Gli animali che si illuminano al buio

Nel caso vi capitasse con dei gamberi precotti in un panino

La scena in cui Dori e Marlin incontrano un pesce bioluminescente nell’abisso
Una scena del film del 2003 Alla ricerca di Nemo (Photo12/7e Art/Walt Disney Pictures)
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Di recente una coppia italiana di utenti di TikTok ha notato che i gamberi precotti con cui aveva farcito dei panini si illuminavano al buio. Il video che hanno condiviso è circolato molto e ha generato stupore, oltre all’interessamento di Esselunga, la catena di supermercati dove i gamberi erano stati comprati.

La coppia ha scritto che Esselunga si è scusata e ha emesso un rimborso, e che la luminescenza era probabilmente dovuta a una contaminazione batterica innocua. Esselunga ha confermato al Post di avere informato i due clienti che la presenza di microrganismi luminescenti è un fenomeno possibile e non è indice di cattiva conservazione o nocività del prodotto, come emerso anche da controlli che non hanno rilevato anomalie nella filiera. Anche alcuni commentatori avevano attribuito la luminescenza a batteri marini normalmente presenti in natura, mentre altri avevano insinuato che la luminescenza fosse causata da una lampada a raggi ultravioletti (nel qual caso bisognerebbe parlare più propriamente di fotoluminescenza: ci arriviamo).

«Le specie di gamberi commerciali più comuni nei supermercati non possiedono organi bioluminescenti, come invece avviene in alcune specie abissali», spiega Cinzia Corinaldesi, biologa marina dell’Università politecnica delle Marche ed esperta in ecologia microbica delle profondità oceaniche. Può capitare però che anche i gamberi privi di organi bioluminescenti ospitino batteri naturalmente bioluminescenti come quelli del genere Photobacterium, presenti nel mare e capaci di colonizzare la superficie o l’intestino degli animali.

Se i gamberi nel panino potevano essere consumati direttamente dalla confezione, come sostenuto in effetti dagli autori del video, «è possibile che si trattasse di batteri ancora in grado di produrre luce, poiché la bioluminescenza può persistere anche per diverse ore dopo la morte dell’ospite», aggiunge Corinaldesi. La bioluminescenza per contaminazione da batteri esterni nei crostacei è stata osservata persino dopo la cottura, in alcuni casi documentati dalla Food and Drug Administration (FDA), l’ente governativo statunitense che regolamenta i prodotti alimentari e farmaceutici.

Senza una specifica analisi del prodotto nel video su TikTok non è possibile però avere una risposta definitiva, né escludere manipolazioni o fluorescenza dovuta ad additivi o ad altre contaminazioni. Sia la bioluminescenza che la fotoluminescenza comunque sono proprietà comuni a diversi organismi viventi, animali e vegetali. Sono detti bioluminescenti quelli che emettono luce, come le lucciole e i batteri del genere Photobacterium; fotoluminescenti quelli che invece la riflettono, o la assorbono e la riemettono, da fonti luminose ultraviolette.

Una scia verde attraverso la fitta vegetazione di un bosco

Una scia di luce lasciata da una lucciola della specie Phausis reticulata in un bosco nei pressi di Cincinnati, in Ohio, il 22 giugno 2024 (AP Photo/Carolyn Kaster)

Di recente diversi scienziati, tra cui l’erpetologa dell’università del Michigan Hayley Crowell, hanno scoperto la fotoluminescenza in decine di animali di cui non si sapeva avessero questa proprietà: serpenti, scorpioni, gechi, uccelli e persino diversi mammiferi. All’occhio umano, che non percepisce la luce nella lunghezza d’onda dell’ultravioletto, sembrano animali normalissimi; se invece vengono illuminati da una lampada UV, riflettono la luce.

Non è ancora chiaro quali funzioni abbia la fotoluminescenza in questi animali, ma è possibile che sia il risultato di un adattamento evolutivo a diversi ambienti. Nei serpenti, per esempio, potrebbe servire a sfuggire a predatori in grado di percepire la luce ultravioletta, come gli uccelli.

Alcuni serpenti del genere Bothrops, diffuso nei Tropici, sono molto fotoluminescenti: probabilmente perché riescono in questo modo a mimetizzarsi nel fogliame di alcune piante, abbondanti in quell’ambiente, che pure riflettono la luce ultravioletta. Altri serpenti di una specie “sorella”, Crotalus viridis, non hanno invece alcuna fotoluminescenza. Vivono soprattutto nelle grandi pianure nel Nordamerica, e quindi riflettere la luce ultravioletta in questo caso li renderebbe facilmente individuabili dagli uccelli predatori.

Nelle profondità oceaniche la bioluminescenza – cioè quella degli organismi che emettono luce propria – è abbastanza la norma: è prodotta da circa il 75 per cento delle specie abissali. «Meduse, calamari, vermi, pesci, squali e altri organismi delle profondità marine producono autonomamente questa luce fredda per sopravvivere in un ambiente dove la luce del sole non penetra», dice Corinaldesi.

A volte la bioluminescenza crea effetti molto spettacolari visibili anche in superficie, come quando proviene da un tipo di plancton che, trasportato dalla marea, reagisce irradiando una luce blu perché percepisce una perturbazione nelle acque in cui si trova. Anche in questo caso una delle ipotesi per spiegare la bioluminescenza è che sia una forma di difesa per spaventare o disorientare i predatori.

L’emissione di luce è resa possibile da una reazione chimica che coinvolge un gruppo di enzimi chiamati luciferasi. E il fatto che nel mare queste fonti di luce siano generalmente blu ha una ragione fisica, come ha spiegato di recente il canale YouTube vt.physics commentando un video in cui un uomo mostra dei gamberi crudi da cui fuoriesce un fluido luminoso.

Rispetto all’aria l’acqua assorbe molto più facilmente i colori nelle lunghezze d’onda maggiori, come il rosso, l’arancione e il giallo. Invece le lunghezze d’onda più corte, quelle a cui corrisponde il blu, si disperdono meno e penetrano più a fondo nelle profondità dell’oceano.

Un’onda di colore blu elettrico, qualche decina di metri al largo di una costa scoscesa

Alcune onde che trasportano plancton bioluminescente si infrangono di notte nell’Oceano Pacifico al largo di una spiaggia a San Diego, California, il 9 novembre 2024 (Kevin Carter/Getty Images)

La bioluminescenza si è evoluta in maniera indipendente in diverse specie. In alcuni casi, gli organismi bioluminescenti hanno nei loro tessuti specifici organi che producono luce, detti fotofori. Il calamaro-polpo di Dana (Taningia danae), una specie di calamaro gigante con otto braccia e senza tentacoli, è noto per la sua bioluminescenza. Attraverso i fotofori all’estremità delle braccia emette brevi lampi di luce brillante prima di attaccare le prede, probabilmente per misurare la distanza da esse e per accecarle, anche se si ipotizza che la luce svolga un ruolo anche nei rituali di corteggiamento.

In generale la bioluminescenza è utilizzata per molteplici scopi: per attirare le prede tramite esche luminose, per riconoscersi tra individui della stessa specie o per la riproduzione, spiega Corinaldesi. «Alcune specie di gamberi possono addirittura rilasciare all’esterno una scia bioluminescente per accecare il predatore, mentre alcuni squali utilizzano la luce per “scomparire” attraverso un meccanismo noto come contro-illuminazione».

In altri casi, come quello citato all’inizio, la luce non è prodotta da organi specifici ma dai batteri che vivono in simbiosi con quegli organismi. Secondo le ipotesi più accreditate, in quelli dei generi Photobacterium o Vibrio è un meccanismo che si evoluto perché vantaggioso. «La bioluminescenza prodotta facilita la simbiosi con pesci o molluschi marini che offrono ai batteri un ambiente stabile e i nutrienti per vivere, una sorta di rifugio accogliente», dice Corinaldesi.

Un organismo luminoso che nella forma ricorda vagamente una microscopica medusa

Una specie del phylum degli Ctenofori nell’oceano Pacifico durante la spedizione Seascape Alaska 3 dell’agenzia statunitense National Oceanic and Atmospheric Administration, a luglio del 2023 (Noaa.gov)

Ci sono ancora moltissime cose da scoprire nelle profondità del mare. In questo tipo di ambiente «la luce funziona come un linguaggio universale», hanno scritto due ricercatrici della Florida International University in un articolo pubblicato a febbraio su Nature Communications Biology.

Studiando diverse specie di gamberi bioluminescenti diffusi negli oceani e capaci di grandi migrazioni verticali, le autrici hanno ipotizzato che usino la luce anche per orientarsi nell’oceano e per distinguere a loro volta fonti variabili di bioluminescenza. L’apparato visivo di alcune specie si sarebbe evoluto proprio in funzione delle variazioni di luminosità: i gamberi che migrano in acque meno profonde, dove c’è più luce disponibile, presentano infatti una maggiore varietà di particolari proteine (opsine) in grado di assorbire la luce.