Il Giappone ha limitato la pratica di dare nomi illeggibili ai figli

Da lunedì in Giappone è in vigore un regolamento che limita la pratica che si era diffusa negli ultimi anni di dare ai figli nomi con pronunce peculiari basate su interpretazioni fantasiose dei caratteri con cui vengono scritti. In Giappone i nomi sono scritti con i caratteri kanji (la scrittura giapponese prevede vari tipi di caratteri): per ogni kanji esistono diverse pronunce possibili, anche completamente diverse l’una dall’altra. Nel caso dei nomi che sono stati vietati, detti kira-kira (cioè “scintillanti”, perché “brillano di originalità”), i genitori sceglievano una pronuncia totalmente diversa da quelle tipicamente considerate per il carattere con cui si scrive il nome, talvolta ricorrendo anche a riferimenti della cultura pop.
Ora alla lista di kanji usati per dare i nomi sarà aggiunta una serie di pronunce fonetiche standard, e ai genitori sarà richiesto di riferire alle autorità la pronuncia scelta: quelle che si discostano troppo dalle letture tradizionali saranno vietate. Ci sarà comunque un certo grado di flessibilità, e i nomi fantasiosi ma legati a usi comuni dei caratteri saranno ammessi. I nomi kira-kira si sono diffusi a partire circa dagli anni Novanta e hanno causato molti dibattiti nella società giapponese, in cui comunque la maggioranza delle persone favorisce una loro limitazione, secondo i sondaggi.
Per esempio, due nomi relativamente diffusi in Giappone sono Kai e Umi, entrambi scritti con il carattere 海, che significa “mare”. In alcuni casi però i genitori hanno scelto una pronuncia kira-kira per il carattere, che si avvicina all’immaginario occidentale: Marin. In qualche caso per altri caratteri è stata scelta la pronuncia Akuma (che significa diavolo), Naiki (come la marca di abbigliamento Nike), o anche Pikachu (dal famosissimo personaggio dei Pokémon).
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