Convivere con l’acufene (e esserne quasi felici)
«È come se un filtro si fosse rotto e il cervello non fosse più in grado di mettere a tacere quella cacofonia che il nostro corpo produce in continuazione»

Nel 1952 il compositore musicale statunitense John Cage concepì 4’33”, una composizione sperimentale dalla durata complessiva di quattro minuti e trentatré secondi il cui spartito dà una semplice istruzione ai musicisti: «Tacet». Non fate niente. Rimanete in silenzio.
L’anno precedente Cage – che per inciso nel 1958 sarebbe comparso a Lascia o raddoppia? – aveva visitato una camera anecoica all’Università di Harvard. Una camera anecoica è un ambiente di laboratorio progettato per minimizzare la riflessione di segnali acustici sulle pareti (il termine deriva dal greco e significa «privo di eco»). In sostanza, è un luogo silenziosissimo.
Nella camera anecoica John Cage si accorse, però, di udire due suoni: uno più acuto e uno più grave. L’ingegnere che lo accompagnava gli spiegò che il suono acuto era emesso dal suo sistema nervoso, quello grave dal suo apparato circolatorio. Conclusione: il silenzio assoluto non esiste.
4’33” è quindi una composizione musicale costituita da tutti i suoni ambientali inevitabilmente presenti in ogni circostanza: il respiro del pubblico, l’accavallarsi di gambe, l’occasionale starnuto, il ticchettio dell’orologio del vicino che all’improvviso sembra scandire lugubri rintocchi assordanti come campane.
Io non ho bisogno di entrare in una camera anecoica per udire i suoni emessi dal mio sistema nervoso. Ho infatti l’acufene (dal greco «manifestarsi dell’udire»), un disturbo uditivo per cui uno sente suoni che non dovrebbe sentire. È come se un filtro si fosse rotto e il cervello non fosse più in grado di mettere a tacere quella cacofonia che il nostro corpo produce in continuazione. Di solito ci si abitua nel giro di qualche tempo (vedremo come e perché), ma in alcuni casi più gravi (e più rari) può essere abbastanza rognoso.
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L’acufene è un fenomeno poco capito dalla medicina e le cause scatenanti sono le più svariate. Un trauma acustico (un colpo di pistola ma anche più banalmente un concerto rock), la perdita temporanea dell’udito, l’assunzione di farmaci ototossici (ovvero che fanno male all’apparato uditivo), una lesione alla testa, un periodo di forte stress e persino un ostinato tappo di cerume. Per me, fu una combinazione degli ultimi due fattori il che rende l’origin story del mio acufene poco glamour.
Anche i suoni che un acufenizzato avverte possono essere i più fantasiosi: c’è il classico fischio stile granata di Call of Duty, ma anche brusii, cinguettii, frinire di cicale più o meno elettriche. C’è gente che racconta di porte sbattute e altri fenomeni che paiono essere di pertinenza più di un esorcista che di un otorino. Un grande classico, quando l’acufene entra per la prima volta nella propria coscienza, è controllare tutti gli apparecchi elettronici presenti in casa per assicurarsi che non siano guasti. A me capitò di controllare e ricontrollare le mie cuffie con cancellazione attiva del rumore fino ad accorgermi che il problema stava in un posto misterioso tra le mie orecchie.
Nei periodi iniziali un acufenizzato tende a prestare particolare attenzione ai cambiamenti dei suoni percepiti. Ricordo che una volta, di ritorno da una festa aziendale con concerto (rigorosamente munito di tappi per la protezione dell’udito), sentivo al contempo gli elicotteri di Apocalypse Now (ma senza Cavalcata delle Valchirie), un nugolo di calabroni grandi quanto palle da rugby. La mattina dopo, tutto era tornato al solito tran tran.
Non sono certo il solo ad avere l’acufene. Al contrario, è un fenomeno estremamente diffuso. Si stima che tra il 10% e il 15% della popolazione mondiale ne faccia la conoscenza a un certo punto della vita (l’acufene può andare, venire e tornare… ma come vedremo, di solito, fa poca differenza). In Italia, si stima che abbia una prevalenza di circa il 6% tra la popolazione adulta pari a circa tre milioni di persone.
L’acufene lo hanno avuto o lo hanno, in modi e gravità diverse, persone famose di ogni risma. Si va da Louis-Ferdinand Céline, che probabilmente se lo prese nelle trincee della Prima guerra mondiale, all’attore americano William Shatner, il capitano Kirk di Star Trek, vittima di un’esplosione pirotecnica sul set della serie TV di cui era uno dei protagonisti. In Italia il cantante Caparezza ha raccontato la propria esperienza nell’angosciante canzone Larsen contenuta nell’album Prisoner 709 del 2017. Il fumettista Leo Ortolani ne ha invece parlato in un post sul suo blog del 2012 in cui lo ha descritto come il fischio di un treno che non si ferma più con l’aggiunta occasionale di altri rumori «tipo lavatrice in funzione dei vicini del piano di sotto […] RUMBLERUMBLERUMBLE».
L’eterogeneità delle cause e dei modi in cui l’acufene si manifesta lascia intuire che al giorno d’oggi non vi siano cure mediche. A volte alcuni medici prescrivono protocolli a base di steroidi (nei casi acuti di traumi acustici) o addirittura integratori alimentari come il ginkgo biloba ma, in generale, non c’è ancora un trattamento specifico approvato. Il fenomeno è molto complesso e sfaccettato e soprattutto coinvolge il cervello, che non è esattamente la parte del corpo di cui conosciamo meglio il funzionamento. Allo stesso tempo è vero che ci sono studi pionieristici (tra cui vale la pena citare almeno quelli della dottoressa Susan Shore, dell’Università del Michigan) che lasciano intravedere qualche barlume di sviluppo all’orizzonte (ma si parla di anni, se non decenni).
Basta però dare un’occhiata ai tanti forum presenti sull’argomento su diversi social media quale Facebook e Reddit per rendersi conto che, data l’assenza di cure scientifiche approvate, le persone che soffrono di acufene (gruppo che non coincide con l’insieme di chi ha l’acufene) spesso si affidano a improbabili cocktail di integratori alimentari o altre terapie il cui uso in relazione all’acufene è molto poco studiato (per esempio, l’agopuntura). Certo, va molto meglio che nei secoli passati. Casi di acufene sono documentati sin dall’antichità e allora le cure erano particolarmente bizzarre: per i malanni dell’orecchio, per esempio, Plinio il Vecchio suggeriva di inserire nel condotto uditivo vermi bolliti nel grasso d’oca, ma ancora milleseicento anni dopo uno dei trattamenti consisteva nell’inserire succo di barbabietola per via nasale.
Oggigiorno il ricorso a cure stravaganti è dettato dalla disperazione di non avere una soluzione medica al proprio problema. L’acufene può devastare la vita delle persone. I gruppi Facebook e Reddit di cui sopra sono un maelstrom di resoconti per lo più agghiaccianti: persone che fino a poche ore prima stavano leggendo un libro in tranquillità si ritrovano in testa un fischio simile a quello che tormenta gli astronauti di fronte al monolite nero in una delle scene iniziali di 2001: Odissea nello spazio. Un fischio che non si interrompe mai.
Come canta Caparezza in Larsen: «Primo pensiero al mattino, l’ultimo prima di buttarmi giù dal terrazzo». Anch’io nelle prime settimane da acufenizzato mi ero ritrovato a fare strani calcoli. Due problemi mi tormentavano. Il primo, più grave, era non riuscire a dormire senza dosi elefantiache di benzodiazepine perché tenuto sveglio dalla cacofonia h24 che mi trovavo nelle orecchie. Il secondo, più filosofico, era la consapevolezza che non avrei mai più vissuto l’esperienza del silenzio. Che, però, come abbiamo visto, tecnicamente non esiste. Passiamo quindi alla pars construens della mia esperienza: cercherò di dimostrare, cioè, che l’acufene può non essere un problema per chi ce l’ha. Vediamo, dunque.
Noi umani, così come tanti animali, siamo dotati di un meccanismo biologico di apprendimento chiamato abituazione. La Treccani definisce l’abituazione come «la diminuzione graduale della risposta di un organismo a uno stimolo che viene ripetuto nel tempo, in assenza di conseguenze positive o negative». Per sopravvivere, insomma, dobbiamo mantenere l’attenzione su quello che conta e lasciar perdere gli stimoli irrilevanti. Per esempio, io porto gli occhiali ma non ci penso mai. Certo, adesso che ne ho scritto me ne sono ricordato e ho realizzato che la montatura occupa una parte non indifferente del mio campo visivo. Ma è uno stimolo inutile e presto me ne dimenticherò.
Il meccanismo di abituazione all’acufene è, su scala diversa, simile. Adesso che ne sto scrivendo (e, più o meno inconsciamente, sto ripercorrendo i periodi di estrema ansia di quando lo percepii per la prima volta) il mio cervello ne sta amplificando il segnale e ne sono ben cosciente. Quando dovrò cucinare e mi ricorderò all’improvviso di dover anche fare il bucato perché tra giorni andrò in vacanza e devo ancora sbrogliare una serie di robe di lavoro, il mio cervello tornerà a occuparsi di faccende più impellenti e allora l’acufene tornerà a essere quella specie di ispido tappeto sonoro elettrico di sottofondo che accompagna le mie giornate, perlopiù senza interferire.
In quanto esseri umani siamo portati a catalogare gli avvenimenti della vita come positivi o negativi. «Ciò che turba gli uomini non sono le cose, ma i giudizi che essi formulano sulle cose», sosteneva il filosofo stoico Epitteto proponendo un rimedio contro l’acufene sicuramente più efficace dei vermi bolliti propinati dal suo contemporaneo Plinio il Vecchio. Senza voler abbellire più del necessario la questione, mi sento di dire che l’acufene può essere considerato un maestro di vita stoico. Più resisti e cerchi di sradicarlo nei modi più peculiari, più il tuo cervello lo percepisce come un pericolo, lo amplifica e dirotta la tua attenzione su di esso.
L’acufene, direbbe uno stoico, è un’occasione per coltivare un’attitudine più neutrale e distaccata nei confronti dell’esistente. È un allenamento mentale obbligatorio che, a lungo andare, insegna al tuo cervello a distaccare il segnale da ogni possibile semantica. In fondo è solo rumore, non significa niente. E capita che un giorno tu ti accorga che questa forzata plasticità mentale fa capolino anche in altri aspetti della vita quotidiana: ti ritrovi stressato, in piedi, in ritardo, pigiato su un treno che ti porta al lavoro? Non è piacevole, ma puoi mettere una notevole distanza tra gli stimoli provocati dalla situazione e la tua reazione a essa. L’esperienza non può certo diventare piacevole ma neutrale, o quasi, sì.
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Insomma, il distacco è un bonus non da poco in un mondo iperstimolante in cui sembra che si debba avere sempre un’agguerrita opinione su tutto. Per dire, anche i post sui social artatamente creati per innescare una reazione negativa perdono la loro carica esplosiva e diventano stimoli irrilevanti.
Faccio partire 4’33” di John Cage su Spotify (la traccia esiste, sarebbe interessante sapere chi la ascolta e perché a parte il decisamente ristretto gruppo di persone che hanno l’acufene e ci scrivono articoli su. Per inciso, esiste anche un’app che permette alle persone di tutto il mondo di caricare i propri personali 4’33’’ e di ascoltare quelli degli altri). Sento le consuete oscillazioni elettriche nel mio cervello ma anche il treno che passa, due cani che abbaiano, persino uno sciacquone in lontananza. Qualcuno ha fatto la cacca. Nel bene o nel male, il rumore è vita.
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