Secondo Mario Draghi, sulla competitività l’Unione Europea non deve perdere tempo
L'ex presidente della BCE ha presentato un atteso studio sulle difficoltà dell'economia europea e sulle soluzioni da adottare alla svelta: altrimenti «sarà una lenta agonia»

Lunedì l’ex presidente della Banca Centrale Europea ed ex presidente del Consiglio italiano Mario Draghi ha presentato un’attesa ricerca sulle cause della crisi di competitività dei paesi dell’Unione Europea che gli era stata commissionata dalla Commissione Europea circa un anno fa. Il documento è stato definito dalla stampa il “rapporto Draghi”, ma si chiama “Il futuro della competitività europea”: è uno studio approfondito, lungo quasi 400 pagine, elaborato con un gruppo di economisti e ricercatori in cui sono raccolte le più importanti sfide per l’economia europea, dal passaggio alle energie rinnovabili alla digitalizzazione e alla competizione con Stati Uniti e Cina.
Oltre a una lunga analisi sulle condizioni di partenza, quindi sulle criticità e le debolezze europee che hanno fatto perdere slancio all’economia dell’Unione, il rapporto propone una serie di riforme e politiche concrete da mettere in atto nei prossimi decenni per continuare a garantire agli abitanti europei lo stato sociale e il benessere di cui hanno goduto finora: rappresenterà dunque una base di lavoro per la politica economica europea, che sarà ampiamente discussa nel prossimo Consiglio Europeo, la riunione dei capi di Stato e di governo dei paesi membri che dà l’indirizzo politico alla Commissione, e nell’ambito della redazione del piano strategico dell’Unione per il quinquennio 2024-2029.
Sebbene lo studio abbia un orizzonte di lungo periodo, Draghi ha ribadito più volte che gli interventi necessari sono da attuare il prima possibile: «Due sono le parole chiave di questo rapporto: urgenza e concretezza», ha detto all’inizio della sua presentazione. Una giornalista gli ha chiesto conto del livello di urgenza a cui faceva riferimento, cioè se ritiene che l’Unione Europea si trovi in un momento per cui «o si mette in pratica tutto questo o si muore». Draghi ha dato una risposta un po’ ironica, ma efficace nel rafforzare il suo messaggio: «Non penso sia così, è più un “mettetelo in pratica o sarà una lenta agonia”». «Siamo arrivati a quel punto in cui, se non facciamo nulla, dovremo rischiare di compromettere il nostro stato sociale, il nostro ambiente o la nostra libertà», ha aggiunto.
Il rapporto propone un radicale cambiamento della politica industriale europea per continuare a essere competitivi sui mercati internazionali e non restare indietro rispetto ai progressi che stanno facendo gli Stati Uniti e la Cina, le altre due grandi economie con cui i paesi europei devono confrontarsi. Draghi ha detto che la sfida per l’Unione è «esistenziale»: o troverà il modo di riuscire a competere in modo efficace, mantenendo sicurezza e prosperità per i suoi abitanti, oppure «avrà perso la sua ragione di esistere».
Secondo il rapporto le condizioni che hanno contribuito alla prosperità dell’Unione sono cambiate radicalmente dopo la pandemia di Covid-19 e l’inizio della guerra in Ucraina. Il gas naturale russo a buon mercato non è più disponibile e – sebbene i prezzi dell’energia siano molto inferiori rispetto ai picchi del 2022, quando ci fu una grave crisi energetica – le aziende europee continuano a pagare l’elettricità tra le due e le tre volte in più rispetto alle aziende statunitensi, ritrovandosi svantaggiate nelle condizioni di partenza.
Allo stesso tempo gli investimenti in innovazione sono rimasti indietro rispetto a quelli di Stati Uniti e Cina, che stanno attuando piani miliardari per sviluppare i loro settori tecnologici e mettere in pratica la transizione energetica: solo 4 tra le 50 principali aziende tecnologiche al mondo sono europee, e quasi un terzo dei cosiddetti “unicorni” (cioè quelle imprese che valgono più di un miliardo di dollari) fondati nei paesi europei tra il 2008 e il 2021 hanno trasferito la loro sede altrove, principalmente negli Stati Uniti. Il divario nel Prodotto Interno Lordo (PIL) tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti ha raggiunto il 30 per cento nel 2023, dal 15 per cento del 2002, principalmente a causa della minore produttività nei paesi europei.
Secondo il rapporto, senza riforme drastiche e investimenti più alti, in particolare in settori strategici come le tecnologie ecosostenibili e l’intelligenza artificiale, la situazione non potrà che peggiorare. Il documento contiene proposte di politiche industriali per 10 diversi settori (dalla farmaceutica alle auto, dal reperimento delle materie prime critiche alla produzione di semiconduttori) e alcune proposte più trasversali, come l’accelerazione delle politiche per l’innovazione e la formazione dei lavoratori.
Lo studio conclude che servirebbero investimenti annuali fino a 800 miliardi di euro per raggiungere gli obiettivi, ossia continuare quantomeno a preservare lo stesso livello di benessere nei paesi europei: è una cifra pari al 4,5 per cento del PIL dell’Unione Europea. Draghi ha fatto un paragone con il Piano Marshall, il massiccio piano di spesa pubblica e investimenti con cui gli Stati Uniti finanziarono la ricostruzione dei paesi europei dopo la Seconda guerra mondiale, e che è spesso preso come riferimento quando si parla di grandi progetti economici. Gli investimenti previsti allora si limitarono all’incirca all’1 o 2 per cento del PIL europeo.
Una questione importante sarà capire come finanziare questo progetto: lo stesso Draghi ha detto che sarà necessario iniziare a pensare a uno strumento di indebitamento comune tra gli stati europei, un tema molto divisivo nella politica economica dell’Unione. «Mai in passato la dimensione dei singoli paesi è apparsa così piccola e inadeguata rispetto alla scala delle sfide che hanno davanti», ha detto, aggiungendo che servirebbe anche un maggiore coordinamento per evitare che ogni stato faccia da sé nelle questioni più importanti: «Gran parte di questi obiettivi non sono nuovi. Molti stati membri li stanno perseguendo da soli, ma così facendo stiamo in un certo senso minando il nostro potere. Potremmo fare molto di più se ci muovessimo come una comunità». Ha concluso dicendo che «le ragioni per una risposta unitaria non sono mai state così impellenti, ed è nella nostra unità che potremo trovare la forza di riformarci».