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  • Giovedì 14 dicembre 2023

La questione dei nomi illeggibili in Giappone

Da decenni i genitori danno ai propri figli nomi “kira-kira”, con pronunce inventate da loro: il governo vuole farli smettere

di Guido Alberto Casanova

(AP Photo/Koji Sasahara)
(AP Photo/Koji Sasahara)
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A partire dagli anni Novanta in Giappone si è diffusa tra i genitori la moda di dare ai propri figli nomi kira-kira, traducibili in italiano come nomi “scintillanti” nel senso che brillano per originalità in mezzo a tutti gli altri. Sono nomi che derivano da influenze straniere, dalla cultura pop o dalla fantasia dei genitori. Dare ai propri figli nomi fantasiosi non sarebbe un grosso problema, se non fosse che, a causa di alcune particolarità del giapponese, la scrittura di questi nomi kira-kira è spesso impossibile da leggere.

Per ogni carattere della scrittura giapponese esistono diverse pronunce possibili, anche completamente differenti l’una dall’altra. Generalmente però si tratta di pronunce accettate e consolidate nella comunità delle persone di lingua giapponese: tutti sanno che un certo carattere si può pronunciare in due-tre modi diversi. Ma con i nomi kira-kira i genitori decidono arbitrariamente di abbinare a un carattere una pronuncia completamente inventata, che di fatto rende quel nome illeggibile, a meno di non conoscere in precedenza la pronuncia decisa dai genitori.

La quantità di persone giapponesi con nomi illeggibili è ovviamente molto ristretta, tuttavia secondo alcuni studi sarebbe una tendenza in crescita. Ben presto però il governo potrebbe intervenire per regolare questa particolarità dei nomi giapponesi, imponendo un divieto su eventuali letture irregolari e fuori dal comune.

Perché i nomi kira-kira sono illeggibili
I nomi giapponesi sono composti da kanji (semplificando molto: i caratteri giapponesi), ognuno con una propria accezione traducibile singolarmente, e hanno tutti un significato: ad esempio una delle traduzioni di Yoko (nome abbastanza diffuso, lo stesso della cantante Yoko Ono) è “figlia/figlio oceano”. Spesso i nomi giapponesi riflettono quindi qualità che le famiglie desiderano attribuire ai propri figli.

Il Giappone però è un paese in cui la pressione collettiva sugli individui per aderire ai canoni condivisi dalla società è ancora molto forte. Dal comportamento da tenere in pubblico al corretto abbigliamento per l’ufficio, i cittadini giapponesi hanno quotidianamente a che fare con un certo livello di aspettative sociali a cui conformarsi.  Questa pressione è presente fin dalla scelta di come chiamare il nascituro, con un’alta incidenza di nomi personali che appartengono alla tradizione o che quanto meno sono consolidati, ricorrenti e riconoscibili. Da un punto di vista legale, esiste anche una lista di 2.999 kanji tra i quali è possibile scegliere i caratteri con cui iscrivere nel registro famigliare il nome del neonato.

In risposta a questa pressione sociale, a partire dagli anni ’90 si è affermato il fenomeno dei nomi kira-kira.

La particolarità della scrittura giapponese, quella di vincolare i caratteri a un significato ma non necessariamente a un’unica pronuncia, è stata sfruttata da un numero sempre crescente di genitori. Per esempio: il carattere 海 significa “mare”, e normalmente viene pronunciato come “kai” o “umi”. I bambini che vengono chiamati con questo carattere si chiameranno dunque “Kai” o “Umi”. Ma ci sono almeno 200 casi in cui i genitori hanno deciso arbitrariamente di associare a questo carattere la pronuncia “Marin”, per avvicinarsi all’immaginario marittimo occidentale.

Un altro esempio è l’uso di 男, un carattere che significa “uomo” e che generalmente si pronuncia come “dan”, “nan” oppure “otoko”, ma che in alcuni rari casi è stato usato come nome proprio da leggere “Adamu” per via dell’associazione biblica con il primo uomo.

I nomi kira-kira creano da tempo controversie nella società giapponese, e anche per questo secondo un sondaggio online circa l’80 per cento dei giapponesi ritiene che la pronuncia dei nomi vada regolamentata per legge.

Per evitare la diffusione di letture impossibili di caratteri e nomi altrimenti perfettamente comprensibili per un madrelingua, il governo giapponese sta quindi riflettendo su come standardizzare la pronuncia dei nomi da iscrivere nel registro famigliare. Al momento la pronuncia dei nomi non è normata e i genitori che registrano all’anagrafe la nascita comunicano solo i kanji con cui scrivere il nome, non anche la pronuncia.

La proposta formulata lo scorso febbraio da una commissione del ministero della Giustizia prevede che nei registri famigliari venga aggiunta una notazione per esplicitare come debbano essere letti i kanji con cui è composto il nome. Secondo le indicazioni, le pronunce che potrebbero essere accettate dall’anagrafe sarebbero solo quelle «generalmente riconosciute dalla società». La proposta tuttavia non delinea criteri specifici sulla base dei quali i funzionari comunali potranno decidere se una determinata pronuncia sia ammissibile o meno, ma sono già stati fatti circolare alcuni esempi di letture che non saranno consentite.

Per evitare confusione, non saranno permesse pronunce che deviano in modo arbitrario da quelle standard o che addirittura possano risultare omofone al contrario di ciò che significa il carattere: ad esempio il carattere 高, che significa “alto” e che è usato in nomi come Takashi, non potrà essere pronunciato come “hikushi” che invece è la parola usata per dire “basso” in giapponese.

Per capire meglio i kanji
I kanji (arrivati in Giappone dalla Cina nel V secolo d.C.) sono uno degli elementi più caratteristici della lingua giapponese. Per capirli, rispetto alla logica alfabetica a cui siamo abituati in Occidente, bisogna ribaltare il rapporto tra segno, suono e significato.

L’alfabeto latino è costituito da 23 lettere, ognuna delle quali è un segno scritto che rappresenta un suono: mettendo in ordine le lettere si possono pronunciare suoni composti a cui noi associamo un significato. Nei sistemi di scrittura di derivazione latina quindi una parola è un insieme di segni, che si possono pronunciare in un modo inequivocabile ma con alcune possibilità di fraintendimenti sul significato (si pensi ad àncora, quella presente sulle navi, e ancora, l’avverbio). La pronuncia della parola è quindi insita nella scrittura stessa.

Nei sistemi di scrittura che si basano sui caratteri cinesi come quello in uso in Giappone, il rapporto univoco tra scrittura e pronuncia che esiste in Occidente è invece assente. Ogni carattere si è evoluto a partire da rappresentazioni grafiche stilizzate della cosa che si voleva descrivere: ad esempio, “persona” si scrive col carattere 人 mentre “cavallo” col carattere 馬. Secondo questo sistema di scrittura, il carattere è in un rapporto immediato e univoco solo col significato, non con la pronuncia.

Mancando un rapporto di questo tipo, in giapponese per uno stesso carattere si sono affermate molteplici pronunce anche molto diverse tra loro. A determinare quale pronuncia del carattere sia quella corretta è solitamente il contesto.