Chi è Pietro Parolin, il papabile che guiderà il conclave

È stato Segretario di Stato vaticano e si è occupato dello storico e controverso accordo con la Cina, ma non ha mai avuto una parrocchia

di Francesco Gaeta

Il cardinale Pietro Parolin celebra una messa nella basilica di San Pietro, mentre papa Francesco è ricoverato in ospedale, Città del Vaticano, 8 marzo 2025
(Christopher Furlong/Getty Images)
Il cardinale Pietro Parolin celebra una messa nella basilica di San Pietro, mentre papa Francesco è ricoverato in ospedale, Città del Vaticano, 8 marzo 2025 (Christopher Furlong/Getty Images)
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Il conclave che si apre il 7 maggio sarà presieduto dal cardinale Pietro Parolin. Spetterebbe in teoria al Decano del collegio cardinalizio, che è Giovanni Battista Re, o al Sottodecano, Leonardo Sandri: entrambi hanno più di 80 anni e non potranno entrare in conclave, come previsto dalla norma che esclude i cardinali ultraottantenni dal voto. Toccherà quindi a Parolin assumere la presidenza dell’assemblea, per effetto di una scelta del 2018 di papa Francesco.

Il suo ruolo sarà centrale. A nome del collegio, Parolin rivolgerà al nuovo papa eletto le due domande rituali: se accetta l’elezione e quale nome intende assumere. È una scena diventata familiare anche grazie al film Conclave, uscito da poco, dove il personaggio che presiede l’assemblea elettiva è il punto di osservazione di tutto ciò che accade nella Cappella Sistina, sede delle votazioni. Se avesse ragione chi lo dà favorito tra i papabili, Parolin in teoria si troverebbe in una situazione poco agevole, visto che dovrebbe non solo fare le domande ma anche rispondere: nella pratica però sarebbe un altro cardinale a fargliele.

Questo ruolo di “gestore” del conclave non è in ogni caso l’unico motivo per cui il suo nome è molto citato in questi giorni. Per oltre dieci anni Parolin è stato il Segretario di Stato, la carica che in Vaticano è paragonabile a quella di un primo ministro con una estesa delega agli Esteri. Da responsabile della diplomazia, ha gestito dossier molto complessi, conosce a fondo le logiche della curia vaticana e ne ha condiviso le trasformazioni negli anni di Francesco. Lo ha fatto con uno stile molto riservato, che è inevitabile avere in un ruolo come il suo.

Il cardinale Pietro Parolin nella basilica di San Pietro, Città del Vaticano, 2 maggio 2025 (Eric Vandeville/ABACAPRESS/Ansa)

Qualche giorno fa il New York Times lo ha descritto come «un italiano imperscrutabile, con una faccia da poker, flemmatico e profondamente cauto». E ha aggiunto: «Anche i suoi sostenitori ammettono che gli manca il carisma di Francesco, ma come leader della macchina vaticana nell’ultimo decennio, è quello che ha messo in atto la visione di Bergoglio». A differenza del papa argentino, però, Parolin non ha mai avuto una parrocchia, perché ha passato l’intera carriera nella diplomazia.

Pietro Parolin è nato nel 1955 a Schiavon, un piccolo paese in provincia di Vicenza. La madre era maestra elementare e il padre, morto quando lui era adolescente, aveva un negozio di ferramenta. Ha sempre raccontato quel lutto come un momento decisivo per la sua vocazione. Dopo il seminario a Vicenza ha studiato diritto canonico alla Pontificia Università Gregoriana ed è poi entrato nell’Accademia ecclesiastica, la scuola diplomatica del Vaticano. Parla correntemente inglese, francese e spagnolo.

Le sue prime sedi di lavoro nella diplomazia vaticana sono state Nigeria e Messico, dove si è occupato delle relazioni tra Stato e Chiesa. Nei primi anni ha seguito, tra le altre cose, le trattative per il riconoscimento legale della Chiesa cattolica in Vietnam. Nel 2009 è stato nominato nunzio apostolico – si chiamano così gli ambasciatori dello Stato del Vaticano all’estero – in Venezuela, in una fase particolarmente difficile nei rapporti tra la Chiesa e il governo di ispirazione marxista di Hugo Chávez.

Per sintetizzare quanto fatto in Venezuela ha usato una volta l’espressione “neutralità positiva”, per definire un atteggiamento che rifiuta l’opposizione frontale e cerca spazi di dialogo anche dove sembrano non esserci. È un’impostazione che richiama la cosiddetta “Ostpolitik” (“politica orientale”) vaticana, l’approccio diplomatico messo a punto dal cardinale Agostino Casaroli, Segretario di Stato durante il pontificato di Giovanni Paolo II, con cui la Chiesa cercò di mantenere una presenza nei paesi dell’Est anche sotto i regimi comunisti.

Nel 2013, pochi mesi dopo l’elezione di Francesco, Parolin fu nominato Segretario di Stato. L’anno successivo ebbe un suo primo personale successo gestendo i negoziati segreti, e passati inosservati fino alla fine, che dopo più di cinquant’anni portarono al ripristino delle relazioni bilaterali tra le delegazioni di Cuba e Stati Uniti. Il quotidiano britannico Guardian all’epoca descrisse quell’operazione come il «più grande successo per la diplomazia del Vaticano da almeno 30 anni». Anni dopo Parolin chiarì il principio che, almeno secondo lui, è alla base di quel risultato e in generale dell’azione diplomatica vaticana: «La diplomazia della Chiesa cattolica è una diplomazia di pace. Non ha interessi di potere: né politico, né economico, né ideologico. Per questo può rappresentare con maggiore libertà agli uni le ragioni degli altri e denunciare a ciascuno i rischi che una visione autoreferenziale può comportare per tutti».

Più rilevante, ma anche molto controversa, è stata la gestione dei rapporti con la Cina, che dopo anni di trattative sotto papa Francesco ha portato a un accordo firmato nel 2018, poi rinnovato altre tre volte. I contenuti sono formalmente segreti, ma si sa che riguardano soprattutto il processo di nomina dei vescovi in Cina: fino a quel momento era il regime cinese a sceglierli senza il consenso del Vaticano, mentre con l’accordo la nomina è diventata almeno formalmente concordata.

Il cardinale Pietro Parolin insieme a papa Francesco nel 2016 (Vatican Pool/Getty Images)

Tra il 2018 e il 2024 sono stati designati in questo modo undici vescovi: sei nei primi due anni, tre a gennaio del 2023, uno a giugno del 2024 e uno ad agosto del 2024. In almeno due casi la Cina ha violato l’accordo nominando unilateralmente un vescovo. L’agenzia AsiaNews ha raccontato che questa procedura si è ripetuta anche nei giorni scorsi, quando il governo cinese ha nominato due vescovi in modo decisamente irrituale vista l’assenza di un papa: sono tutti atteggiamenti interpretati come un segnale di quanto il governo cinese voglia mantenere e mostrare una grande indipendenza in quest’ambito.

Papa Francesco ha voluto fortemente questo accordo, considerandolo in ogni caso un passo avanti per garantire l’unità della Chiesa cinese, che è sottoposta a grandi pressioni politiche. Ma l’intesa è stata anche fortemente criticata all’interno della Chiesa, e con essa Parolin che ne è stato l’artefice. Il cardinale emerito di Hong Kong, Joseph Zen, lo ha accusato di “svendere” i cattolici al controllo del Partito comunista cinese. «Ero tra coloro che applaudivano la decisione di Francesco di nominare Parolin Segretario di Stato», ha scritto Zen nel 2018. «Ma ora penso che si preoccupi meno della Chiesa che del successo diplomatico». Sull’intesa Parolin ha detto che «ogni passo, anche piccolo, è meglio di uno scontro frontale». E di recente ha spiegato che la Chiesa ha chiesto alla Cina «che i cattolici possano essere cattolici»: in Cina i cattolici sono stati perseguitati per decenni (e in parte lo sono ancora).

Tra i dossier più sensibili gestiti da Parolin in questi ultimi anni c’è anche la guerra in Ucraina, rispetto alla quale la posizione del Vaticano è stata oggetto di critiche e interpretazioni contrastanti. A marzo dello scorso anno fu accolta molto negativamente un’intervista di papa Francesco alla televisione svizzera in cui suggeriva l’idea che l’Ucraina potesse «avere il coraggio della bandiera bianca». Parolin dovette poi spiegare che l’intento del Pontefice non era invocare la resa, ma sollecitare la ricerca di un negoziato: «L’appello del Papa è che si creino le condizioni per una soluzione diplomatica alla ricerca di una pace giusta e duratura. In tal senso è ovvio che la creazione di tali condizioni non spetta solo ad una delle parti, bensì ad entrambe, e la prima condizione mi pare sia proprio quella di mettere fine all’aggressione». Parole che al contrario, nel lessico della diplomazia vaticana, sembrarono una condanna piuttosto esplicita della Russia.

Parolin non è noto per la sua ricerca teologica, e sui temi di morale più discussi all’interno della Chiesa ha da sempre una linea prudente e diplomaticamente ortodossa. Dopo la dichiarazione del dicastero per la Dottrina della fede che nel dicembre 2023 ha aperto alla possibilità di benedizioni per coppie dello stesso sesso, ha spiegato che si tratta di «un gesto pastorale, non un’approvazione morale né un sacramento». In passato aveva definito «una sconfitta per l’umanità» l’esito del referendum irlandese del 2015 che legalizzava il matrimonio tra coppie omosessuali.

Negli ultimi anni la Segreteria di Stato è stata anche al centro di un caso che ha riguardato il cardinale Angelo Becciu, che è stato il vice di Parolin. Becciu è stato processato e poi condannato per irregolarità nella compravendita di un immobile a Londra e nei giorni scorsi ha rinunciato a partecipare al conclave. È una vicenda che non ha coinvolto direttamente Parolin, ma ha avuto effetti sul suo ufficio.

Nel 2021 papa Francesco trasferì la gestione degli investimenti finanziari e dei beni immobili di proprietà della Segreteria di Stato a un altro ufficio, quello dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (APSA), togliendo di fatto autonomia finanziaria all’ufficio guidato da Parolin.

Il fatto che in questi giorni Parolin sia indicato come papabile si deve alla sua vicinanza a Bergoglio, sulle cui riforme ha detto che «non ci potrà essere una inversione di marcia». Ma contano anche la sua esperienza da diplomatico e uno stile meno appariscente del papa di cui è stato collaboratore, doti che possono essere ritenute necessarie da quei cardinali che ritengono che il nuovo pontefice debba far metabolizzare il lavoro avviato dallo stesso Bergoglio più ancora che proseguirlo.

Ma anche che Parolin presieda il conclave è in pratica una scelta non scontata di papa Francesco: spetterebbe, vista l’età di Decano e Sottodecano, al cardinale più anziano per nomina appartenente all’Ordine dei vescovi titolari, che sono quelli di una delle sette diocesi suburbicarie, cioè intorno a Roma. Nel 2018 e nel 2020 il papa nominò Parolin e altri 4 cardinali come membri dell’Ordine (i cardinali sono divisi in tre ordini: diaconi, presbiteri e vescovi) e in deroga decise che venivano equiparati ai vescovi titolari, che al momento sono 12 ma solo 3 elettori: Parolin, Louis Antonio Tagle e Robert Francis Prevost.

Se si guarda alla statistica è piuttosto frequente che un papa arrivi dalla carriera diplomatica: è stato così per Paolo VI e Giovanni XXIII. È invece raro che sia eletto un Segretario di Stato: l’ultima volta successe con Eugenio Pacelli, diventato Pio XII nel 1939, ma prima di lui bisogna risalire al cardinale Giulio Rospigliosi, divenuto Clemente IX nel 1667. Probabilmente la cosa si deve anche al fatto che i Segretari di Stato vengono identificati con i papi da cui sono stati scelti. O al fatto che il loro potere gli ha attirato troppe inimicizie tra chi li dovrebbe eleggere.