Il presidente di Harvard è diventato un simbolo anti-Trump
Alan Garber si è opposto alle ingerenze dell'amministrazione statunitense, pur condividendo alcune posizioni del presidente

Nelle ultime settimane Alan Garber, il presidente dell’università di Harvard, la più antica e fra le più prestigiose degli Stati Uniti, è diventato una specie di simbolo dell’opposizione alle politiche del presidente Donald Trump, senza volerlo. Il suo nome era finito sui giornali di mezzo mondo per essere stato il primo a rifiutare apertamente di aderire alle richieste di Trump di cambiare i programmi e i criteri di ammissione, cosa che invece avevano fatto altre università americane, che di fatto si erano allineate alle politiche del governo.
Nonostante abbia detto di essere parzialmente d’accordo con Trump, Garber è stato glorificato da alcuni esponenti Democratici e liberal statunitensi, in cerca da tempo di nuovi leader capaci di guidare l’opposizione al presidente.
In un’intervista al Wall Street Journal, Garber ha detto di essersi trovato quasi per caso in questa posizione e ha spiegato meglio su quali questioni si sente vicino alle posizioni di Trump. Ha detto per esempio di ritenere che Harvard abbia un problema culturale da risolvere, perché tende a oscurare le posizioni lontane dal pensiero progressista più diffuso, e ha sostenuto che l’antisemitismo sia reale: il governo statunitense tra le altre cose aveva infatti accusato le università di favorire la diffusione dell’antisemitismo permettendo le manifestazioni pro Palestina e contro Israele.
Garber ha però aggiunto di non condividere i metodi usati dall’amministrazione Trump per fare pressioni sulle università, perché minerebbero la loro autonomia in un modo che considera inaccettabile. Garber ha detto: «Non ho scelto io questa battaglia, è la battaglia che è venuta da me».

Alan Garber nel maggio del 2024 (EPA/MARK STOCKWELL)
Garber ha 69 anni ed è presidente di Harvard, che ha sede in Massachusetts, vicino a Boston, dal gennaio del 2024, prima indicato come sostituto ad interim della dimissionaria Claudine Gay, poi da agosto in via definitiva. Ha studiato nell’università ottenendo tre lauree in campi diversi, poi si è trasferito a Stanford dove è diventato un medico e si è specializzato in economia del sistema sanitario, con tesi piuttosto critiche sull’attuale sistema statunitense, sulla possibilità delle case farmaceutiche di sfruttare economicamente brevetti ottenuti con ricerche frutto di lavori universitari e sulla poca chiarezza dei prezzi del sistema sanitario (i cui conti arrivano dopo le cure mediche, senza controlli preventivi per chi dovrà pagarli).
Nel 2011 Drew Gilpin Faust, l’allora presidente di Harvard, lo volle come rettore, apprezzandone le doti diplomatiche. Nelle università americane il rettore lavora in stretta relazione con il presidente, ma rispetto a lui si concentra maggiormente sull’aspetto accademico.
Già durante i dodici anni da rettore, Garber aveva ribadito più volte l’esigenza per Harvard di rendersi «meno conformista» e di permettere un maggiore confronto di idee. Nel 2023 aveva pensato anche di lasciare l’incarico e tornare solo a insegnare, ma le proteste studentesche dopo l’inizio della guerra israeliana a Gaza gli avevano fatto cambiare i piani. L’università era stata accusata di permettere espressioni di antisemitismo e la presidente Gay si era dimessa: Garber era stato scelto per sostituirla in modo quasi automatico, visto il ruolo.

Le cerimonie di laurea di maggio del 2024 (AP Photo/Charles Krupa)
Da presidente, Garber ha dovuto confrontarsi con la crisi di reputazione delle maggiori università, abbandonate da parte dei finanziatori e accusate dai conservatori di essere bolle di «progressismo radicale» in cui gli studenti sviluppano intolleranza verso le opinioni diverse da quelle condivise dalla maggioranza. Trump e il movimento MAGA hanno portato all’estremo queste accuse, ma la fiducia generale degli statunitensi in queste istituzioni era già notevolmente calata.
Garber ha gestito la crisi cercando di modificare il “sistema culturale” del campus: ha cambiato il modo in cui vengono gestiti il sistema disciplinare, le proteste e le assunzioni e ha definito l’antisemitismo «un problema reale», raccontando di essersi confrontato con studenti ebrei che gli hanno detto di essersi sentiti esclusi e ostracizzati all’interno dell’università. Sono state intraprese anche iniziative contro l’islamofobia.
Garber ha anche eliminato il sostegno dell’università alle feste di laurea per vari gruppi etnici e sociali. Gli studenti neri, quelli latini, quelli nativi e della comunità LGBTQ+ (fra gli altri) organizzavano celebrazioni specifiche, mentre lui ha sostenuto la necessità di ritrovare l’unità dell’ateneo.
Garber è stato anche piuttosto conciliante quando sono arrivate le prime richieste dell’amministrazione Trump, perché riteneva andassero nella direzione delle riforme già intraprese: non ha mai “trattato”, ma ha raccontato le decisioni prese. L’11 aprile ha però ricevuto una comunicazione dall’amministrazione statunitense che fra le altre cose chiedeva di permettere al governo federale di approvare le assunzioni dell’università, di esaminare le richieste di ammissione e di controllare con interviste la libertà di espressione degli studenti e dei docente.
Tre giorni dopo Garber ha reso pubblica la lettera di risposta in cui respingeva le ingerenze del governo «di qualunque partito» nelle decisioni di un’università privata. In quel momento è diventato una specie di simbolo della “resistenza” delle università. Da allora la sua opposizione all’amministrazione federale è stata risoluta: Harvard ha anche fatto causa al governo, accusandolo di aver violato i suoi diritti costituzionali.

Una recente riunione nel campus (AP Photo/Charles Krupa)
Nell’intervista al Wall Street Journal, Garber ha detto che Harvard e le altre università non hanno mai considerato i fondi pubblici «come un regalo», ma un mezzo per sviluppare la ricerca scientifica in campi fondamentali per gli Stati Uniti. Compromettere l’autonomia decisionale di un’università, ha aggiunto, potrebbe mettere in crisi l’intero sistema formativo e di ricerca.



