I giornalisti stranieri non possono entrare in Myanmar
La giunta militare non lo permette dal colpo di stato del 2021, e non ha cambiato idea dopo il terremoto, ma qualcuno negli anni ha trovato il modo di aggirare il divieto

In questi giorni le informazioni sulle conseguenze del grave terremoto di venerdì in Myanmar stanno arrivando in maniera intermittente e parziale, riportate soprattutto da fonti governative, da qualche collaboratore locale di grandi agenzie (Reuters, per esempio) e dai giornalisti della televisione cinese CCTV. Oltre a loro, gli unici giornalisti internazionali autorizzati a stare nel paese sono quelli di una troupe della televisione qatariota Al Jazeera, che erano nella capitale Naypyidaw già da qualche giorno: era stato dato loro un permesso speciale per seguire le celebrazioni per la festa delle forze armate che si tiene ogni anno il 27 marzo.
Il fatto è che da quando la giunta militare è al potere, cioè dal colpo di stato del 2021, per i giornalisti delle testate internazionali è diventato impossibile entrare in Myanmar, tranne appunto rarissime eccezioni. La chiusura totale è stata riconfermata anche dopo il terremoto, ufficialmente per «questioni logistiche», e anche oggi la maggior parte dei grandi media racconta quello che succede dai paesi vicini, soprattutto dalla Thailandia.
Francesco Radicioni è un giornalista di Radio Radicale che vive a Bangkok (Thailandia) ed è stato più volte in Myanmar prima del colpo di stato. Dice: «C’era una remota possibilità che la giunta permettesse gli ingressi per documentare il terremoto, aumentare l’attenzione e quindi favorire l’arrivo di aiuti economici. Ma non è stato così, non hanno nemmeno risposto alle richieste di visti». Dice che la situazione è questa dal febbraio del 2021, quando dopo le elezioni vinte poche mesi prima dal partito della leader Aung San Suu Kyi (che era di fatto a capo del governo), i militari fecero arrestare lei e diversi altri membri del suo partito e presero il potere.

Un palazzo distrutto a Mandalay (AP Photo/Thein Zaw)
Da allora il Myanmar è uno degli stati in cui le limitazioni alla libertà di stampa sono maggiori al mondo e dove fare il giornalista è più pericoloso: almeno 150 giornalisti locali sono stati arrestati, sette sono stati uccisi (alcuni in seguito a condanne a morte), 35 sono attualmente in carcere con pene da scontare fino a vent’anni. Gli stranieri autorizzati ad entrare sono stati pochissimi: subito dopo il colpo di stato lo fece Clarissa Ward di CNN, in un viaggio organizzato e controllato dai militari, che fu anche molto criticato dai giornalisti che si occupavano da tempo del paese.
Altri giornalisti in questi anni sono entrati in Myanmar con un visto turistico, una soluzione che aggira il blocco ma che è piuttosto pericolosa: chi è scoperto a svolgere un lavoro giornalistico non autorizzato rischia il carcere.
In realtà si trovava in Myanmar al momento del terremoto anche l’inviato del TG3 Giammarco Sicuro: dal 18 marzo era a Demoso, nello stato Karenni, un’area meridionale al confine con la Thailandia e controllata da uno dei molti gruppi ribelli. Da quattro anni si combatte in Myanmar una sanguinosa guerra civile e molti giornalisti di testate internazionali e italiane sono entrati così nel paese: si accordano con i ribelli ed entrano dal confine thailandese. È un modo che la giunta militare considera illegale.
Dice Sicuro: «Però le milizie etniche o ribelli controllano in modo piuttosto solido parte del territorio, quasi la metà del totale secondo alcune stime. I karenni hanno un governo strutturato, forze di polizia, un sistema sanitario, un’organizzazione anche piuttosto democratica con rispetto delle minoranze religiose».
Quando si entra in queste zone si resta lì, non si supera la linea del fronte che le separa dalle parti controllate dal governo centrale. Sicuro dice che «normalmente non si pubblica e posta niente fino a quando non si è usciti dal paese. Nel mio caso la breaking news del terremoto mi ha obbligato ad abbandonare questa prudenza» (Sicuro ha postato contenuti e fatto collegamenti televisivi prima di uscire dal paese). Nello stato di Karenni i danni sono stati più limitati, in parte per la notevole distanza dall’epicentro (circa 400 chilometri), in parte perché dopo anni di guerra le case in muratura erano già distrutte e sostituite da strutture in legno o bambù, più flessibili.
Attraverso il portavoce Zaw Min Tun, il governo del Myanmar ha detto che per i giornalisti stranieri non ci sono le condizioni per «entrare, stare al sicuro e muoversi», e ha citato problemi con la corrente, con l’acqua e col trovare abitazioni consone. Sono giustificazioni poco credibili. Dice Radicioni: «Chi si era fatto illusioni che questo terremoto potesse ammorbidire certe posizioni della giunta si sbagliava: lo confermano non solo la chiusura ai giornalisti, ma anche la politicizzazione degli aiuti e dei soccorsi», che nelle zone controllate dai ribelli sono stati bloccati, mentre continuano i bombardamenti.
I militari in Myanmar presero il potere una prima volta nel 1962, mantenendolo fino al 2011, quando iniziò un graduale processo di apertura democratica. A partire da quella data fu possibile anche per i giornalisti stranieri entrare nel paese, con una certa libertà di azione, ma c’erano alcuni temi sensibili su cui comunque la libertà di stampa era limitata: nel 2017 due giornalisti di Reuters furono arrestati per le loro inchieste sui massacri della minoranza rohingya e restarono in carcere per quasi due anni.
L’impossibilità di entrare in Myanmar per i giornalisti stranieri renderà più difficile avere un quadro completo e reale dell’entità dei danni e del numero dei morti causati dal terremoto. Nel 2023 il giornalista Sai Zaw Thaike fu arrestato per aver raccontato in modo indipendente gli effetti del ciclone Mocha, che causò oltre 140 morti in una zona in cui ci sono molti campi profughi della minoranza rohingya: è stato condannato a 20 anni di prigione.



