Al porto di Livorno c’è fermento
Ora che i dazi di Trump sono sospesi per 90 giorni, gli spedizionieri si stanno preparando per caricare sulle navi la merce finora bloccata nei magazzini
di Isaia Invernizzi

Nel tardo pomeriggio di mercoledì, poche ore dopo l’annuncio della sospensione di buona parte dei dazi, alcuni spedizionieri che lavorano al porto di Livorno hanno iniziato a compilare più in fretta possibile i documenti necessari per imbarcare i container sulle navi dirette verso gli Stati Uniti. Non aspettavano altro.
Nell’ultimo mese, per via dei pesanti dazi prima minacciati e poi imposti da Donald Trump sulle importazioni da tutti i paesi del mondo, i magazzini vicini al porto si erano riempiti di casse di vino, piastrelle, grandi macchinari. Molti altri spedizionieri erano invece stati più attendisti, avevano preferito aspettare qualche giorno nella speranza che la situazione si facesse più chiara (ancora non lo è). Al porto c’è comunque molto fermento, perché in questa fase di incertezza tutti – spedizionieri, operatori portuali e compagnie di navigazione – proveranno a sfruttare il più possibile la sospensione di 90 giorni concessa da Trump.
Il porto di Livorno è il posto perfetto per capire le reazioni delle aziende italiane alle decisioni di Trump. Da qui infatti partono molte delle navi che dall’Italia arrivano più velocemente negli Stati Uniti, con pochi scali intermedi o addirittura senza scali. Il tempo di navigazione va da una dozzina a una ventina di giorni, a seconda del servizio offerto dalle compagnie di navigazione e da quanto le aziende sono disposte a pagare.
Questo collegamento così privilegiato è il risultato di rapporti economici che durano da almeno due secoli: già nel 1794 gli Stati Uniti scelsero Livorno come prima sede consolare americana in Italia. Allo stesso modo, e per gli stessi motivi, per sapere la reazione delle aziende italiane a cosa succede nei paesi orientali bisogna tenere d’occhio il porto di Trieste.
Il 40 per cento di tutti i container che lasciano il porto di Livorno sono diretti verso la costa orientale degli Stati Uniti. Di tutte queste esportazioni, circa il 30 per cento del volume è costituito da casse di vino. Nel restante 70 per cento ci sono altri prodotti alimentari come l’olio, ma anche farmaci, piastrelle e ceramiche prodotte nel distretto di Sassuolo, marmo, componenti industriali e grandi macchinari. Chi produce tutti questi prodotti di solito preferisce spedire da Livorno, anche se ha altri porti più vicini agli stabilimenti, proprio per via del collegamento diretto e più veloce.

(Foto di Valentina Lovato)
Molta di questa merce ha iniziato ad accumularsi nei magazzini vicini al porto già dopo i primi annunci di Trump. Non c’era altro modo per affrontare la confusione. Il problema più rilevante, che in parte c’è ancora, è che nessuno vuole accollarsi le maggiori spese dovute ai dazi.
Nel settore delle spedizioni la distribuzione dei costi è regolata da contratti che quasi sempre vengono firmati mesi prima del viaggio. I contratti seguono regole chiamate Incoterms (International Commercial Terms) che definiscono diritti e doveri delle parti e hanno diverse clausole.
Nel caso della clausola DDP, Delivered Duty Paid, il trasporto e i relativi rischi sono a carico di chi vende, mentre con le clausole FCA, Free Carrier, o EXW (Ex Works) è il compratore a sobbarcarsi i costi di importazione, compresi i dazi. La sospensione dei dazi aggiuntivi non ha risolto i problemi, ma diversi spedizionieri contattati dal Post dicono che è più semplice trovare un accordo per dividersi il 10 per cento di spese extra attualmente in vigore, mentre con un eventuale 20 per cento è impossibile trovare un compromesso perché qualcuno – esportatori o importatori – ci rimette troppo.
– Leggi anche: Come funzionano nella pratica tutti questi dazi
Molte spedizioni erano state fermate già alla minaccia dei dazi, perché i compratori americani non volevano assumersi il rischio di pagare la merce il 20 per cento in più di quanto pattuito. I primi a chiedere alle aziende italiane di interrompere le spedizioni erano stati gli importatori americani di vino. Lo stesso era successo con molti altri prodotti.
Nell’ultima settimana, con i dazi in vigore, l’attendismo è stato ancora maggiore. All’ingresso doganale del porto di Livorno sono passati molti meno tir rispetto al solito, sui piazzali si sono accumulati meno container e molte navi hanno imbarcato meno merce rispetto al previsto. Produttori e spedizionieri hanno preferito portare le merci nei magazzini perché lasciare i container sui piazzali a servizio delle banchine costa tanto. Lo spazio è uno dei beni più costosi all’interno di un porto. Si stima che nelle ultime settimane a Livorno si siano accumulati 65 container di vino, circa un milione di bottiglie.
Le aziende che gestiscono i terminal, i terminalisti, ovvero quelli che spostano i container o la merce dai piazzali per caricare le navi, dicono che già da mercoledì ci si aspettava più lavoro, mentre molti spedizionieri sono ancora in attesa. Giovanna Zari, segretaria generale di Spedimar, l’associazione delle imprese di spedizione internazionali e di logistica, dice però che nella notte tra mercoledì e giovedì molti loro associati hanno subito approfittato della sospensione dei dazi per smaltire un po’ delle scorte accumulate. «Chi non lo ha fatto lo farà nei prossimi giorni», dice Zari.
Anche Luciano Guerrieri, commissario straordinario dell’autorità di sistema portuale del mar Tirreno settentrionale, l’ente che controlla anche il porto di Livorno, confida in una ripresa rapida delle spedizioni: «Mi auguro che questi 90 giorni siano sufficienti a rendere questa situazione meno tesa. Speriamo nelle trattative dell’Unione Europea e dei governi».
L’obiettivo di aziende e spedizionieri è sfruttare questa pausa il più possibile. Non ci sono 90 giorni di tempo, ma almeno una ventina di meno perché vanno calcolati i giorni di viaggio della nave verso gli Stati Uniti e quelli relativi alle operazioni doganali, più complicate e lunghe del solito a causa dei dazi.
Molte aziende però continuano ad aspettare semplicemente perché non si fidano di Trump. «Ne abbiamo viste e sentite tante in questi giorni, quindi siamo abbottonati, almeno per ora», dice Lamberto Frescobaldi, presidente di Unione Italiana Vini, che riassume la sfiducia generale in una battuta: «Magari domani Trump ci dice “No, scusate, non avevo detto 90 giorni, avevo detto 19 giorni”. Noi vogliamo un accordo scritto per i nostri investimenti perché abbiamo bisogno di programmazione, non è che imbottigliamo acqua fresca».
Diverse aziende hanno accolto con insofferenza persino la sospensione dei dazi, perché ha reso inutili le complesse trattative portate avanti negli ultimi giorni tra venditori italiani e importatori americani per dividersi il 20 per cento di costi aggiuntivi. Secondo Frescobaldi, comunque, la maggior parte del vino fermo nei porti partirà entro Pasqua, ovvero entro una decina di giorni.



