Come l’ECMO sta ridefinendo il concetto di morte

Una macchina sempre più diffusa negli ospedali può tenere in vita persone senza prospettive di guarigione, con implicazioni complesse e dolorose

(Boris Roessler/dpa)
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Una decina di anni fa un adolescente fu ricoverato in un ospedale del New England, negli Stati Uniti. Aveva la fibrosi cistica, una malattia genetica che colpisce soprattutto le vie respiratorie, ed era in attesa di un nuovo trapianto di polmoni dopo che un precedente tentativo non aveva funzionato. Fu collegato a una ECMO, un macchinario che svolge le funzioni dei polmoni e del cuore, che lo aiutò a vivere mentre attendeva il trapianto. Due mesi dopo, i medici scoprirono che il ragazzo aveva un tumore incurabile che lo escludeva dalla possibilità di accedere al trapianto: non poteva sopravvivere fuori dal reparto di terapia intensiva dove viveva collegato alla macchina.

La circostanza mise i medici davanti a una difficile scelta con molte implicazioni etiche. Oltre a essere vigile, il ragazzo era consapevole di ciò che gli accadeva intorno e, non fosse stato per i tubi che uscivano dal suo corpo per ripulire e ossigenare il sangue, all’apparenza sembrava in grado di condurre una vita quasi normale: scambiava messaggi con gli amici sullo smartphone, trascorreva del tempo con la famiglia e faceva i compiti online. Senza l’ECMO sarebbe morto poco tempo dopo il ricovero, invece era ancora vivo e in una condizione che rendeva molto difficile decidere quando e come disattivare la macchina che lo aveva salvato.

La storia della medicina è fatta di un’infinità di scelte difficili e dolorose, comprese quelle su chi far vivere e chi no in un certo momento. Scelte basate sulla disponibilità di certe risorse, sulle possibilità di sopravvivenza di alcuni pazienti rispetto ad altri o inevitabilmente sulla casualità e sull’essere nel posto giusto al momento giusto, o in quello sbagliato nel peggior momento possibile, magari in un ospedale durante un’emergenza sanitaria come quella della pandemia. L’interruzione del sostegno vitale è tra le decisioni più difficili da prendere e con il progredire delle tecniche di rianimazione lo è diventato ancora di più.

Per diverso tempo i principali sistemi per il sostegno vitale hanno riguardato la possibilità di aiutare i pazienti a respirare (con sistemi per forzare il passaggio dell’aria nei loro polmoni), a superare le crisi cardiache (con stimoli elettrici) o a essere nutriti artificialmente (con infusioni endovenose o tramite un piccolo tubo che raggiunge lo stomaco portando il cibo). Sistemi talvolta invasivi e debilitanti, spesso utilizzati su pazienti privi di coscienza o comunque costretti a letto. Con l’ECMO le cose funzionano diversamente: i pazienti in molti casi sono più liberi di muoversi e soprattutto hanno maggiori possibilità di sopravvivenza, anche se rimangono dipendenti da quel sostegno artificiale e – in alcuni casi – il trattamento può prolungare una condizione senza possibilità di recupero significativo. Molti di loro vivono in un limbo difficile da interrompere.

Una ECMO (la sigla sta per “ossigenazione extracorporea a membrana”) è uno speciale macchinario che si sostituisce ai polmoni e/o al cuore. Nel primo caso viene effettuata una ECMO veno-venosa, nella quale il sangue viene prelevato dal paziente, ossigenato e poi rimesso in circolo, senza intervenire sull’attività del cuore. Nel secondo caso, viene invece applicata una ECMO veno-arteriosa, dove il sangue prelevato e poi ossigenato viene pompato con una certa pressione all’interno del corpo, in modo da rendere possibile la circolazione sanguigna anche in presenza di una grave insufficienza cardiaca.

Rappresentazione schematica di una VA-ECMO (EMC – Tecniche Chirurgiche Torace)

Una persona può quindi respirare e avere una normale circolazione del sangue anche se i polmoni e il cuore, organi fondamentali per vivere, non funzionano più come dovrebbero. Non è una soluzione definitiva e richiede l’impiego di speciali farmaci come gli anticoagulanti e di altre terapie, ma permette ogni giorno a migliaia di persone in tutto il mondo di sopravvivere in attesa di un trapianto o di superare una malattia molto debilitante. L’ECMO esiste da decenni, ma il suo impiego è diventato più diffuso negli anni della pandemia da coronavirus e da allora è utilizzata non solo per la rianimazione in condizioni di emergenza, ma anche per il sostegno vitale, come era già avvenuto nel caso dell’adolescente con la fibrosi cistica nel New England.

Quando i medici scoprirono che aveva un tumore, iniziarono a discutere su come gestire il caso. L’ECMO aveva funzionato per due mesi e c’era motivo di pensare che potesse continuare a farlo ancora a lungo, ma con quale prospettiva? Il trapianto di polmoni era fuori discussione, il cancro sarebbe continuato a progredire e le condizioni del paziente sarebbero via via peggiorate. Come avrebbe raccontato anni dopo un lungo articolo del New Yorker, con l’ECMO si era creata una condizione per cui il paziente «era su un ponte che non portava da nessuna parte».

Alcuni medici proposero di interrompere l’ECMO, visto che qualcun altro avrebbe potuto beneficiare del macchinario e che il trattamento era comunque molto costoso, altri invece erano contrari: il ragazzo era cosciente e sotto molto punti di vista viveva normalmente, per quanto in una condizione straordinaria in un reparto di terapia intensiva. Alla fine il ragazzo lasciò la decisione alla famiglia, che scelse di non scollegare il ragazzo dall’ECMO, ma di non farne più la manutenzione. Col passare del tempo la capacità della macchina di ossigenare il sangue si ridusse, fino al punto di bloccarsi e di far perdere conoscenza al paziente, che in poco tempo morì.

Non tutti i pazienti sottoposti a ECMO, coscienti o con persone incaricate di decidere per loro, accettano compromessi di questo tipo. Molte chiedono di mantenere attivo il più possibile il macchinario anche se non hanno possibilità di guarire, in attesa che sia una complicanza della loro condizione a causare la morte. Succede anche con i pazienti che sono solo collegati a un ventilatore o alla dialisi (un macchinario che ripulisce il sangue al posto dei reni) per rallentare il deterioramento che porta infine a un decesso. La differenza è che l’ECMO può sostituirsi al lavoro del cuore interrompendo quel processo per un tempo indefinito.

«Puoi avere un paziente che è sveglio e vigile, che può camminare, che può fare una sessione di cyclette e che al tempo stesso ha cuore e polmoni che non sono in grado di farlo vivere. È un contrasto che non ha eguali in nessuna altra tecnologia» aveva spiegato un medico al New Yorker. Alcuni sostegni vitali possono essere inoltre utilizzati a casa, mentre l’ECMO richiede di essere seguiti da personale specializzato in ospedale, occupando magari per molto tempo un posto in terapia intensiva che potrebbe essere prezioso se non proprio vitale per qualcun altro con maggiori possibilità di sopravvivenza.

L’ECMO è vista come una risorsa importante per la rianimazione in situazioni di emergenza, un modo per guadagnare tempo per esempio nel caso di un arresto cardiaco. È sempre più diffusa per questi scopi negli Stati Uniti e inizia a esserlo anche in Europa, con molti ospedali che hanno aumentato la quantità di questi macchinari, anche in Italia. Molte persone sono sottoposte a ECMO in vista di ricevere poi altre cure, ma non è sempre possibile prevedere se il paziente potrà davvero beneficiare di qualche trattamento o se rimarrà nel limbo: vivo grazie alla macchina, ma senza possibilità di migliorare e tornare a vivere scollegato da un sostegno vitale.

Il paradosso in cui si trovano molti medici è di disporre di una tecnologia che può salvare la vita ai loro pazienti, ma in molti casi mettendo semplicemente in pausa la loro agonia e con grandi implicazioni etiche su come decidere quanto debba durare quella pausa. Negli ultimi anni la questione è stata affrontata da istituzioni sanitarie e gruppi di ricerca, ma trovare linee guida e protocolli condivisi non è semplice.

Tra gli approcci considerati eticamente più accettabili c’è l’analisi dei singoli casi per determinare da subito se sia opportuno procedere con l’ECMO, per esempio con pazienti con una prognosi terminale a breve termine, con bassa probabilità di recupero o di trapianto, o ancora per via della loro età avanzata. Non viene considerata etica l’interruzione del supporto contro la volontà del paziente e della famiglia in condizioni normali, mentre possono esserci criteri diversi in condizioni di emergenza quando si deve decidere a chi offrire il trattamento. Negli ospedali i macchinari per l’ECMO sono una risorsa scarsa e sono molto costosi da acquistare (nell’ordine delle centinaia di migliaia di euro), senza contare la spesa di migliaia di euro al giorno per paziente. Anche per questo un prolungato utilizzo su una persona con nessuna possibilità di guarigione pone questioni etiche, perché riduce la possibilità per altri di beneficiare di quel trattamento.

Ulteriori progressi delle tecnologie legate alle ECMO potrebbero cambiare almeno in parte le cose. Alcuni gruppi di ricerca sono al lavoro per sviluppare ECMO più compatte e portatili, che i pazienti potrebbero indossare e avere con sé in modo da allontanarsi dall’ospedale. Sono sistemi ancora sperimentali e molto distanti dal poter essere impiegati sulle persone, ma in futuro potrebbero ridurre alcune complicazioni o rendere comunque comuni e meno costosi i sistemi più avanzati di sostegno vitale. Altri ambiti della ricerca sono invece orientati ad applicare le tecnologie sviluppate finora per l’ECMO ai sistemi per preservare gli organi che devono essere impiantati, in modo da aumentare la loro durata e ridurre uno dei più grandi impedimenti al loro utilizzo per salvare vite.