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  • Martedì 3 giugno 2025

L’emergenza negli ospedali di Gaza, raccontata da lì

Con le parole di un medico spagnolo volontario a Khan Yunis, nell’ultima struttura in grado di operare feriti nel sud della Striscia

di Valerio Clari

Un ragazzo palestinese piange un parente morto all'ospedale Nasser (AP Photo/Abdel Kareem Hana)
Un ragazzo palestinese piange un parente morto all'ospedale Nasser (AP Photo/Abdel Kareem Hana)
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Nel sud della Striscia di Gaza è rimasto un solo ospedale in grado di trattare emergenze e operare feriti: il Nasser Medical Complex di Khan Yunis. Durante la guerra è stato attaccato più volte dall’esercito israeliano (l’ultima tre settimane fa, quando è stato colpito un magazzino), ma soprattutto da oltre un anno lavora in condizioni di estrema emergenza. Da marzo, ossia da quando Israele ha violato il cessate il fuoco e ripreso le operazioni militari, bloccando l’ingresso di cibo, acqua e medicine, la situazione è diventata ancora più disperata.

Nell’ospedale lavorano anche una decina fra medici e infermieri internazionali, entrati nella Striscia in vari momenti negli ultimi mesi con convogli scortati dall’esercito israeliano e poi da funzionari delle Nazioni Unite.

Raúl Incertis Jarillo è un anestesista spagnolo e un volontario della ong canadese GLIA, che fa parte degli Emergency Medical Team dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). È a Gaza da sette settimane, passate perlopiù all’ospedale Nasser. Dice al Post che l’ospedale ha 500 letti, tutti pieni: la terapia intensiva aveva 12 posti, è stata aperta un’altra sala con 3-4 posti. Ne servirebbero altri ma sono finiti i monitor per tenere sotto controllo le funzioni vitali dei pazienti.

Uno dei pazienti del reparto di terapia intensiva all’ospedale Nasser, il 6 maggio 2025 (AP Photo/Abdel Kareem Hana)

Da due mesi la ripresa dei bombardamenti ha reso la situazione non più gestibile: «Arrivano feriti continuamente, senza interruzioni. Molti sono gravi e andrebbero intubati, ma non ci sono abbastanza macchine per la ventilazione. In alcuni casi ne arrivano 5, 6 o 7 insieme, più di quanti ne riesci a gestire: i medici sono obbligati a scegliere. Dobbiamo risparmiare su tutto, perché le dotazioni stanno finendo. Ci sono pazienti operati a torace aperto che dopo l’intervento dovrebbero avere della morfina, invece diamo loro ibuprofene. Usiamo mezze siringhe di anestetici invece che una intera, e quindi poi ci troviamo a riciclare le siringhe su pazienti diversi. O i tubi endotracheali, contro ogni regola medica».

All’ospedale Nasser molti pazienti arrivano dal vicino campo di al Mawasi, sulla costa. Lì si sono rifugiate centinaia di migliaia di persone, ma è comunque oggetto di ricorrenti bombardamenti: Incertis Jarillo dice che sono «un po’ a caso, su luoghi affollatissimi». Molti dei feriti e dei morti sono bambini e bambine, ragazzi e ragazze, che a Gaza sono molto numerosi: vengono colpiti da schegge, sommersi da macerie, a volte feriti da proiettili; arrivano in ospedale con perforazioni dell’addome o del torace, arti amputati, fratture craniche con emorragie cerebrali. A volte restano soli, senza parenti stretti: se ne occupano parenti lontani o vicini di casa, in alcuni casi finiscono in una specie di orfanotrofio non lontano dall’ospedale.

Un bambino di sette anni con gravi ustioni all’ospedale Nasser (AP Photo/Abdel Kareem Hana)

Incertis Jarillo dice che «ci sono due suoni che non si fermano mai: il rumore dei droni in volo, che sono dappertutto per 24 ore al giorno; e il pianto dei feriti, delle madri e dei parenti. Dentro l’ospedale piangono tutti, è qualcosa che ti entra dentro». Aggiunge che tutti hanno sintomi da stress post-traumatico («Anche se qui non c’è un post, il trauma è continuo») e che arrivano feriti, anche minori, colpiti da quadricotteri (droni a quattro eliche) che «sparano sulle persone».

La difficoltà di trovare cibo è un problema per tutti: è visibile in molti pazienti con segni di malnutrizione, rallenta lo sviluppo dei bambini più piccoli e complica la cicatrizzazione delle ferite (per la quale servirebbero proteine e vitamine, perlopiù introvabili).

Uno degli edifici dell’ospedale colpito da attacchi israeliani (AP Photo/Jehad Alshrafi)

Gli ospedali sono stati al centro di molte operazioni dell’esercito israeliano, che sosteneva e sostiene che al loro interno si nascondano militanti di Hamas. Non ha mai fornito prove di questa tesi, ma ha violato varie consolidate regole umanitarie rendendo gli stessi ospedali un obiettivo. Più di un anno fa per esempio i soldati israeliani entrarono all’ospedale Nasser, arrestando 70 fra medici e infermieri. Alcuni sono ancora in prigione in Israele, altri sono tornati nella Striscia. «Alcuni colleghi mi hanno mostrato le cicatrici delle torture durante gli interrogatori: i militari credevano sapessero qualcosa degli ostaggi, perché nei primi giorni dopo il 7 ottobre [2023] due israeliani rapiti furono portati qui per essere curati», dice Incertis Jarillo.

I medici e gli operatori internazionali vivono dentro l’ospedale e dormono in una sala attrezzata con dei divani. I medici palestinesi che non hanno più una casa raggiungono le famiglie nei campi e vivono in piccole tende di plastica piuttosto improvvisate, molto calde di giorno. Nei campi i bagni sono una latrina comune, un buco da condividere con centinaia di persone, e non c’è elettricità per ricaricare i telefoni o altri dispositivi. In ospedale tutti fanno turni lunghissimi.

È stato molto raccontato il caso di Alaa e Hamdi al Najjar, due medici del Nasser: a fine maggio un bombardamento ha ucciso nove dei loro dieci figli. È una vicenda eccezionale nei numeri, ma quasi ordinaria nella sostanza, dice Incertis Jarillo: «Quasi tutti i colleghi che conosco hanno perso almeno un parente in questa guerra».

Secondo fonti delle Nazioni Unite circa il 90 per cento della popolazione palestinese ha dovuto abbandonare la propria casa dal 7 ottobre del 2023: in oltre un anno e mezzo molti sono stati sfollati più volte, e oltre 630mila sono stati sfollati di nuovo dalla fine del cessate il fuoco, lo scorso marzo. I morti fra i palestinesi sono più di 54mila, quasi un terzo sono bambini o minori. I feriti registrati sono oltre 123mila: tutti i numeri ufficiali sono ritenuti inferiori a quelli reali.