L’uomo che ha reinventato l’horror

Se oggi è l'unico genere di Hollywood capace di generare profitto dalle storie originali, il merito è di Jason Blum

Jason Blum e Allison Williams alla prima di M3GAN al Chinese Theatre di Los Angeles il 7 dicembre 2022. (Jon Kopaloff/FilmMagic)
Jason Blum e Allison Williams alla prima di M3GAN al Chinese Theatre di Los Angeles il 7 dicembre 2022. (Jon Kopaloff/FilmMagic)
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Ci sono buone probabilità che pensando a un qualsiasi film horror americano degli ultimi quindici anni si pensi a un film prodotto da Jason Blum. E, se non a uno dei suoi, sicuramente a uno che esiste grazie al lavoro che Blum e la sua casa di produzione, la Blumhouse, hanno fatto per rendere l’horror il genere di maggior profitto a Hollywood.

A partire da Paranormal Activity e poi proseguendo con La notte del giudizio, Sinister, Get Out, Split, L’uomo invisibile, la nuova trilogia Halloween e tutta una lunga serie di horror minori e dozzinali fino a M3gan e M3gan 2.0, al cinema questa settimana, Jason Blum ha inventato un modo di produrre film che ha portato gli horror a essere l’unico tipo di film dell’industria americana a generare grandi profitti con storie originali, cioè non tratte da fumetti, libri, altri film o giocattoli. E tutto minimizzando il rischio di perdere soldi. Il “modello Blum” è probabilmente la più grande invenzione economica vista nel cinema americano degli ultimi decenni. Ma non a tutti piace.

Quando nel 2017 Jason Blum chiamò Jamie Lee Curtis per chiederle di recitare nella nuova trilogia di Halloween, riprendendo il personaggio che aveva interpretato più volte in quei film a partire dal primo (Halloween, nel 1978), le spiegò che sarebbe stata pagata secondo il modello Blum. Lei gli urlò: «Vaffanculo a te e al tuo modello Blum, mi devi pagare quel che valgo!» e lanciò il telefono per la rabbia. Molte conversazioni dopo, Jamie Lee Curtis accettò di essere pagata come paga Blumhouse, la casa di produzione di Blum, e una volta usciti i film incassò un assegno superiore a quello che avrebbe ricevuto se fosse stata pagata tradizionalmente.

L’idea di Blum è semplice, il difficile è metterla in pratica. All’inizio nell’azienda la regola era di non spendere mai più di cinque milioni di dollari per un film originale e mai più di dieci per un sequel. Per dare un’idea di quanto pochi siano cinque milioni per un film americano, basti pensare che lo sarebbero anche per un film italiano con un po’ di ambizioni. Negli Stati Uniti, quei film si fanno spendendo di solito almeno venti milioni. Coi budget della Blumhouse anche le produzioni che vanno male difficilmente sono in perdita. Questo ha consentito alla Blumhouse di rischiare più degli altri, di inventare e sperimentare con registi, attori o trame insolite. A differenza di altri film delle stesse dimensioni, quando gli horror Blumhouse vanno bene generano profitti enormi. La parte difficile è girare un film per così poco senza farlo sembrare da poco, amatoriale o al risparmio.

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L’intuizione gli venne dopo una decina d’anni sfortunati come produttore, quando nel 2007 gli capitò per le mani Paranormal Activity, un horror realizzato con un budget da film amatoriale, 15.000 dollari, tutto girato in una casa, con videocamere a basso costo, solo due attori ed esigenze spettacolari al minimo. Un film la cui forza era suggerire la presenza di qualcosa senza doverla mai mostrare. Qualunque distribuzione voleva mandarlo direttamente nel circuito home video, ma Blum si batté per un paio d’anni perché andasse nei cinema. Visto il costo esiguo, quel film poteva essere promosso in modi anticonvenzionali, puntando su internet, il passaparola e prendendosi dei rischi nel marketing. Uno dei trailer per esempio mostrava solo le reazioni del pubblico. Fu un successo da 200 milioni di dollari incassati in tutto il mondo e fu anche il tipo di film che conoscevano anche le persone che non l’avevano visto e i non appassionati di horror.

Per tanti anni quindi spendere pochissimo su qualsiasi film fu la strategia della Blumhouse. È un concetto banale che tuttavia è estremamente complicato da mettere in pratica nel sistema americano, tanto che nessuno lo ha mai fatto come Jason Blum. A un certo punto divenne noto per la maniera aggressiva in cui risparmiava su qualunque cosa: faceva volare in economy non solo le maestranze ma anche attori e registi, eliminava le sequenze d’azione per non pagare effetti speciali o visivi, aboliva le comparse («nei nostri film non vedrete mai un cameriere che scambia una battuta con i protagonisti»).

In più quasi tutti gli horror e i film Blumhouse dei primi anni erano ambientati in una sola casa. Era diventata una caratteristica cruciale e un limite che stimolava la creatività di registi e sceneggiatori. Ancora nel 2016, Blum stesso era famoso per girare per Los Angeles dentro un van, un Ford Transit da 35.000 dollari, modificato per avere all’interno sedute confortevoli, wifi, monitor, computer e tutto quello che serve per lavorare. In un mondo ossessionato dallo status come Hollywood era una grossa stranezza, ma Blum aveva capito che l’immagine che doveva costruire per sé era quella della persona che riesce a spendere meno di tutti.

È una specie di mitologia che ha alimentato per anni, per far sapere a tutti in fretta che se pagava poco è perché c’era la possibilità di guadagnarci molto. La strategia della Blumhouse fu offrire una parte del pagamento in percentuali sull’incasso, una soluzione che già esisteva ma che lui estremizzò. Pagava il minimo sindacale (65.000 dollari nel caso di un attore) a fronte di percentuali decisamente più alte del solito sugli incassi. Ethan Hawke, che ha una carriera nel cinema indipendente dai piccoli budget, fu una delle prime star ad accettare questo tipo di contratto. Non è nota la percentuale che gli fu garantita ma dopo Sinister, La notte del giudizio e Black Phone, tre grandi successi che nel complesso hanno incassato 340 milioni di dollari, è diventato per la prima volta nella sua vita un attore realmente ricco.

Come dimostra la storia di Jamie Lee Curtis, ci vuole grande capacità di persuasione per riuscire a tenere i budget così bassi e convincere tutti. Ma Blum prima di fondare la sua società si era formato come produttore in quella che era la realtà più competitiva e brutale di Hollywood: la Miramax di Harvey Weinstein. Lì era capo delle acquisizioni, cioè la persona che si aggiudicava i film da distribuire, ed era risaputo come non accettasse mai un no. Quando nel 2000 la Miramax stava faticando a ottenere i diritti per distribuire negli Stati Uniti The Others, l’horror di Alejandro Amenábar con Nicole Kidman, Blum prese un aereo per la Spagna e si presentò negli uffici della casa di produzione senza preavviso, rimanendo nella sala d’attesa fino a che non fu ricevuto. Ne uscì con il contratto firmato e The Others fu un grandissimo successo.

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L’approccio della Blumhouse all’horror, fatto di molti film prodotti ogni anno (circa dieci, quando la società è andata a regime, una quantità da grande studio di produzione come la Warner), bassi budget e periodici successi nell’ordine delle dieci o quindici volte il budget speso, ha consentito alla società di far esordire nuovi registi. James Wan è diventato un regista importante con Insidious e poi ha girato grandi produzioni come Fast & Furious o Aquaman; Mike Flanagan, dopo aver girato il film Oculus per Blum, fece la serie tv per Netflix Hill House; Scott Derrickson, dopo Sinister, fu preso per girare Doctor Strange per la Marvel.

Ma Jason Blum è stato anche il primo a dare una possibilità a Jordan Peele, fino a quel momento un comico, con un horror pieno di sottotesti politici come Get Out, diventato uno dei film più discussi e sorprendenti della sua annata, e ovviamente un grande successo (5 milioni di dollari spesi, 100 guadagnati). È sempre Blum la persona che ha rivitalizzato M. Night Shyamalan con The Visit e poi Split (9 milioni spesi, 136 guadagnati) e infine ha prodotto il film che ha rivelato Damien Chazelle, Whiplash, anche se non è un horror. Uno dei suoi più grandi rimpianti è non essere poi riuscito a produrre pure il suo film successivo, La La Land.

Benché i film della Blumhouse non siano mai degli elevated horror, cioè il tipo di film di paura che hanno una fattura da cinema d’autore e ambizioni intellettuali più marcate, e nonostante Blum odi il concetto stesso di elevated horror, perché presuppone che gli altri horror siano da meno, la nascita di quel sottogenere è stata possibile proprio grazie al mercato creato dai suoi film. Quando sono emersi, a metà degli anni Dieci, i successi della Blumhouse avevano fatto in modo che gli horror fossero l’unico tipo di film per il quale qualunque produzione era disposta a girare storie originali, da autori mai sentiti e con idee bizzarre. Aveva creato l’idea che fosse l’unico genere che il pubblico sarebbe andato a vedere in ogni caso. Questo permise a molti autori di esordire e sperimentare toni e svolgimenti più di nicchia, a patto di farlo con un horror.

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Come detto però i film Blumhouse sono rimasti in linea di massima molto semplici, spesso con qualche demone che infesta le vite di ragazzini e li uccide in modi sanguinolenti. Nei casi in cui hanno idee politiche forti, si trovano nel sottotesto, come tutta la serie La notte del giudizio, che racconta di film in film la discesa degli Stati Uniti in un regime polarizzato in cui la violenza è normalizzata. Oppure possono essere estremamente divertenti e creativi come Freaky, che prende la classica storia in cui delle persone si scambiano il corpo ma invece di farlo con mamma e figlia lo fa con una teenager che si scambia con il serial killer che la vuole uccidere. La maggior parte dei film della Blumhouse, comunque, gira attorno a sangue e brividi facili, come Ouija, Unfriended, Final Destination o il grande successo Five Nights at Freddy’s, tratto dall’omonimo videogioco (uno dei rari adattamenti del loro catalogo).

Oggi la Blumhouse, dopo sedici anni di successi, è molto cambiata. È una società grande e importante che continua a sperimentare e ha ancora il medesimo fiuto per nuovi talenti, ma non rispetta più il limite di cinque milioni di dollari di budget. Lo ha alzato a circa 10-12, e fa molte cose diverse, anche serie tv, un tipo di produzione in cui non si possono spendere cifre contenute. Ciò che non è cambiato è la capacità di Blum di intuire i successi, incrociando qualcosa di classico e qualcosa di attuale. La serie di film M3gan, per esempio, riprende molte idee di La bambola assassina, un classico del genere, e le mescola con domande sull’intelligenza artificiale, nel contesto di una commedia horror piena di sangue. Non si tratta di film che contengano riflessioni particolarmente alte su un tema pressante della contemporaneità; nella tradizione del cinema di serie B, sono semmai film che sfruttano l’interesse generale su un tema attuale per attirare pubblico.