Perché si parla di mafia cinese a Prato
Ci sono scontri tra gruppi criminali che vogliono controllare la produzione di grucce e la logistica dell’abbigliamento

Lo scorso 6 luglio a Prato, in Toscana, un imprenditore cinese è stato aggredito in un locale da un gruppo di connazionali, che lo hanno colpito con una bottiglia di vetro, picchiato e poi accoltellato all’addome. Nonostante le ferite molto gravi, l’uomo è sopravvissuto. Martedì per il suo tentato omicidio sono state condannate a sette anni e sei mesi di carcere cinque persone: secondo la sentenza erano arrivate appositamente dalla Cina per proteggere – con la violenza – gli interessi di alcuni imprenditori di Prato che producono grucce, gli appendiabiti in metallo da pochi centesimi fondamentali per chi fa vestiti.
In un comunicato diffuso il 29 aprile il procuratore capo Luca Tescaroli ha detto che gli episodi violenti legati a questo settore si sono intensificati dallo scorso giugno. A differenza di altri, però, l’aggressione del 6 luglio ha permesso di ottenere nuove e preziose informazioni sul contesto in cui avvengono queste violenze, su chi comanda e come. I giornali parlano da mesi di una “guerra delle grucce”, un’espressione un po’ romanzesca per indicare la lunga serie di scontri violenti tra gruppi criminali cinesi che puntano a controllare la produzione di grucce e più in generale il mercato della logistica dell’abbigliamento (quindi i trasporti e tutto ciò che serve per spostare i vestiti).
A Prato, dove c’è il distretto tessile più grande d’Europa, è infatti concentrata da tempo anche la produzione del cosiddetto “fast fashion”, cioè abiti di scarsa qualità e a basso costo, che è in mano ad aziende cinesi note anche per lo sfruttamento sistematico dei lavoratori.
La “guerra delle grucce” è in realtà lo sviluppo più recente di una situazione che va avanti da anni, fatta di aggressioni, attacchi incendiari, intimidazioni e omicidi. Tescaroli ha spiegato che i responsabili sono gruppi imprenditoriali tra loro rivali e che questi hanno legami con la ‘ndrangheta, la camorra, e la Sacra corona unita, un’organizzazione criminale che agisce prevalentemente in Puglia. I sindacati e le associazioni hanno iniziato a parlare apertamente dell’esistenza di una mafia cinese a Prato anni fa, e più di recente hanno cominciato a farlo anche le istituzioni in modo netto, chiedendo al governo di intervenire.
Anche l’uomo aggredito il 6 luglio possiede un’impresa che produce grucce per abiti. Conosce quindi bene le lotte tra le bande di Prato e anche lui ha dei precedenti penali: fu condannato in via definitiva per un omicidio commesso nel 2006 a San Giuseppe Vesuviano, in provincia di Napoli. Lo scorso settembre questo imprenditore ha iniziato a collaborare con la procura (e da dicembre anche suo fratello, che vive all’estero): i suoi racconti hanno permesso agli investigatori non solo di individuare chi lo aveva aggredito ma anche di capire meglio cosa stava succedendo a Prato.
Sarah Caudiero fa parte del sindacato Sudd Cobas Prato Firenze, che da anni segue da vicino la situazione e cerca di aiutare i lavoratori cinesi del distretto. Spiega che oggi gli imprenditori cinesi proprietari di un’azienda di abbigliamento a Prato vengono costretti da gruppi criminali a comprare le grucce prodotte solo da certe imprese e a usufruire solo di alcuni servizi di trasporto dei vestiti. «In pratica, questi produttori e fornitori vogliono obbligare gli imprenditori tessili a rifornirsi da loro», dice. Lo fanno, prosegue, per dominare il mercato e agiscono «come la mafia tradizionale italiana. I metodi e lo stile non sono diversi da quelli che conosciamo: intimidazioni, estorsioni, incendi e supponiamo anche un meccanismo simile al pizzo».
Gli episodi avvenuti a Prato o in altre città ma riconducibili in qualche modo a Prato sono molti. Solo per citarne alcuni: il 18 giugno scorso un imprenditore cinese che lavora nella logistica dell’abbigliamento è stato picchiato davanti all’hotel M2 di Prato; l’8 luglio un altro produttore è stato attaccato e il 15 luglio è stata incendiata una ditta cinese della logistica; ancora, a ottobre qualcuno ha dato fuoco a un’auto di un imprenditore cinese e gli ha lasciato vicino una bara con sopra una sua fotografia. Il 16 febbraio di quest’anno sono stati incendiati tre capannoni di ditte della logistica cinesi nei comuni di Prato, Seano e Campi Bisenzio: le bottiglie incendiarie azionate da remoto erano state messe dentro pacchi recapitati dalla stessa impresa. Dodici giorni dopo a Madrid è stato incendiato un grosso magazzino di abbigliamento, di proprietà di cinesi, con la stessa modalità: per chi indaga c’è un nesso con i gruppi criminali di Prato.
Allo stesso modo si ritiene ci sia un legame con Prato anche nel caso del doppio omicidio avvenuto a Roma la sera del 14 aprile, quando un uomo e una donna di nazionalità cinese sono stati uccisi con colpi d’arma da fuoco in via Prenestina, nella zona est della città e vicino al quartiere del Pigneto. L’uomo si chiamava Zhang Dayong ed era un importante referente della mafia cinese, il braccio destro del mafioso Naizhong Zhang. Entrambi erano finiti in una grossa indagine della Direzione distrettuale antimafia della procura di Firenze chiamata “China Truck”, per cui nel 2018 vennero arrestate decine di persone. Secondo l’accusa le persone coinvolte nell’inchiesta appartenevano a un’organizzazione criminale che con metodi mafiosi controllava lo spostamento di merci tra aziende cinesi in varie città italiane, tra cui Prato, e diversi paesi europei. Il processo è ancora in corso.
Caudiero dice che in questa situazione oltre agli imprenditori cinesi sono in pericolo anche molti lavoratori senza tutele che lavorano per loro e che quindi rischiano di essere coinvolti per esempio negli attacchi incendiari ai magazzini. L’aspetto positivo rispetto ad anni fa però, prosegue Caudiero, è che ormai «si è iniziato a parlare esplicitamente di metodi mafiosi. Tescaroli ha avuto il coraggio di nominare qualcosa che era alla luce del sole, ma a lungo le amministrazioni comunali di Prato hanno cercato di mettere il problema sotto il tappeto anche per paura di un danno d’immagine».

Il procuratore Luca Tescaroli, 11 settembre 2018 (ANSA/MASSIMO PERCOSSI)
Tescaroli, che ha alle spalle una lunga carriera di contrasto alla mafia, ha iniziato la sua attività di procuratore capo di Prato a luglio del 2024. In una recente risposta a un’interrogazione dei deputati di Fratelli d’Italia Chiara La Porta e Francesco Michelotti, Tescaroli ha detto che sarebbe auspicabile creare una Direzione distrettuale antimafia anche a Prato, dato il grado di complessità e pericolosità della criminalità di Prato. Una delegazione della commissione parlamentare antimafia, che è stata a Prato a inizio aprile, ha intanto confermato la necessità di aumentare i magistrati in città. Anche il ministero dell’Interno sta monitorando la situazione.
Nel frattempo Tescaroli ha fatto un appello ai lavoratori del distretto per collaborare con la procura: dal 6 febbraio hanno iniziato a farlo 52 persone. In cambio la procura di Prato assicura a chi collabora una sorveglianza via radio e un permesso di soggiorno per motivi di giustizia, un tipo di permesso concesso dall’autorità giudiziaria a persone straniere la cui permanenza in Italia è ritenuta indispensabile per un procedimento penale in corso. Questo tipo di permesso, però, non garantisce una protezione come quella che ottengono i collaboratori di giustizia. In diverse interviste Tescaroli ha fatto capire che sarebbe utile estendere, o comunque replicare, la legge sui collaboratori di giustizia italiani anche alle persone straniere.
Il lavoro della procura e l’impegno di lunga data di sindacati e associazioni come la Fondazione Antonino Caponnetto hanno fatto in modo che ora si parli di più di quello che sta succedendo a Prato dentro e fuori dalla città. «Fino a poco tempo fa anche qui tutto rimaneva molto dentro la comunità cinese, che è in parte segregata in alcune zone della città e nei macrolotti del distretto. Adesso c’è più consapevolezza che è un problema che riguarda tutti», dice Caudiero. La sindaca di Prato, Ilaria Bugetti (del Partito Democratico), ha di nuovo chiesto di aumentare gli organici delle forze dell’ordine ma ha ribadito che se si parla di mafia gli interlocutori devono essere innanzitutto la procura e il governo.
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