Sembra carne, ma è jackfruit
È un frutto tropicale che può pesare anche 40 chili, e per la sua versatilità viene usato sempre più spesso nelle alternative vegetariane e vegane

Quando il frate francescano Giovanni de’ Marignolli esplorò l’odierno Sri Lanka, nella prima metà del Trecento, si imbatté in un albero che nelle sue parole produceva «frutti meravigliosi della grandezza di un grosso agnello o di un bambino di tre anni». Il frutto di questa pianta tropicale, che definiva straordinaria, era «carnoso e pieno di sapori, dolce quasi come il miele e come i migliori meloni italiani», ma si poteva mangiare anche cotto.
Quello elogiato nel resoconto di viaggio di Marignolli era il giaco o giaca, meglio noto con il nome inglese jackfruit. Per secoli è rimasto sconosciuto al di fuori dei paesi in cui cresce – India e Sri Lanka su tutti – ma da ormai qualche anno per la sua versatilità è stato scoperto anche in Occidente, dove viene impiegato sempre più spesso come alternativa alla carne nei piatti vegani o vegetariani.
In Italia il jackfruit non è ancora diffuso, ma è facile trovarlo per esempio nel Regno Unito, dove si usa al posto della carne di manzo per preparare i tipici pasticci, oppure per farcire i taco o preparare piatti con riso e verdure al curry. Nel tempo ha avuto un certo successo anche in catene come Starbucks e Pizza Hut, che lo hanno usato rispettivamente per un wrap vegano o nella ricetta di una pizza in occasione del Veganuary, la sfida che incentiva le persone a provare una dieta vegana almeno per un mese, come proposito di inizio anno.
In effetti se da fresco e maturo il jackfruit ha un profumo intenso e un sapore che ricorda un po’ quelli di ananas, mango e pompelmo messi insieme, quando è acerbo è quasi insapore; quando si cuoce inoltre tende a sfilacciarsi, come la carne cotta a lungo. Per questo può essere usato in preparazioni dolci, come muffin o budini, ma anche come base per piatti salati.

Un albero di jackfruit vicino a Srimangal, in Bangladesh (Pavel Gospodinov/Getty Images)
Visto che può pesare anche 40 chili e superare i 60 centimetri d’altezza, il jackfruit è considerato il frutto più grande del mondo. Cresce dall’Artocarpus heterophyllus Lam, una pianta autoctona del sud dell’India della famiglia delle Moracee, a cui appartengono tra gli altri fichi, gelsi e il frutto dell’albero del pane, l’artocarpo. La sua buccia bitorzoluta verde-giallastra contiene una polpa gialla divisa in bulbi, che per essere consumata va separata dai semi e dalla sua pelle biancastra, da cui esce una linfa molto appiccicosa. Si possono mangiare anche i semi, interi o macinati.
Matura d’estate, ma visto che è così ingombrante e difficile da trasportare e da pulire nei negozi lo si trova perlopiù già tagliato: in latta o barattolo, in salamoia, oppure sottovuoto, disidratato. Di norma quello confezionato non è ancora maturo, ed è quindi molto adatto a essere usato per piatti diversi.

Una ragazza taglia un jackfruit (AP Photo/J Pat Carter)
Fino a qualche decennio fa in India il jackfuit si faceva essiccare al sole e si conservava per l’inverno, quando poi veniva reidratato per accompagnare portate di pesce o per essere cucinato da solo, per esempio saltato con cipolle, pomodori e spezie. A partire dagli anni Novanta però ha cominciato a essere considerato più che altro come uno di quegli alimenti da mangiare solo quando mancano tutti gli altri, e il suo albero quasi un fastidio da gestire, tanto che spesso le sue piante venivano tagliate o lasciate a loro stesse, ha raccontato James Joseph, fondatore di un’azienda che vende jackfruit (all’inizio disidratato, oggi solo in farina).
In Sri Lanka invece è conosciuto come bath gasa, o albero del riso, perché fu una risorsa fondamentale per la popolazione locale durante il periodo coloniale britannico, quando i terreni normalmente coltivati a riso furono requisiti e impiegati per la coltivazione di tè o cannella. Damith Amarasinghe, un insegnante di storia di Colombo, la capitale del paese, ha raccontato che negli anni Settanta il jackfruit fu soprannominato anche il “frutto della carestia”: i frutti cresciuti sugli alberi piantati proprio durante il periodo coloniale infatti furono una preziosa fonte di sostentamento anche durante successivi periodi di siccità, scarsità di cibo o crisi economica.

Un piatto a base di jackfruit preparato in un ristorante di Rio de Janeiro (AP Photo/Silvia Izquierdo)
Tradizionalmente in Sri Lanka il jackfruit si cucina a casa, per esempio sotto forma di polpette o nel kottu, un piatto in cui viene tagliato a fettine assieme a cipolle e carote. Adesso però ha cominciato a essere servito anche nei ristoranti.
Quanto al suo successo in Occidente, si deve come detto sia alla sua versatilità in cucina, parallela al crescente interesse per le diete vegetariane e vegane, sia al fatto che sia una buona fonte di carboidrati, oltre che di vitamine B e C, minerali e antiossidanti, che possono avere effetti positivi per l’organismo. Per questi motivi secondo alcuni studi potrebbe essere sfruttato anche in paesi in situazioni di rischio alimentare. Polpa e semi del jackfruit inoltre hanno un apporto di proteine superiore ad altri frutti simili, seppur di gran lunga inferiore ad altri alimenti vegetali come tofu e tempeh, che sono derivati dalla soia.
Oggi il jackfruit viene prodotto soprattutto in India, in Sri Lanka e in Bangladesh, ma anche in Thailandia, Indonesia e Vietnam, nell’Africa centrale, in Sudamerica e in Australia, o comunque laddove ci sia un clima caldo e umido adatto alla coltivazione. Invece viene esportato perlopiù in paesi come Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Regno Unito, Stati Uniti e Paesi Bassi. È stato stimato che nel 2030 il suo mercato supererà globalmente i 453 milioni di dollari, un aumento del 35 per cento rispetto ai 327 del 2022.
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