Il Bhutan ha fatto incetta di bitcoin, e gli sta andando bene
È uno dei paesi con le riserve più grandi al mondo, che ha già iniziato a sfruttare

Fino a qualche anno fa quando si nominava il Bhutan, un piccolo stato himalayano fra la Cina e l’India, lo si faceva principalmente per parlare dei suoi paesaggi montani o per il fatto che il suo governo misura il progresso del paese attraverso uno speciale indice che calcola la Felicità Interna Lorda (FIL) dei suoi cittadini (al posto del Prodotto Interno Lordo, o PIL). Più recentemente però il Bhutan ha attirato l’attenzione perché sta cercando, apparentemente con successo, di risolvere la sua crisi economica producendo bitcoin, la più popolare e scambiata criptovaluta al mondo.
Nonostante la prima transazione con una carta di credito nel paese sia avvenuta nel 2010, ci sono voluti pochi anni perché si mettesse al passo in questo settore, superando stati più industrializzati: secondo la piattaforma di criptovalute Arkham, la riserva di bitcoin del Bhutan equivale oggi a 1,3 miliardi di dollari, pari a circa il 40 per cento del PIL del paese. È fra le prime cinque riserve statali di bitcoin al mondo per dimensioni, insieme a quelle di paesi molto più potenti come gli Stati Uniti e il Regno Unito.
Il Bhutan è grande quanto la Svizzera ed è abitato da circa 780mila persone. Nonostante la retorica sulle attenzioni al benessere dei propri abitanti è un paese povero, la cui economia si basava fino a qualche anno fa su agricoltura, esportazione di energia elettrica e turismo. La disoccupazione giovanile è alta e negli ultimi cinque anni il 10 per cento della popolazione è emigrato. La situazione cominciò a peggiorare a partire dal 2020 a causa della pandemia, che ha causato fra le altre cose una grossa crisi del settore turistico.
È a questo punto che il paese iniziò seriamente a pensare ai bitcoin: per accumularli non li ha comprati sul mercato, ma ha iniziato a generarli da zero attraverso un procedimento noto come mining (o “estrazione”, in italiano). Il mining è il sistema che permette in sostanza di convalidare transazioni con una criptovaluta e produce, come ricompensa, una frazione di moneta virtuale. Il processo di convalida richiede grandi capacità di calcolo e per questo, su larga scala, viene portato avanti da tanti computer collegati a server che consumano enormi quantità di energia e producono molto calore.
Contrariamente al funzionamento delle valute tradizionali, la creazione di nuovi bitcoin non ne diminuisce il valore: si tratta infatti di una produzione programmata e progettata per raggiungere al massimo 21 milioni di bitcoin in un lasso di tempo stabilito.
– Leggi anche: Dove si fanno i bitcoin
L’idea di accumulare bitcoin in Bhutan è venuta nel 2019 a Ujjwal Deep Dahal, amministratore delegato del fondo sovrano del Bhutan, Druk Holding and Investments, dopo che il re Jigme Khesar Namgyel Wangchuck aveva chiesto ai suoi funzionari di farsi venire delle idee creative su come migliorare la situazione economica del paese.
Dahal racconta al Wall Street Journal di aver imparato come funzionava il mining leggendone online e guardando tutorial su YouTube, e provando a portarlo a termine per la prima volta insieme a dei suoi colleghi nel loro ufficio. I due computer utilizzati scaldarono così tanto l’ufficio che fecero scattare l’allarme antincendio in piena notte.
Alla fine del 2020 venne avviata la prima “miniera” di bitcoin: il sito fu costruito su una montagna, vicino al passo di Dochula, nell’ovest del paese, dove l’elettricità arrivava facilmente e le temperature basse aiutavano a dissipare il calore generato dai server (l’impatto climatico dell’estrazione delle criptovalute è un tema molto discusso e controverso). Le macchine furono configurate nell’arco di diversi mesi da Dahal e da altri quattro dipendenti, che si fecero aiutare per telefono da esperti che vivevano a Singapore o in Malesia.
Due anni dopo i siti di mining di proprietà del governo erano diventati quattro e da allora le autorità non hanno più voluto dire quanti siano esattamente, anche se si pensa che siano diventati sei. Il tutto è avvenuto poco prima del grande aumento del prezzo del bitcoin, che è passato dal valere meno di 10mila euro nel 2020 ai 100mila nel gennaio del 2025, il valore più alto mai raggiunto nella sua storia (ora un bitcoin vale circa 90mila euro).
Il Bhutan può permettersi di produrre così tanti bitcoin perché ha a disposizione moltissima energia idroelettrica dai suoi diversi fiumi, che prima vendeva ai paesi vicini. Da quando ha iniziato a estrarre bitcoin però ha diminuito le esportazioni, utilizzando molta energia nel mining.
Fino a poco tempo fa il governo aveva tenuto segreto il programma di estrazione dei bitcoin, anche ai suoi stessi cittadini. Dahal ha detto che questo è servito per prevenire il rischio che il progetto cadesse nelle mani sbagliate o diventasse un obiettivo per gli hacker. Questo però ha creato diverse polemiche nel paese, specialmente riguardo alla possibilità che le riserve finiscano per essere gestite in modo improprio dai politici.
Inoltre puntare così tanto sulle criptovalute può essere rischioso, dato che sono un settore relativamente nuovo e soggetto a oscillazioni (anche se, fra le criptovalute, il bitcoin è quella di gran lunga più affidabile).
Per ora però la scommessa sta funzionando. Nel 2023 il governo ha venduto l’equivalente di 100 milioni di dollari delle sue riserve di bitcoin per finanziare un aumento salariale del 65 per cento per i dipendenti pubblici per due anni, qualcosa che secondo il primo ministro Tshering Tobgay sarebbe stato impossibile fare fino a pochi anni fa.
Dopo questo primo esperimento il governo dice di voler conservare le proprie riserve di bitcoin a lungo e concentrarsi sul migliorare le miniere esistenti senza crearne altre. Sta inoltre cercando nuovi modi per trarre profitto dalle criptovalute e integrarle nella vita quotidiana. A maggio del 2025 il governo ha introdotto un nuovo sistema di pagamento di prova che permette ai turisti di pagare voli, hotel e visti con oltre 100 criptovalute.



