Vita da operatrice umanitaria

«Otto anni fa atterravo in Congo, avvolta dall’afa e dall’odore del cibo fritto che arrivava dai baracchini lungo la strada. L’ho capito subito che sarebbe stata la storia d’amore più bella della mia vita»

Veduta aerea del campo di Bulengo, a nord della città di Goma, nella Repubblica democratica del Congo (Michel Lunanga/MSF)
Veduta aerea del campo di Bulengo, a nord della città di Goma, nella Repubblica democratica del Congo (Michel Lunanga/MSF)
Martina Marchiò
Martina Marchiò

È nata a Torino nel 1991. Si è laureata in Scienze infermieristiche nel 2013 e nel febbraio del 2017 è partita per la prima missione con Medici Senza Frontiere, la più grande organizzazione medico-umanitaria indipendente al mondo. Da allora ha lavorato in Congo, Mozambico, Etiopia, Sud Sudan, Messico, Grecia, Bangladesh e Gaza, su cui ha scritto il libro Brucia anche l’umanità. Diario di un’infermiera a Gaza pubblicato da Infinito Edizioni. È appena rientrata dalla Repubblica Democratica del Congo.

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Qui non si vedeva un bianco dal 1998, quando morì l’ultimo Padre Missionario. Me lo dicono indicandomi un albero poco distante: «Il suo corpo è seppellito lì, ha voluto così».
Mentre accendo la moto per andare nei villaggi più remoti, le madri arrivano a bordo strada per salutarmi.
«Venite a vedere la mundele!», gridano ai loro figli che escono di corsa per guardare la mia pelle bianca. Nel Congo profondo ci arrivano in pochi perché a malapena ci sono le strade, nella foresta ci si entra come ospiti.

La zona sanitaria di Minova, nella provincia di Kivu Sud, Repubblica Democratica del Congo. (Hugh Cunningham)

Capisco perché sono qui quando entro nel centro di isolamento gestito da Medici Senza Frontiere. Su un letto c’è una bambina di 9 anni completamente coperta da lesioni sulla pelle, saranno più di 500. Ha l’mpox, una malattia infettiva virale che sta colpendo duramente la Repubblica Democratica del Congo. Ha lesioni anche negli occhi che non riesce a tenere aperti, nella bocca, sui palmi delle mani e sulle piante dei piedi.
Prova molto dolore da giorni, nonostante i farmaci.
I miei colleghi, pur sapendo che al centro è arrivata tardi, forse troppo, continuano a prendersi cura di lei sperando in un miglioramento.

– Leggi anche: La crisi umanitaria nella Repubblica Democratica del Congo e la diffusione dell’mpox

Passiamo i giorni a parlare di mpox, a cercare di sensibilizzare la popolazione, e troviamo casi dappertutto. Per quattro ore camminiamo nella foresta sempre più profonda con i piedi bolliti negli stivali, prendiamo una piccola piroga in legno che a malapena resta in equilibrio sull’acqua e continuiamo a curare i casi che arrivano già gravi. Facciamo di tutto, eppure la bambina non ce la fa. I suoi organi cedono, va in arresto cardiaco. Qualche collega piange, qualcun altro cerca la solitudine, io salgo in moto sperando di non pensarci.

Un team di Medici Senza Frontiere in viaggio verso il centro sanitario a Bili, nella Repubblica Democratica del Congo (Vincenzo Livieri / MSF)

Le ore in moto sono schiaffi in faccia, ogni chilometro è un’insicurezza che viene a galla e una paura che riaffiora. Ho la musica nelle orecchie, Vasco Rossi canta Vivere. Allora piango. Per fortuna c’è la foresta che ti accoglie e ti mette alla prova. Il verde del Congo non esiste da nessun’altra parte, lo riconosci dalla brillantezza in contrasto con la terra bruciata che diventa rossa quando la pioggia la tocca. Mi sveglio con la luce dell’alba che fa capolino e quando le tenebre avvolgono l’aria, senza luci artificiali, vado a letto accompagnata solo dal rischiarare dei piccoli fuochi che con il loro odore acre indicano che la giornata sta per finire.

Sembra esistere solo il presente qui, tra la terra rossa e il canto dei grilli. E il dolore per un attimo diventa più piccolo. Per me è come sentire le emozioni sotto alla pelle, come diventare quelle palme, quella terra che ti colora i pensieri, quella pioggia battente. Qui la vita scorre in maniera diversa, e mi sembra che tutto abbia di nuovo un senso.

Otto anni fa atterravo in Congo, avvolta dall’afa e dall’odore del cibo fritto che arrivava dai baracchini lungo la strada. L’ho capito subito che sarebbe stata la storia d’amore più bella della mia vita, lo sapevo allora e lo sento ancora oggi ogni volta che scendo dall’aereo.

Ogni anno festeggio il 14 febbraio, il giorno in cui nel 2017 sono scesa dall’aereo e sono diventata fedele a me stessa, come se prima stessi vivendo una vita non tanto mia, che quasi nemmeno ricordo, e poi mi fossi trovata.

Ricordo ancora l’emozione di salire sull’aereo, l’eccitazione mista alla paura di non essere all’altezza e invece oggi sono felice come lo ero quel giorno, anzi forse di più. È un lavoro costante su me stessa, un giro di giostra continuo con la calma che diventa adrenalina, la passione che diventa pace, la frenesia che diventa gratitudine.

Il campo profughi di Bugeri a 8 chilometri dalla città di Minova, Repubblica Democratica del Congo (Hugh Cunningham)

Spesso mi chiedono: «Ma quando ti fermi?».
«Ancora no», rispondo sempre con decisione.
Come si fa a fermarsi se il mondo è così grande, così ricco di bellezza e dolore, di vite da toccare e storie?

Alcune volte non è facile guardare in faccia il dolore, dargli un nome e avere il coraggio di sentirlo. Vivere non è sempre vincere. Ho vissuto in città rase al suolo, tra brandelli, in una violenza che non ha fine. Ma è una vita vissuta con forza.

Mi è successo a Gaza qualche mese fa, tra muri sbriciolati e pareti crivellate dalle mitragliatrici. Ho sentito le urla di una madre che aveva appena perso un figlio, mi sono specchiata negli occhi cerchiati dei miei colleghi, ho posato lo sguardo tra i corpi stesi per terra ricoperti di sangue, ho visto le barchette dei pescatori affondare per una cannonata, ho osservato le persone correre quando le scariche di mitragliatrice si facevano più vicine, ho tremato di notte quando la terra ci scuoteva le viscere e, come i bambini che hanno paura del buio, ci coprivamo la testa con le coperte pensando fosse la fine.

L’ospedale di Al Aqsa. Gaza, 29 novembre 2023 (MSF)

In un labirinto di tende e di corpi che sembrava non finire mai, con in lontananza il blu del mare, le persone non sapevano più che cosa aspettarsi.
In quella prigione a cielo aperto la libertà era e rimane un miraggio. Ci sono stati momenti in cui avrei voluto gridare per tutta quell’impotenza, perché non c’era scampo, ma a Rafah volavano ancora gli aquiloni.

Un mattino mi trovavo in terrazzo e guardavo il mare quando ho sentito un rumore sconosciuto. Il mio corpo ha reagito immaginando quello che sarebbe accaduto pochi istanti dopo. Mi sono preparata all’impatto: il suono acuto dell’aria che si spezza, il rumore dello schianto, un boato che muove l’aria e l’onda d’urto che rimbalza sui muri, facendo tremare la terra e le pareti.
Ricordo di essermi girata verso Sohaib, il mio fratello palestinese, e di averlo visto sorridere in maniera rassicurante. Ci siamo guardati negli occhi e abbiamo sorriso.

A Gaza ho spostato i miei limiti in avanti ancora una volta.
Oggi continuo a bermi la vita a grandi sorsi, ci provo, faccio quello che più mi appassiona e sento ogni giorno l’importanza di essere una delle tante gocce che fanno l’oceano, perché penso che in fondo i cambiamenti partono da noi e che bisogna crederci. Bisogna sentire questo filo invisibile che ci connette tutti, parte di un mondo che cambia e qualche volta ci fa paura.

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