Non ci sono più i beni rifugio di una volta
Il dollaro e i titoli di stato americani erano il classico investimento sicuro per periodi burrascosi come questo, ma con i mercati in balìa di Trump è cambiato tutto

Il dollaro statunitense e i treasury, i titoli di stato americani, sono da sempre considerati i beni rifugio per eccellenza, cioè il classico investimento sicuro anche nelle crisi peggiori (insieme all’oro). Solitamente ai primi accenni di problemi sui mercati finanziari il loro valore inizia ad aumentare rapidamente: è il segno inequivocabile che gli investitori li stanno comprando per mettere al riparo i propri soldi, e l’alta richiesta ne fa aumentare il prezzo.
Nei giorni scorsi, tra i più turbolenti degli ultimi anni, sui mercati finanziari è successo l’esatto contrario: il valore di dollaro e treasury è sceso come qualsiasi altro tipo di strumento finanziario. Non solo i due strumenti non hanno assolto alla loro solita funzione di bene rifugio, ma i forti cali erano il segnale che gli investitori se ne stavano addirittura liberando in massa, anche a costo di vendere a un prezzo basso. È un cambiamento impressionante, che diversi analisti hanno interpretato come una seria crisi di fiducia degli investitori verso l’economia statunitense e la sua finanza, in balìa delle politiche caotiche del presidente Donald Trump sugli alti dazi che ha imposto e poi sospeso nel giro di pochi giorni.
È un cambiamento che intacca anche quello che gli economisti hanno sempre chiamato il “privilegio esorbitante” degli Stati Uniti, cioè quella condizione per cui il governo americano non si è mai dovuto preoccupare di difendere il valore della sua moneta e dei suoi titoli di stato, neanche nei momenti di più alta tensione sui mercati, perché ci pensavano già le molte richieste sui mercati finanziari a sostenerli: c’era sempre chi comprava dollari per le proprie transazioni, o chi comprava i treasury per mettere al sicuro i propri risparmi.
Partiamo da cosa è successo ai dollari, che sono la valuta principale per l’economia mondiale: il petrolio si compra in dollari, l’oro si compra in dollari, gran parte delle transazioni internazionali avviene in dollari; il debito di molti paesi è determinato in dollari e in molti paesi emergenti o in via di sviluppo talvolta anche per le piccole transazioni gli esercenti preferiscono accettare dollari invece che la valuta locale.
La fiducia che il mondo ripone in questa moneta deriva principalmente dalla sua storia e dal fatto che gli Stati Uniti sono percepiti come una potenza economica stabile, che difficilmente non sarà più affidabile. Questa percezione negli ultimi giorni è molto cambiata.

(AP Photo/Tatan Syuflana)
L’inaffidabilità delle politiche di Trump, che sui dazi ha fatto tutto e il contrario di tutto, ha innescato massicce vendite di posizioni in dollari: nella pratica significa che molti investitori hanno cambiato i dollari che avevano con altre valute, e quindi hanno “venduto” dollari per “comprare” euro, yen, sterline, e via così. Questi movimenti a loro volta hanno provocato un calo del suo valore rispetto a quello delle altre principali monete di riferimento.
Si vede dall’andamento dello US Dollar Index, un indice che misura il valore del dollaro in relazione a un insieme di valute straniere, che hanno un diverso peso nel calcolo a seconda della rilevanza internazionale dell’economia che rappresentano. Tra queste c’è l’euro, che pesa quasi per il 60 per cento, a seguire lo yen (la valuta usata in Giappone), la sterlina britannica, il dollaro canadese, la corona svedese e il franco svizzero. Da inizio anno l’indice ha avuto un calo di quasi il dieci per cento, gran parte del quale si è accumulata in questi giorni.
È molto importante il confronto con l’euro, che è la moneta dell’area economica più paragonabile agli Stati Uniti. A gennaio le due valute oscillavano intorno a una sostanziale parità, con l’euro leggermente più forte tra le due: da allora il dollaro ha perso il 10 per cento del suo valore. Vuol dire che, mentre a gennaio con un dollaro si otteneva circa un euro, oggi servono quasi un dollaro e dieci centesimi. Gran parte del peggioramento è avvenuto dal 2 aprile, quando Trump ha annunciato i nuovi dazi contro il resto del mondo.
Il calo del dollaro è eccezionale non perché non perda mai valore, ma perché di solito non lo perde in situazioni di crisi, essendo appunto considerato un bene rifugio. Le perdite di questi giorni sono poi eccezionali anche perché sono il contrario di quanto avrebbe predetto la teoria economica: semplificando i libri di economia prevedono che in presenza di dazi (e in generale di tutto ciò che può provocare aumenti dei prezzi) è plausibile ipotizzare un rafforzamento della moneta, come conseguenza di probabili interventi della banca centrale per evitare che il costo della vita cresca in modo incontrollato (per esempio attraverso l’aumento dei tassi di interesse).
Questo effetto non si è verificato perché i mercati hanno dato più peso a prospettive molto pessimistiche sull’economia statunitense, che invece sono più coerenti con un indebolimento del dollaro. Una circostanza del tutto eccezionale. Così com’è stato eccezionale quello che è accaduto ai treasury, i titoli di stato americani.

Un trader della borsa di New York, con dietro un tabellone pieno di ribassi (AP Photo/Seth Wenig)
Nei giorni scorsi c’è stata una massiccia tendenza degli investitori a liberarsi dei treasury, cosa che ne ha fatto scendere il prezzo e salire il tasso di interesse (due parametri che sono inversamente correlati, semplificando un po’). Come ogni titolo di stato, i treasury sono considerati una sorta di “biglietto da visita” per l’economia statunitense: se il loro rendimento aumenta vuol dire che vengono considerati più rischiosi, e che lo stato che li emette non è ritenuto molto stabile.
L’aumento del rendimento dei titoli di stato significava che i disastri provocati dai dazi non stavano intaccando soltanto i mercati finanziari, ma anche la fiducia generale nell’economia degli Stati Uniti, con conseguenze potenzialmente gravi. Proprio le tensioni sui treasury sono tra le motivazioni che secondo gli osservatori avrebbero portato Trump a sospendere i dazi.
Eppure i titoli stanno continuando ad andare male, e non hanno ancora recuperato i livelli precedenti dell’introduzione dei dazi. È il segnale inequivocabile che il problema non erano solo i dazi in sé e tutte le gravi conseguenze economiche che arriveranno, ma anche l’erraticità delle politiche del presidente, che ha instillato negli investitori il dubbio che gli Stati Uniti non siano più stabili.



