Come mai d’inverno si muore di più?

È così in molti paesi nel mondo, anche in quelli dove le temperature sono miti: e infatti non è detto che il freddo sia il fattore diretto più importante

Una persona cammina di notte lungo una strada innevata illuminato da una lunga fila di lampioni
Una persona in una strada illuminata a Longyearbyen, Norvegia, il 6 gennaio 2023 (AP Photo/Daniel Cole)

Nel 2024 una lettrice del Washington Post scrisse al giornale interpellando l’analista Andrew Van Dam, responsabile di un’apprezzata rubrica settimanale di analisi statistiche. «Ho l’impressione che ci siano notevolmente più morti di celebrità, più necrologi e più morti di familiari e amici a novembre, dicembre e gennaio che negli altri mesi», scrisse la lettrice. Van Dam le rispose che gennaio è in effetti il mese in cui muoiono più persone negli Stati Uniti: circa il 20 per cento in più rispetto ad agosto, il mese in cui ne muoiono di meno.

I dati riportati dal Washington Post confermano una tendenza piuttosto omogenea nel mondo, diffusa in entrambi gli emisferi: l’inverno è la stagione con più morti. In Australia, dove l’inverno dura da giugno ad agosto, i livelli di mortalità in quei mesi sono più alti del 20-30 per cento rispetto all’estate. In Inghilterra e in Galles, nell’inverno tra dicembre 2021 e marzo 2022, ci sono stati 13.400 morti in più rispetto alla media delle altre stagioni.

In Italia i dati più recenti confermano la stessa tendenza: sia nel 2023, che nella media tra il 2015 e il 2019, i quattro mesi con il numero di decessi più alto sono stati i primi tre dell’anno e l’ultimo. Un’eccezione rispetto a questa tendenza fu il 2020, in cui i mesi con più morti furono marzo, mese del primo lockdown, e novembre.

Non è sempre stato così. Per un lungo periodo della storia europea, in particolare durante l’epidemia di peste nera del Trecento, la stagione con più morti fu l’estate. Le cose cambiarono più o meno stabilmente dal Settecento in poi, secondo una ricerca di Neil Cummins, professore di storia economica alla London School of Economics. Il rapporto passò a 89 morti in estate per ogni 100 morti in inverno, per poi ridursi ulteriormente nel Novecento a 81 ogni 100.

Il fatto che muoiano più persone in inverno è un fenomeno noto e discusso da decenni, le cui cause non sono ancora del tutto comprese. Vale peraltro anche in molti luoghi del mondo in cui l’inverno è un periodo relativamente mite, e questo lascia supporre che il freddo sia probabilmente solo una parte della spiegazione. Non c’è infatti una chiara correlazione tra le temperature e la mortalità: secondo dati raccolti da Eurostat i picchi di mortalità invernale in paesi freddi come Islanda e Russia sono piuttosto bassi in confronto a quelli di paesi del sud dell’Europa come Portogallo e Spagna.

Il freddo è comunque un fattore rilevante per le infezioni virali, che sono la causa di una percentuale consistente – sebbene variabile di anno in anno – del totale dei decessi invernali. Il virus dell’influenza, per esempio, mostra un chiaro andamento stagionale. Le cause della stagionalità dei virus sono però da tempo oggetto di dibattito: una delle ipotesi è che alcuni siano più vulnerabili al caldo estivo e alla siccità.

Un’altra parte della spiegazione della mortalità invernale ha probabilmente a che fare con gli effetti del freddo sulle malattie cardiovascolari: ipotesi che aiuta anche a spiegare perché in molti paesi il fenomeno della mortalità invernale interessi principalmente la popolazione con più di cinquant’anni.

Le relazioni tra le temperature basse nell’ambiente e il funzionamento del corpo umano furono studiate negli anni Settanta e Ottanta dal fisiologo inglese William Richard Keatinge. In alcuni esperimenti in laboratorio Keatinge analizzò le reazioni fisiologiche di alcuni partecipanti avvolti nelle coperte e di altri, senza coperte, esposti all’aria di un ventilatore. Dopo sei ore notò che i vasi sanguigni sulla superficie della pelle delle persone esposte al ventilatore si erano contratti per non disperdere calore, e che la loro pressione sanguigna era più alta di quella delle persone avvolte nelle coperte.

Diversi studi più recenti, in parte basati sulle scoperte di Keatinge, mostrano che quando le temperature scendono, i vasi sanguigni si contraggono e il cuore lavora di più, i battiti cardiaci e la pressione aumentano, e per effetto di questi cambiamenti aumenta anche la probabilità di coaguli.

Negli anni Novanta Keatinge e gli altri suoi colleghi e colleghe cercarono di verificare se ci fosse una corrispondenza tra gli effetti fisiologici che avevano studiato in laboratorio e le diverse temperature invernali nel mondo. In uno studio pubblicato nel 1997 sulla rivista scientifica Lancet scoprirono che in Europa non c’era una differenza significativa nella mortalità invernale tra le aree più fredde da loro prese in considerazione (tra cui regioni della Finlandia e della Germania) e le aree più calde (Palermo e Atene).

I risultati non contraddicevano però necessariamente quanto scoperto in precedenza da Keatinge, e cioè che le temperature basse comportino un aumento dei rischi per le persone con patologie cardiovascolari. Lui e gli altri autori e autrici dello studio ipotizzarono che l’assenza di una differenza tra regioni fredde e regioni calde riguardo alla mortalità invernale potesse dipendere dal fatto che chi abita in regioni fredde è più attrezzato e abituato a quelle temperature. Il fatto che nelle regioni fredde non muoiano più persone, in altre parole, potrebbe dipendere da sistemi di riscaldamento più efficienti, case con un migliore isolamento termico e indumenti da esterno più appropriati.

– Leggi anche: Come l’ambiente influenza le culture

Negli ultimi anni diversi studiosi hanno messo in discussione l’ipotesi che le temperature basse spieghino i picchi di mortalità invernale, e in generale che ci sia una sola spiegazione valida per tutti i luoghi del mondo. «Honolulu [nelle Hawaii] è parecchio calda, e le temperature non variano durante l’anno. Eppure le persone muoiono il 10 o il 15 per cento in più in inverno che in estate», ha detto alla rivista National Geographic il ricercatore statunitense Patrick Kinney, che insegna salute pubblica e ambientale alla Boston University.

In un articolo pubblicato nel 2015 Kinney e altri ricercatori e ricercatrici analizzarono le correlazioni tra basse temperature e mortalità in 36 città degli Stati Uniti, considerate tra il 1985 e il 2006, e in tre città francesi, considerate tra il 1971 e il 2007. Confrontando i dati scoprirono che la temperatura invernale non era un fattore rilevante nelle variazioni della mortalità giornaliera nelle diverse città. Altri cambiamenti che si verificano d’inverno, meno evidenti rispetto alle temperature ma numerosi ed eterogenei, potrebbero avere un’influenza sulla mortalità in modi non ancora del tutto chiari.

Anche Robert Glatter, un medico di medicina d’urgenza al Lenox Hill Hospital di New York, disse nel 2022 al sito Live Science che tra i fattori che rendono i mesi invernali più letali per la popolazione ci sono probabilmente la mancanza di riscaldamento adeguato. L’uso di stufe, per esempio, aumenta il rischio di incendi e avvelenamenti da monossido di carbonio, e in casi del genere il freddo può essere considerato solo una causa indiretta della morte delle persone. Anche l’abuso di cibo, sale e alcol durante le feste di Natale, secondo Glatter, potrebbe avere un’influenza sui livelli di mortalità di gennaio.

In un certo senso, soprattutto nelle società e nelle culture in cui si trascorre molto tempo in luoghi chiusi, la temperatura potrebbe essere il fattore meno importante per la mortalità invernale, anche se il freddo è spesso la ragione per cui le persone trascorrono più tempo in casa condividendo uno stesso ambiente chiuso. «Le persone cambiano ogni genere di abitudine d’inverno», ha detto a National Geographic l’epidemiologa Kristie Ebi, insegnante di Scienze della salute ambientale alla University of Washington.

Secondo Ebi altri possibili fattori, che richiedono studi più approfonditi e specifici, sono la riduzione dell’attività fisica da parte di molte persone, la minore produzione naturale di vitamina D nei luoghi con meno luce solare, i livelli di umidità interna nelle abitazioni e l’inquinamento atmosferico, che in alcune parti del mondo è maggiore in inverno.