Perché negli Stati Uniti c’è lo ius soli
Cioè il principio per cui tutte le persone che nascono sul loro territorio ne diventano cittadine, che Trump vuole limitare

Venerdì la Corte Suprema degli Stati Uniti ha pubblicato una decisione che fra le altre cose permette a una delle misure più discusse volute da Donald Trump di entrare in vigore: l’abolizione parziale dello ius soli (dal latino per “diritto del suolo”), cioè quel principio legale secondo cui tutte le persone nate sul territorio statunitense diventano automaticamente cittadine del paese (noto in inglese come birthright citizenship, cittadinanza per diritto di nascita). Trump vorrebbe abolirlo per i figli di immigrati senza permesso di soggiorno e persone che si trovano nel paese temporaneamente.
La decisione della Corte Suprema in realtà è molto complessa e ha effetti molto più ampi: la Corte non si è espressa sulla legalità o meno dell’abolizione dello ius soli, ma sulla possibilità dei giudici statunitensi di bloccare gli ordini del presidente. Infatti l’ordine con cui Trump aveva revocato lo ius soli era stato bloccato in tutti gli Stati Uniti da diversi giudici federali, quelli che nel sistema giuridico statunitense giudicano la legge federale, cioè valida in tutto il paese: secondo i giudici della Corte però questi tentativi di sospenderlo erano incostituzionali.
La battaglia legale attorno allo ius soli comunque continuerà, dato che molti ricorsi devono essere ancora valutati: il principio è sancito dalla Costituzione ed è uno dei tratti distintivi dell’ordinamento statunitense.
Lo ius soli è un principio adottato in forme diverse da 38 paesi nel mondo, fra cui praticamente tutti quelli dell’America del Nord e del Sud, per motivi legati spesso alla loro storia di immigrazione. È tipico infatti dei paesi con un passato coloniale, che nei secoli scorsi avevano bisogno di popolare vasti territori con persone provenienti dall’Europa (a scapito delle popolazioni indigene). Negli Stati Uniti a questa tradizione si aggiunge tutta una questione legata all’abolizione della schiavitù dopo la Guerra civile, negli anni Sessanta dell’Ottocento.
Lo ius soli infatti è sancito dal 14esimo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, entrato in vigore nel 1868: dice, fra le altre cose, che «tutte le persone nate […] negli Stati Uniti, e soggette alla loro giurisdizione, sono cittadine degli Stati Uniti e dello stato [federato] in cui risiedono». L’emendamento riprende una legge approvata dal Congresso in precedenza, che serviva a garantire i diritti legati alla cittadinanza statunitense anche ai discendenti degli schiavi liberati alla fine della Guerra civile (che venne combattuta fra le altre cose proprio a causa della schiavitù, che gli stati del Nord volevano abolire e quelli del Sud preservare). Secondo un’interpretazione legale data al tempo, siccome gli schiavi non erano cittadini neanche i loro discendenti liberati lo erano. L’emendamento stabilì il contrario.
L’estensione degli effetti dell’emendamento a tutte le persone nate negli Stati Uniti (quindi non solo agli schiavi liberati) fu sancita dalla Corte Suprema con una sentenza del 1898, che rappresenta il precedente legale su cui si basa tuttora la giurisprudenza statunitense su questo tema.
Che un precetto esposto tanto chiaramente nella Costituzione venga abolito da un presidente con un ordine esecutivo ha suscitato grosse perplessità fra gli esperti di diritto: uno dei giudici che hanno bloccato l’ordine l’ha chiamato «palesemente incostituzionale». Ciononostante non è scontato che, almeno nel sistema statunitense, un diritto affermato dalla Costituzione sia sempre automaticamente messo in atto e rispettato dalle autorità statali o federali, né garantito dai giudici federali e da quelli della Corte Suprema. Successe per esempio con le leggi che negli stati del Sud discriminavano le persone nere, nonostante lo stesso 14esimo emendamento lo vietasse: la Corte Suprema non le abolì e rimasero in vigore fino al 1964, quando intervenne il governo.
Ora chi sostiene l’abolizione parziale dello ius soli si basa principalmente sull’interpretazione della frase «soggette alla loro giurisdizione» (cioè a quella degli Stati Uniti), secondo cui i figli degli immigrati senza permesso di soggiorno o delle persone che si trovano nel paese temporaneamente non sono soggetti alla giurisdizione statunitense.
La frase aveva un senso ben preciso nel 1868, che c’entra poco con l’immigrazione e ormai è obsoleto da un secolo: serviva a includere alcuni nativi americani che erano tassati e soggetti al governo federale (quindi sotto la sua giurisdizione), escludendo però quelli che vivevano sì nel territorio statunitense ma in maniera indipendente dal governo di Washington e dal resto della società statunitense. Queste persone, che seguivano tendenzialmente lo stile di vita tradizionale delle proprie comunità, non furono considerate cittadine fino al 1924, quando venne approvata una legge apposita.
Lo stesso concetto, quello di essere soggetti alla giurisdizione statunitense, è ancora usato anche per escludere due categorie di persone: i figli dei diplomatici stranieri e le persone nate sulle navi in transito da un porto statunitense.
Il dibattito sullo ius soli è noto anche a chi ha seguito le vicende politiche italiane negli ultimi anni, in cui occasionalmente da sinistra viene chiesta l’introduzione di tale principio. Le leggi sulla cittadinanza in Italia si basano sostanzialmente sullo ius sanguinis (il “diritto del sangue”, che prevede che sia cittadino dalla nascita chi discende da cittadini italiani). Chi nasce sul suolo italiano, o vi si trasferisce nel corso della sua vita, può diventare cittadino tramite il processo di naturalizzazione (quello con cui si ottiene la cittadinanza nel tempo, dopo la nascita), che ha vari requisiti ed è spesso complicato da complesse procedure burocratiche: fra questi, per chi nasce in Italia, c’è il compimento dei 18 anni. Sono previste alcune forme estremamente limitate di ius soli, per esempio per i bambini nati in Italia da genitori ignoti o apolidi (cioè non cittadini di nessun paese).
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