Quest’anno con l’aviaria l’abbiamo sfangata
Per contenere i contagi è stato necessario abbattere 4 milioni di galline, ma ha funzionato

L’influenza aviaria che negli Stati Uniti continua a circolare negli allevamenti di polli e altri animali ha avuto una diffusione significativa anche in Europa, ma in Italia è stata tenuta sotto controllo. Anche qui il settore della produzione di uova ha subìto danni economici consistenti perché 4 milioni di galline ovaiole (su 40 milioni) hanno dovuto essere abbattute e servono fino a un paio d’anni per ripristinare la popolazione in allevamento. Tuttavia il sistema per prevenire e arginare la diffusione della malattia ha funzionato e i contagi sono stati molti meno rispetto all’inverno tra il 2021 e il 2022, quando venivano rilevati anche una decina di nuovi focolai al giorno.
Da ottobre ci sono stati 151 focolai del virus, molti di più di quelli dello scorso anno epidemiologico (che finisce a settembre), ma nelle aree più a rischio sono stati rilevati contagi solo in una cinquantina di allevamenti, relativamente pochi rispetto al totale.
I virus dell’influenza aviaria esistono da secoli nelle popolazioni di alcuni uccelli selvatici, in particolare tra quelli acquatici, ma quelli più rilevanti che attualmente circolano a livello globale hanno avuto origine in Cina nel 1996. La malattia che causano è chiamata “influenza aviaria ad alta patogenicità” (HPAI, nell’acronimo in inglese) perché è particolarmente aggressiva.
In modo simile all’influenza umana questi virus si diffondono soprattutto in certe stagioni, ovvero in autunno e in inverno, per due ragioni: la prima è che quando le temperature sono più basse resistono più a lungo nell’ambiente, la seconda è che vengono portati in giro in prima battuta da popolazioni di uccelli migratori. In Italia e negli altri paesi del Mediterraneo ad esempio arrivano in autunno insieme a specie che si spostano a sud per svernare. Poi possono contagiare altri uccelli selvatici, come gli aironi e i gabbiani che vivono negli stessi ecosistemi naturali dei migratori, oppure come i rapaci che li mangiano.
Dagli uccelli selvatici possono arrivare ai polli e ad altri uccelli domestici, soprattutto nelle zone in cui ci sono sia molti allevamenti che tanti ecosistemi dove le specie selvatiche acquatiche si trovano bene: è il caso della pianura tra il Veneto, la Lombardia e l’Emilia-Romagna, le tre regioni dove vengono prodotte più uova in Italia. Il rischio di infezione per gli esseri umani è molto basso, ma c’è: questo genere di contagio è associato generalmente al contatto diretto e prolungato con animali infetti, mentre non ci sono prove che avvenga per via aerea o col consumo di carni cotte (in tutto il mondo dal 12 dicembre 2024 al 7 marzo di quest’anno sono stati registrati 22 contagi negli esseri umani, di cui solo uno in Europa, nel Regno Unito). In ogni caso non sono mai stati riscontrati contagi da umano a umano, cosa che sarebbe assai più pericolosa.
«Nel periodo che va dal 15 settembre al 15 marzo gli animali non possono essere allevati all’aperto nelle zone più a rischio», spiega Calogero Terregino, responsabile del Centro di referenza nazionale per l’influenza aviaria e la malattia di Newcastle: è una misura preventiva decisa a livello nazionale, per limitare i contatti tra le galline e i tacchini da un lato e gli uccelli selvatici dall’altro. Agli allevatori invece è richiesto di utilizzare alcune accortezze di “biosicurezza” per evitare di portare il virus dentro i capannoni in cui vivono i polli. Per esempio, devono indossare calzari usa e getta sopra le scarpe: il virus dell’aviaria è presente nel guano degli uccelli infetti e dunque può trovarsi nel terreno, all’interno di particelle di deiezioni polverizzate (il guano è formato dai prodotti della decomposizione degli escrementi).
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Terregino, che è uno dei maggiori esperti italiani di influenza aviaria, lavora all’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) che si occupa di un’altra parte del sistema messo in piedi per contrastare la diffusione dell’aviaria, ovvero la sorveglianza. Da un lato raccoglie le segnalazioni di uccelli selvatici morti e potenzialmente infetti (“sorveglianza passiva”) e dall’altro porta avanti dei controlli a campione su quelli vivi, soprattutto tra gli anatidi, ovvero anatre, cigni, oche (“sorveglianza attiva”, fatta in collaborazione con i cacciatori).
«Usiamo delle trappole che sono usate dagli ornitologi per studiare le migrazioni», dice Terregino: «Gli uccelli catturati vengono misurati e poi inanellati, cioè gli viene messo un anellino a una zampa per permettere future identificazioni, prima di essere liberati. Noi ci inseriamo in questo processo per fare dei tamponi delle faringi, del piumaggio e delle cloache [la parte finale dell’intestino degli uccelli, ndr] e controllare se il virus è presente». In caso affermativo gli allevatori della zona vengono avvisati.
Questi controlli a campione vengono fatti anche su altre specie acquatiche che vivono a stretto contatto con gli anatidi, e che possono fare da “ponte” tra gli uccelli migratori e quelli di allevamento, come i gabbiani e gli aironi.
A questi di recente si sono aggiunti gli ibis sacri, una specie aliena invasiva sempre più diffusa in Italia. Dice Terregino: «Sono un problema ecologico perché competono con specie locali più deboli, sono molto aggressivi e d’inverno causano morie di anfibi che snidano da sotto terra quando sono in letargo, e vicino agli aeroporti possono causare bird strike perché volano in grossi stormi. Ora sono anche un problema sanitario perché sono portatori dei virus influenzali: quest’anno ne abbiamo confermato la presenza in due ibis morti, a livello genetico il virus degli ibis era lo stesso trovato negli allevamenti di pollame».

Un ibis sacro in Kenya, dove non è una specie aliena invasiva (Eric Lafforgue/Art in All of Us/Corbis via Getty Images)
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L’altra importante forma di sorveglianza è quella praticata dagli allevatori e dai veterinari che lavorano con loro: «Nel periodo a rischio, se in un allevamento ci sono anche poche morti di animali in più rispetto al normale», spiega Terregino, «si sospetta l’infezione; e se il sospetto è confermato l’allevamento viene messo sotto sequestro». È un processo che avviene nel giro di poche ore ormai, grazie all’esperienza. Dopodiché tutti gli animali dell’allevamento vengono abbattuti: spesso sono migliaia o decine di migliaia e uccidere solo i contagiati sarebbe impraticabile. Per farlo si sigillano i capannoni e poi si immette al loro interno dell’anidride carbonica o dell’azoto che causa l’asfissia degli uccelli, le cui carcasse vengono successivamente bruciate in appositi inceneritori. Al contempo viene distrutto tutto il materiale potenzialmente contaminato.
«Si crea anche una zona di sorveglianza in un raggio di 10 chilometri», aggiunge Terregino, «in cui si fa un monitoraggio straordinario per trovare eventuali altri animali infetti». Nella stessa zona si sospendono gli spostamenti degli uccelli, per cui a meno di controlli molto stringenti i polli da carne non possono essere portati al macello e i pulcini destinati a diventare galline ovaiole non possono essere trasportati negli stabilimenti dove dovranno crescere e produrre uova. Tutto questo vale fino a che il focolaio non è stato estinto.
Gli allevamenti più vulnerabili alla diffusione dell’aviaria sono quelli delle galline ovaiole e dei tacchini, gli uccelli da allevamento che vengono mantenuti in vita più a lungo: un anno e più le galline, fino a 160 giorni i tacchini maschi. Infatti è soprattutto la presenza prolungata in un’area a rischio per i contagi che li facilita. Il problema è minore per i polli da carne, che sono allevati solo per 40 o 60 giorni prima di essere macellati.
Per l’aviaria le aziende farmaceutiche hanno anche sviluppato diversi vaccini che però finora non sono stati utilizzati su larga scala per questioni di costi e altri svantaggi. Spiega ancora Terregino: «Una campagna vaccinale dovrebbe essere fatta all’interno di un sistema di controllo molto rigido e costoso, con sorveglianza settimanale, perché negli animali vaccinati i sintomi non si manifestano ed è più difficile riscontrare la presenza del virus».
L’unico paese che ha provato a gestire la diffusione dell’aviaria usando anche i vaccini è stato la Francia, che dopo un anno epidemiologico in cui c’erano stati 1.700 focolai tra gli anatidi e gli allevamenti di anatre (quelli per la produzione del foie gras) ha deciso di tentare nuove misure. Per le vaccinazioni ha speso 100 milioni di euro.
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