole, con forme che prendono vita e apparizioni di persone conosciute. Dicono di averne tratto serenità e una maggiore consapevolezza di sé e del proprio ruolo nel mondo: effetti in larga parte spiegati sul piano fisiologico dall’afflusso di serotonina causato dalla sostanza. Chi si rivolge ai centri specializzati lo fa per assicurarsi di vivere questa esperienza in un ambiente controllato e attrezzato (dall’illuminazione alla musica di sottofondo), e soprattutto sotto la guida di persone con esperienza da sciamani.

Le precauzioni e le attenzioni di chi lavora nei centri sono «parte di una strategia pensata per attrarre un determinato target di pubblico, disposto anche a pagare cifre a volte considerevoli», spiega lo scrittore e giornalista Federico Di Vita, curatore del libro La scommessa psichedelica e autore del podcast di divulgazione Illuminismo psichedelico.

L’ayahuasca è un decotto a base di varie piante con effetti psicoattivi che crescono in Amazzonia, diffuso fin dall’epoca precolombiana come medicina cerimoniale nelle tradizioni di alcune popolazioni indigene, non tutte. Tra le sostanze psichedeliche, è probabilmente la più legata nell’immaginario collettivo a luoghi, riti e costumi incontaminati da approcci e pratiche dei paesi occidentali. È un’idea parziale e romanzata, ma ha un suo senso storico ed è la principale ragione del grande successo commerciale e culturale del turismo che si è sviluppato in particolare nell’ultimo decennio.

Le piante utilizzate per il decotto contengono DMT (dimetiltriptammina), una delle sostanze al centro del cosiddetto “rinascimento psichedelico”, cioè la ripresa delle sperimentazioni sugli psichedelici dalla seconda metà degli anni Duemila, dopo decenni di demonizzazione e divieti: sperimentazioni che hanno portato alle scoperte sugli effetti terapeutici contro diversi disturbi mentali, tra cui la depressione e le dipendenze.

Il quadro normativo internazionale è abbastanza eterogeneo, perché il DMT è in diversi elenchi di sostanze proibite o controllate, ma la regolamentazione sulle piante che lo contengono è assai meno rigida. L’ayahuasca è illegale in molti paesi del mondo, tra cui l’Italia, ma non in quelli del Centro e del Sudamerica in cui è parte di un patrimonio culturale condiviso: Perù soprattutto, ma anche Colombia, Ecuador, Brasile, Bolivia e Costa Rica. Nel Nordamerica è ammesso solo nei riti di alcune religioni sincretiche di origine brasiliana, tra cui il Santo Daime e l’União do Vegetal. In Europa il possesso di piccole quantità è ammesso in Portogallo e in alcune aree della Catalogna, in Spagna.

Esistono insomma alcune forme di consumo più o meno tollerato nel mondo, ma soprattutto diverse forme di turismo laddove è pienamente legale. «In America Latina il decotto è ormai venduto anche in delle tiendas, ovvero in dei negozi, già pronto per l’uso, senza il supporto di un contesto cerimoniale», racconta Di Vita.

Spesso i decotti in commercio sono molto carichi di Psychotria viridis, che ha un alto contenuto di DMT, per andare incontro alle aspettative dei turisti. Ma le ricette più diffuse fino a qualche tempo fa erano diverse, anche perché attivare lo stato visionario era solo una parte delle cerimonie tradizionali. In alcune culture a bere il decotto era peraltro soltanto lo sciamano, incaricato del ruolo di guida spirituale nella comunità. Un approccio restrittivo del genere, oltre che difficilmente replicabile fuori dal contesto d’origine, avrebbe avuto poche possibilità di successo commerciale, secondo Di Vita.

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Sarebbe sbagliato però pensare che ci sia una sola ricetta “originale” dell’ayahuasca, o un modello archetipico di contesto cerimoniale valido per tutta l’Amazzonia. «C’erano approcci e variazioni anche significativi ancora prima dell’arrivo dei turisti». Modelli di consumo differenti da zona a zona sono poi ulteriormente cambiati per effetto di ibridazioni e scambi culturali. Come spiegato dall’antropologa Piera Talin, molte comunità locali continuano a modificare il rito a seconda delle esigenze del gruppo e del contesto: ci sono usi tradizionali amazzonici, ma anche diversi usi “neo-tradizionali” e urbani in grandi città del Brasile, come San Paolo e Rio de Janeiro. E gli occidentali che si interessano all’ayahuasca sono parte di questi processi di ibridazione.

Un uomo getta delle foglie in alcuni pentoloni

Un uomo usa delle foglie di Psychotria viridis per preparare un decotto da servire durante un rituale nel villaggio brasiliano di Céu do Mapiá, nell’Amazzonia meridionale (AP Photo/Eraldo Peres)

Un esempio di ibridazione è il Paojilhuasca Amazonian Medicine Centre, in Perù, un centro di ayahuasca fondato dall’ingegnere biomedico italiano Fabrizio Beverina, che lavora insieme a due sciamani residenti e a un medico, e sta portando avanti un progetto di ricerca sull’impatto dell’ayahuasca. Anche se i servizi del centro sono rivolti principalmente al pubblico occidentale pagante, le sedute sono disponibili anche per la popolazione indigena (gratuitamente).

Secondo un rapporto del Centro internazionale per l’educazione, la ricerca e il servizio etnobotanico (ICEERS), un’organizzazione non profit con sede a Barcellona, nel 2019 le strutture specializzate nella vendita di pacchetti turistici che includono la cerimonia dell’ayahuasca erano almeno 232, di cui 173 solo in Perù. Il costo del pacchetto si aggirava intorno a mille euro e i clienti furono in totale circa 62mila. È un mercato che ha avuto un impatto positivo sull’economia di molte comunità locali, secondo l’ICEERS, anche se spesso i centri – soprattutto quelli in Costa Rica – sono di proprietà straniera.

In un recente articolo sul Guardian Nina Gualinga ed Eli Virkina, due membri della comunità indigena dei Quechua del Napo, nell’Amazzonia ecuadoriana, hanno duramente criticato il turismo dell’ayahuasca, definendolo una «colonizzazione continua mascherata da benessere». Secondo loro il turismo ha stravolto, semplificato e decontestualizzato pratiche, lingue e identità culturali anche molto diverse tra loro, trasformandole in «fantasie commerciabili per gli stranieri».

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Del turismo contestano in particolare il fatto che abbia reso trascurabili o secondari aspetti relazionali e sociali che invece erano e sono ancora fondamentali nei rituali cerimoniali. «Sebbene i nostri yachak (guaritori tradizionali) possano curare singoli individui», hanno scritto Gualinga e Virkina, «il loro vero ruolo è di mantenere l’equilibrio all’interno della comunità e nelle relazioni tra persone, foreste e tutti gli esseri. La guarigione, nella nostra visione del mondo, è collettiva perché siamo tutti interconnessi». I centri più orientati al turismo danno invece priorità «al sé, alle esperienze individuali e alla crescita personale», e questo è in contrasto con l’essenza stessa del concetto di guarigione tra le comunità indigene, che è sempre fondata su un benessere condiviso.

Un uomo alimenta il fuoco sotto un pentolone durante la preparazione del decotto

Uno sciamano della comunità dei Kofan prepara il decotto per la cerimonia dell’ayahuasca, in Ecuador (Wade Davis/Getty Images)

D’altra parte il turismo è considerato una preziosa fonte di reddito e di posti di lavoro in aree rurali dell’Amazzonia in cui di fatto è un’alternativa all’agroindustria e all’estrazione mineraria e petrolifera, al punto che anche gruppi indigeni che non usavano tradizionalmente l’ayahuasca hanno cominciato a farlo. «Sicuramente il turismo ayahuasquero ha rigenerato le economie di molte comunità amazzoniche, dalla Colombia fino al Brasile», spiega l’antropologo Alfonso Romaniello, con un dottorato all’università di Guadalajara, in Messico.

Dalla fine degli anni Duemila, in Perù, i saperi tradizionali delle comunità amazzoniche e le pratiche legate all’ayahuasca sono riconosciuti come «patrimonio culturale della nazione», e anche questo riconoscimento ha favorito nel tempo lo sviluppo turistico. Non solo: ha attirato interessi di studiosi e università, e migliorato la sanità del paese. In aree in cui il governo era incapace di arrivare, come nelle Ande e nella Foresta amazzonica, ha permesso di istituire corsi di igiene e di formazione per diverse figure della medicina tradizionale. «Ne giovarono gli stessi curanderos e ayahuasqueros che, “diplomi” alla mano, acquisirono maggiore credibilità», spiega Romaniello.

In molti contesti le attività legate al turismo dell’ayahuasca hanno cambiato anche i rapporti economici e generato disparità negli equilibri sociali, creando differenze di status tra chi può permettersi una macchina, una casa nella foresta o altre comodità, e chi no. Gli introiti non derivano soltanto dalle cerimonie, ma anche dalla vendita del decotto, delle essenze utilizzate nella cerimonia e di altre sostanze, nei mercati e su Internet. «L’intera foresta è diventata un supermercato di sostanze e saperi», aggiunge Romaniello.

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Un’altra critica comune al turismo dell’ayahuasca riguarda l’ipotesi che la prospettiva di profitti cospicui abbia favorito una tendenza a trascurare i protocolli di sicurezza nelle procedure di ammissione dei partecipanti alle cerimonie. Ovviamente la qualità e il tipo di offerta cambiano da zona a zona, e molto dipende anche da quanto i centri sono sperduti o facilmente raggiungibili, spiega Di Vita. Ma in generale è nell’interesse degli operatori avere e mantenere una reputazione, perché questo permette di attrarre un pubblico disposto a spendere cifre molto alte. È il motivo per cui persino nella selva, dove è possibile, i servizi sono tarati sulle esigenze di confort dei clienti occidentali (bagni con acqua calda, aria condizionata, nessun insetto).

Oltre alla questione della commercializzazione e dell’idealizzazione delle pratiche dell’ayahuasca, c’è infine quella dello sradicamento dal loro contesto culturale in Amazzonia e il loro trasporto in Europa e in Nord America. «Trasportare il decotto è possibile, trasportare un intero sistema culturale no», sintetizza Di Vita. I divieti vigenti in molti paesi implicano, tra le altre cose, sia «un controllo coercitivo dei partecipanti», sia una riduzione del tempo a loro disposizione per metabolizzare un’esperienza molto intensa: «finito il weekend, si torna al lavoro».

Tutte queste condizioni portano a una frammentazione dei centri cerimoniali fuori dal Centro e dal Sudamerica, che il più delle volte non comunicano tra loro e tendono a sembrare «piccoli gruppi settari», in cui gli organizzatori si autoproclamano sciamani senza avere un lignaggio indigeno né conoscenze sufficienti. «Il trasporto dell’ayahuasca porta con sé una serie di problematiche e paradossi che è impossibile non considerare», secondo Di Vita. Potrebbe avere senso sviluppare pratiche totalmente occidentali per l’assunzione del decotto o del DMT, da parte di chi volesse farlo, e mettere da parte «la pretesa di trasportare di peso un modello culturale di fatto piuttosto lontano dal nostro».