Il fascino gigantesco del calamaro gigante

Da secoli le sue dimensioni e la rarità degli avvistamenti ne fanno un oggetto di interesse inesauribile nella cultura popolare e nella biologia

calamaro gigante
Una riproduzione di un calamaro gigante esposta al Museo di storia naturale di Londra, nel 1907 (Topical Press Agency/Getty Images)
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Poche altre specie viventi affascinano da secoli l’umanità e sono diventate argomento di leggende, storie di marinai, romanzi e ricerche scientifiche quanto il calamaro gigante, uno dei più grandi invertebrati al mondo. Le ragioni della sua potenza narrativa sono almeno due: il fatto che sia la versione gigantesca di un animale conosciuto, una specie di King Kong degli abissi, e il fatto che sia rarissimo avvistarlo, perché esiste sì da milioni di anni ma abita profondità del mare molto difficili da raggiungere.

Le sue caratteristiche e la rarità degli avvistamenti hanno reso il calamaro gigante uno degli animali allo stesso tempo più affascinanti e misteriosi sulla Terra. Molto di ciò che sappiamo deriva dallo studio di esemplari spiaggiati, di solito in cattive condizioni, o di resti recuperati dagli stomaci del suo più famoso predatore: il capodoglio, mammifero campione di immersioni e protagonista con il calamaro gigante di epiche scene di battaglia immaginate per secoli e raffigurate in decine di dipinti e illustrazioni.

È probabile che per effetto dei racconti e delle leggende la frequenza degli incontri tra il calamaro gigante e il capodoglio sia stata sovrastimata. È noto oggi che la dieta del capodoglio è perlopiù composta da calamari di medie dimensioni e altri cefalopodi come il polpo. Ma per un certo periodo l’analisi di cicatrici riscontrate sulla pelle dei capidogli, presumibilmente provocate dalle ventose dei calamari per difendersi dagli attacchi, fu considerata una tecnica valida per stimare approssimativamente le dimensioni della preda. Fu in seguito screditata in quanto poco accurata, perché le cicatrici possono crescere di dimensione nel tempo se, per esempio, sono il risultato di ferite subite quando il capodoglio era giovane.

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Un brandello di pelle di capodoglio con cicatrici da ventose di calamaro, in una fotografia del 1912 (Biodiversity Heritage Library/Wikimedia)

Molte caratteristiche dei calamari giganti, dalle dimensioni degli esemplari adulti alla tassonomia stessa, sono oggetto di dibattito. Sappiamo che come tutti i calamari sono dotati di due occhi, otto braccia e due tentacoli: solo che gli occhi hanno le dimensioni di un pallone da basket e i tentacoli sono lunghi dieci metri. Non è chiaro in quali precise aree geografiche siano presenti, ma abitano prevalentemente in acque profonde almeno 900 metri e sono per questa ragione un esempio molto citato di gigantismo abissale, la tendenza di diverse specie acquatiche a raggiungere dimensioni molto maggiori rispetto a quelle delle specie congeneri o della stessa classe che vivono in acque meno profonde.

Il più grande esemplare mai trovato era lungo circa 13 metri, praticamente quanto un autoarticolato, considerando l’estensione dalle due pinne posteriori fino alla punta dei due tentacoli, cioè le appendici più lunghe. Ma sulla base della dimensione dei becchi di calamaro gigante trovati negli stomaci dei capidogli si stima che possano esistere esemplari lunghi fino a 20 metri. Come per tutti i calamari, le braccia sono dotate di ventose ma sono più corte dei due tentacoli, che hanno ventose solo all’estremità e sono estratti per afferrare le prede e trascinarle fino al becco utilizzando anche le braccia.

La ragione per cui il calamaro gigante (Architeuthis dux) non è considerato il più grande invertebrato vivente in assoluto è perché il calamaro colossale (Mesonychoteuthis hamiltoni), un cefalopode appartenente a un’altra famiglia (Cranchiidae), ha un corpo più grande e pesante: circa 495 chilogrammi. Il calamaro gigante, che può arrivare a pesare 275 chilogrammi, è però con ogni probabilità il più lungo di tutti i cefalopodi.

Sulla base della provenienza geografica dei resti raccolti nel corso degli anni è stato ipotizzato che esistano più specie di calamaro gigante, distinte a seconda degli oceani in cui abitano, ma considerate anche le difficoltà e la rarità degli avvistamenti non ci sono molti altri elementi su cui basare le distinzioni. Uno studio pubblicato nel 2013 sulla rivista Proceedings of the Royal Society B esaminò 43 campioni di calamari giganti riscontrando una limitata diversità genetica, e suggerì che tutti gli esemplari siano parte di un’unica specie.

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Un’illustrazione di un calamaro gigante in un numero della rivista statunitense Harper’s Weekly del 1877 (Harper’s Weekly/Wikimedia)

Fino all’inizio degli anni Duemila il calamaro gigante è stato uno dei pochi animali a non essere mai stato fotografato o filmato da vivo, tra quelli della megafauna (come sono chiamate per convenzione le specie dal peso di oltre 46 chilogrammi: difficili da non vedere, insomma). Il primo avvistamento documentato di un esemplare adulto in buone condizioni e nel suo ambiente naturale avvenne in Giappone nel 2004 e fu celebrato come una delle più importanti scoperte nella storia della zoologia.

Dopo due precedenti spedizioni senza risultati i ricercatori giapponesi Tsunemi Kubodera e Kyoichi Mori riuscirono a riprendere un esemplare utilizzando una fotocamera, un flash e un’esca, attaccate a una lenza calata a 900 metri di profondità al largo delle isole Ogasawara, una nota area di caccia del capodoglio. Nello studio pubblicato successivamente mostrarono diverse fotografie in sequenza dei tentacoli del calamaro che emergevano dall’oscurità e avvolgevano l’esca attaccata alla lenza.

Kubodera è anche conosciuto tra gli esperti di biologia marina per aver filmato nel 2005 e descritto in uno studio successivo un esemplare di calamaro-polpo di Dana (Taningia danae), una specie di calamaro di grandi dimensioni (circa 2,3 metri di lunghezza), con otto braccia e senza tentacoli, noto per la sua bioluminescenza. Attraverso particolari ghiandole che producono luce (fotofori), presenti all’estremità delle braccia, emette brevi lampi di luce brillante prima di attaccare le prede, probabilmente per misurare la distanza da esse e per accecarle, anche se si ipotizza che la luce svolga un ruolo anche nei rituali di corteggiamento.

La fama di Kubodera è però legata principalmente al calamaro gigante. Nel 2012, sempre al largo delle isole Ogasawara, guidò una spedizione internazionale a bordo di un sommergibile speciale che riuscì a filmare a circa 600 metri di profondità un esemplare lungo circa 3 metri, attirato da una luce e un’esca (un calamaro più piccolo). Kubodera spiegò che il calamaro ripreso era un esemplare che aveva perso i tentacoli, cioè le sue due parti più lunghe, con i quali avrebbe altrimenti raggiunto una lunghezza complessiva di circa nove metri.

Il video girato nel 2012 è ancora oggi uno dei rarissimi casi di avvistamento di un calamaro gigante nelle profondità degli oceani: uno dei pochi documenti scientifici dopo secoli di racconti leggendari e storie di marinai che avevano un fondo di verità. «Per i vecchi marinai la sola differenza tra le favole e i racconti di mare è che le prime cominciano con “C’era una volta” e i secondi con “Queste non sono cazzate”», ricordò nel 2013 la biologa statunitense Edith Widder, che un anno prima aveva partecipato insieme al biologo neozelandese Steve O’Shea alla spedizione di Kubodera.

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Un’illustrazione in un libro sui molluschi del 1866 del divulgatore scientifico francese Louis Figuier (Wikimedia)

Si ritiene che il calamaro gigante sia il cefalopode all’origine di numerose superstizioni e leggende nordiche medievali sul kraken, un mostro marino talmente grande da trarre in inganno i marinai facendo credere loro di essere parte di un’isola, per attirarli a sé e trascinarli con i suoi tentacoli negli abissi. Non ci sono tuttavia ragioni per credere che il calamaro gigante possa attaccare le imbarcazioni, e in generale l’incontro con gli esseri umani è estremamente improbabile: nei rari filmati in cui capita di osservare calamari di grandi dimensioni muoversi vicino alla superficie del mare si tratta il più delle volte di esemplari feriti o morenti.

Prima delle osservazioni scientifiche più recenti, il fatto di essere il più grande animale sfuggente al mondo ha comunque rafforzato la presenza del calamaro gigante nell’immaginario collettivo. Esempi noti di calamari giganti – anche troppo – nella letteratura si trovano in Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne e in Moby Dick di Herman Melville, per esempio. Nel cinema il kraken è un mostro marino protagonista del film del 1981 Scontro tra titani: una scena del remake del 2010 in cui a un certo punto Zeus, interpretato da Liam Neeson, ordina ai suoi di liberare il kraken è diventata in seguito un meme molto popolare.

Nella conferenza Ted del 2013 in cui parlò della spedizione con Kubodera alla ricerca del calamaro gigante Widder sollecitò un utilizzo di maggiori risorse pubbliche per la ricerca in biologia marina e per le esplorazioni oceaniche, di gran lunga minore rispetto a quelle impiegate per la ricerca spaziale. E citò infine una frase del documentarista statunitense Mike deGruy, morto in un incidente in elicottero nel 2012: «Se volete fuggire da tutto e vedere qualcosa che non avete mai visto, o avere la grande opportunità di vedere ciò che nessuno ha mai visto, immergetevi con un sottomarino».