La storia sorprendente di come fu scoperta la vera causa dell’ulcera allo stomaco

Uno studio pubblicato nel 1984 cambiò per sempre il modo in cui sono trattate molte gastriti, grazie a due ricercatori ostinati e una dimenticanza in un fine settimana di Pasqua

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Una delle scoperte più importanti per la salute di tutto il Novecento avvenne grazie all’ostinazione di due ricercatori, a una dimenticanza e alla Pasqua, circa quarant’anni fa. Gli australiani John Robin Warren e Barry Marshall identificarono la vera causa della maggior parte delle ulcere gastriche e delle gastriti, sovvertendo secoli di ipotesi e trattamenti per tenerle sotto controllo con risultati deludenti. A comportare quei problemi di salute non erano lo stress o l’alimentazione, come si credeva, ma un batterio che poteva essere eliminato semplicemente con un antibiotico. Vincere lo scetticismo iniziale non fu semplice, ma Marshall e Warren – che è morto lo scorso luglio a 87 anni – non si diedero per vinti, portando a un cambiamento epocale nella cura dell’ulcera per milioni di persone in tutto il mondo che valse loro un Premio Nobel.

Dopo essersi laureato in medicina nel 1961, Warren non era riuscito a seguire la specializzazione in psichiatria come avrebbe voluto e aveva scelto patologia clinica, cioè lo studio delle malattie per lo più in laboratorio. Negli anni seguenti avrebbe lavorato su campioni di ogni tipo, dal midollo osseo al sangue passando per feci e urine. Nel 1968 ottenne un posto al Royal Perth Hospital che aveva un’affiliazione con l’Università dell’Australia Occidentale. Lavorava con pochi contatti col resto del personale e trascorreva buona parte del proprio tempo nei sotterranei dell’ospedale, dove sezionava ed esaminava cadaveri.

Una decina di anni dopo, all’inizio degli anni Ottanta, Marshall aveva iniziato a lavorare nello stesso ospedale, ma nel reparto di gastroenterologia. Per il suo programma di formazione avanzata, Marshall era stato incoraggiato a svolgere un lavoro di ricerca e gli era stato suggerito di parlare con Warren, che qualche tempo prima aveva identificato con sua sorpresa un batterio nelle analisi (biopsie) di alcune mucose dello stomaco. In precedenza poche ricerche avevano segnalato la presenza di batteri nello stomaco e all’epoca si riteneva, come del resto da secoli, che per un batterio fosse impossibile sopravvivere alla forte acidità dei succhi gastrici e in particolare dell’acido cloridrico.

Tutto ciò che ingeriamo passa attraverso lo stomaco e viene scomposto dall’acido cloridrico presente al suo interno, fondamentale per far sì che le sostanze nutrienti possano essere assimilate nel passaggio successivo dall’intestino. Per non digerire anche sé stesso, lo stomaco si protegge dall’acido cloridrico grazie a una sostanza composta da muco e bicarbonato prodotta dalle cellule gastriche, che neutralizza l’effetto dell’acido quando questo entra in contatto con le sue pareti. Se la quantità di acido aumenta o i tessuti dello stomaco sono infiammati, la barriera non è sufficiente e si possono produrre delle ulcere, cioè ferite simili a piaghe che provocano una sensazione di bruciore che si presenta in vari momenti della giornata in base alla pienezza dello stomaco.

A seconda dei casi, un’ulcera può causare sintomi lievi e intermittenti, anche a distanza di giorni o settimane, oppure più gravi e che richiedono un rapido intervento nel caso in cui ci sia una perforazione dello stomaco. In questa circostanza il contenuto dello stomaco si riversa nella cavità addominale e può provocare una grave infiammazione del peritoneo, il rivestimento interno dell’addome. Se il problema non viene trattato per tempo e adeguatamente si può avere una diffusione dell’infezione che può rivelarsi mortale.

Per moltissimo tempo le cause delle gastriti e delle ulcere furono un mistero. Si riteneva che le principali cause fossero il consumo di alcolici, il fumo, lo stress, i cibi piccanti e altre abitudini alimentari, insieme a una certa predisposizione di alcune persone. Nel periodo in cui Warren e Marshall iniziarono a lavorare insieme, le terapie erano orientate a ridurre i sintomi, con la prescrizione di farmaci per tenere sotto controllo la produzione dei succhi gastrici e l’acidità dello stomaco. Non funzionavano sempre: quando il problema sembrava essere risolto, si ripresentava dopo qualche tempo e nei casi di ulcera più gravi si rendevano necessari interventi chirurgici invasivi e rischiosi.

Warren aveva analizzato le biopsie di alcuni pazienti con mal di stomaco e le aveva mostrate a Marshall, dicendogli che in più di venti casi aveva rilevato la presenza di un’infezione batterica. Marshall aveva allora messo in relazione le biopsie con le cartelle cliniche di quei pazienti, notando che alcuni avevano ricevuto una diagnosi di ulcera allo stomaco, ulcera al duodeno (la parte iniziale dell’intestino tenue) o gastriti di varie entità. Sembrava esserci una relazione tra la presenza di quel batterio e le diagnosi, ma i dati erano carenti e soprattutto sembravano andare contro il dogma dello stomaco inospitale alla vita dei batteri.

Grazie alla collaborazione dei medici del reparto di gastroenterologia e di microbiologia dell’ospedale, Warren e Marshall iniziarono a raccogliere altre biopsie e ad analizzarle trovando quasi sempre l’infezione batterica, ma senza riuscire a isolare e coltivare i batteri in laboratorio per avere colonie più grandi da analizzare e capire l’eventuale ruolo nelle ulcere. Alla fine del 1981 alcuni colleghi consigliarono ai due ricercatori di passare a un approccio più sistematico, organizzando uno studio clinico vero e proprio con tutti i criteri del caso per valutare andamenti e variabili.

Barry Marshall e John Robin Warren nel 1984 (via ResearchGate)

In pochi mesi, Warren e Marshall organizzarono uno studio che avrebbe coinvolto cento persone. L’obiettivo era di capire se il batterio fosse presente normalmente nello stomaco, se fosse possibile coltivarlo e se la sua presenza potesse essere messa in relazione con le gastriti e le ulcere. Parallelamente, sarebbero proseguiti i tentativi di coltivare il batterio in laboratorio, forse l’obiettivo più difficile dell’intera ricerca.

Trattandosi di un batterio presente nell’apparato digerente, il gruppo di ricerca aveva pensato che potesse ricevere il medesimo trattamento dei campioni di feci o derivati dai tamponi orali. I campioni venivano di solito messi su una piastra di Petri (il classico recipiente di vetro da laboratorio simile a un piattino) e se dopo 48 ore non erano osservabili particolari microrganismi, segno dell’avvenuta formazione di una colonia, il test era negativo e si gettava via tutto. Seguendo un approccio simile, dai campioni ottenuti con le biopsie non si era mai riusciti a ottenere una colonia del batterio nello stomaco. Almeno fino a quando fu Pasqua del 1982.

Nei giorni prima del fine settimana lungo pasquale i tecnici di laboratorio del Royal Perth Hospital avevano dovuto dedicare buona parte del loro tempo a una quantità crescente di infezioni da stafilococco nell’ospedale, trascurando altre attività di ricerca. Una piastra di Petri preparata per tentare l’ennesima coltura di batteri da una biopsia allo stomaco era finita nel dimenticatoio nel weekend lungo di Pasqua che comprendeva il lunedì dell’Angelo, cioè il giorno di Pasquetta: passavano quindi tre giorni prima che i ricercatori guardassero di nuovo le piastre. Al loro ritorno il martedì, i tecnici notarono che sulla piastra dimenticata si era formato un sottile strato trasparente: era la colonia di batteri che non erano mai riusciti a ottenere prima e che avrebbe offerto a Marshall e Warren nuovi elementi per la loro ricerca.

Poche settimane dopo fu completato lo studio e i risultati apparvero da subito molto solidi. Tra i cento volontari sottoposti a endoscopia (cioè a un esame che con un tubo fatto passare per l’esofago permette di esplorare lo stomaco e raccoglierne piccoli pezzi da analizzare) 65 avevano ricevuto una diagnosi di gastrite e c’era una forte associazione tra la loro condizione e la presenza del batterio. Questo era stato trovato in tutti i pazienti con un’ulcera al duodeno e nell’80 per cento di chi aveva un’ulcera allo stomaco; il batterio non era invece quasi mai presente nei pazienti con ulcere causate dall’assunzione di un tipo di antinfiammatori (FANS), noti per essere aggressivi con la mucosa gastrica.

Helicobacter pylori al microscopio elettronico (via Wikimedia)

Nel frattempo la coltura del batterio aveva permesso di identificarne le caratteristiche e di classificarlo come Helicobacter pylori. La scoperta aveva il potenziale di cambiare radicalmente il modo in cui venivano trattate le ulcere, ma furono necessari quasi due anni prima che lo studio di Warren e Marshall venisse pubblicato nel 1984 su The Lancet, una delle più importanti e prestigiose riviste mediche al mondo. Lo studio era stato infatti accolto con grande cautela e qualche scetticismo perché di fatto metteva in dubbio le pratiche mediche seguite fino all’epoca. Un editoriale di commento scritto dai responsabili della rivista ad accompagnamento dello studio mostrava quanto non ci si volesse sbilanciare: «Se l’ipotesi degli autori sulle cause e sugli effetti dovesse dimostrarsi valida, questo lavoro si rivelerebbe sicuramente importante».

Marshall aveva intanto proseguito alcune ricerche scoprendo che i sali di bismuto, una delle sostanze utilizzate fino ad allora nei farmaci per trattare ulcere e gastriti, erano in grado di uccidere H. pylori in vitro, cioè in esperimenti di laboratorio. Ciò spiegava probabilmente perché i pazienti traessero temporaneamente beneficio dall’assunzione di quei farmaci, anche se il trattamento non consentiva di eliminare tutte le colonie di batteri e di conseguenza dopo un po’ di tempo si ripresentava l’infiammazione allo stomaco. L’aggiunta alla terapia di metronidazolo, un antibiotico, eliminava invece il rischio di una recidiva a conferma del ruolo del batterio nelle gastriti e nelle ulcere.

Gli esiti di quei test erano emersi mentre Warren e Marshall erano ancora in attesa della pubblicazione del loro studio. Marshall pensò che una dimostrazione più chiara avrebbe vinto gli scetticismi, ma non riuscendo a riprodurre efficacemente le circostanze in un modello animale fece una proposta a Warren: bere una soluzione contenente H. pylori per verificare in prima persona i suoi effetti sullo stomaco. Warren non ritenne fosse il caso, come raccontò in seguito: «Quell’idea non mi piacque per niente. Penso di avergli detto “no” e basta».

Marshall non si scoraggiò e bevve la soluzione, dopo essersi sottoposto a un esame per sincerarsi di non avere già un’infezione da H. pylori. Per cinque giorni non ebbe sintomi, poi iniziò a sviluppare una gastrite, accompagnata da nausea, persistente alitosi e rigurgiti di succhi gastrici. A dieci giorni dall’assunzione, una nuova biopsia indicò una gastrite acuta e una forte infezione batterica allo stomaco. Dopo due settimane i sintomi iniziarono a diminuire, ma Adrienne, la moglie di Marshall esasperata dal pessimo alito del marito, lo esortò ad assumere immediatamente gli antibiotici minacciando di: «Sbatterlo fuori di casa e farlo dormire sotto a un ponte».

L’esperimento dimostrò ancora una volta il ruolo di H. pylori, ma non fu un particolare acceleratore nel cambiamento delle terapie. Dalla pubblicazione dello studio su Lancet nel 1984 passarono poi circa dieci anni prima che i trattamenti per l’ulcera venissero modificati, con il ricorso agli antibiotici come per qualsiasi altra infezione batterica. Uno dei rappresentanti delle autorità di controllo sanitarie negli Stati Uniti, commentò i nuovi protocolli nel 1994: «Ora c’è la possibilità di curare questa condizione, una cosa impensata prima. Abbiamo trattato le ulcere con sostanze per ridurre le secrezioni di succhi gastrici per così tanti anni da diventare difficile accettare che un germe, un batterio, potesse causare una malattia di quel tipo».

La prescrizione degli antibiotici fu affiancata a quella di altri farmaci per ridurre temporaneamente la produzione dei succhi gastrici, in modo da consentire alle mucose dello stomaco di guarire. Per la diagnosi da infezione da H. pylori fu poi sviluppato un “breath test”, un semplice esame che consiste nel soffiare in una provetta per verificare la presenza del batterio.

Barry Marshall e John Robin Warren durante la cerimonia di consegna dei Premi Nobel a Stoccolma, in Svezia, nel 2005 (REUTERS/Pawel Kopczynski)

Barry Marshall e John Robin Warren durante la cerimonia di consegna dei Premi Nobel a Stoccolma, in Svezia, nel 2005 (REUTERS/Pawel Kopczynski)

Warren e Marshall avevano realizzato una delle più grandi scoperte nella scienza medica del Novecento, sempre restando fedeli al metodo scientifico e alla condivisione dei loro studi con altri esperti. Partirono dai dati e dalle prove raccolte con i metodi della ricerca per provare le loro ipotesi, e non il contrario, come fa spesso chi sostiene di avere una nuova cura miracolosa che non viene accettata dal “sistema” o “dai poteri forti”. I loro studi furono la base per molte altre ricerche che continuano ancora oggi, soprattutto per comprendere il ruolo che hanno alcune infiammazioni croniche all’apparato digerente nello sviluppo di alcuni tipi di tumori.

Robin Warren è morto il 23 luglio 2024 a Perth, in Australia: aveva 87 anni. In una mattina d’autunno di diciannove anni prima aveva ricevuto una telefonata da Stoccolma con la quale gli veniva annunciata l’assegnazione del Premio Nobel per la Medicina insieme a Marshall: «Per la loro scoperta del batterio Helicobacter pylori e il suo ruolo nelle gastriti e nelle ulcere gastriche».