Perché abbiamo iniziato a fare la musica?

Uno studio recente sul rapporto tra le canzoni e il linguaggio dà qualche elemento in più per rispondere a una domanda che si faceva già Darwin

Un gruppo di donne tibetane in abiti cerimoniali durante il rituale buddista del Kalachakra, a Bodh Gaya, nello stato indiano del Bihar, il 2 gennaio 2019 (AP Photo/Altaf Qadri)
Un gruppo di donne tibetane in abiti cerimoniali durante il rituale buddista del Kalachakra, a Bodh Gaya, nello stato indiano del Bihar, il 2 gennaio 2019 (AP Photo/Altaf Qadri)
Caricamento player

Oltre che uno dei più antichi, la voce è probabilmente uno degli strumenti più versatili dell’essere umano. È usata sia per parlare che per cantare, ma quale delle due attività sia nata prima, quali caratteristiche distinguano l’una dall’altra, e se siano in relazione oppure no, è da secoli oggetto di riflessioni e ricerche. Così come è materia di studio la ragione per cui il canto e la musica, così come il linguaggio, sono presenti in tutte le società umane conosciute.

Una delle ipotesi più accreditate è che la capacità umana di produrre e apprezzare melodie – ritenuta da Charles Darwin, nel 1871, «una delle più misteriose» – sia il risultato evolutivo di comportamenti vantaggiosi per la sopravvivenza della specie, utili per esempio nel corteggiamento o prima degli scontri tra gruppi umani. Un’altra ipotesi è che, pur essendo presenti in tutte le società umane, il canto e la musica siano invenzioni culturali del tutto indipendenti dalla selezione naturale. E che siano prive di caratteristiche fisiche oggettive riscontrabili in tutte le culture del mondo.

Uno studio pubblicato di recente sulla rivista scientifica Science Advances ha fornito una serie di prove a sostegno dell’ipotesi evolutiva, perché ha individuato alcune specifiche proprietà acustiche che in varie culture caratterizzano il canto e la musica rispetto al parlato. Condotto da un gruppo internazionale di 75 ricercatori e ricercatrici provenienti da 46 paesi di tutti i continenti, lo studio ha analizzato decine di canzoni della tradizione popolare di diverse culture nel mondo: canti popolari, ninne nanne, musica religiosa o altro. E ha scoperto che alcune differenze acustiche tra la versione cantata o suonata di ogni canzone e il parlato, in termini di tempo e di frequenza, in generale sono condivise tra le diverse culture.

Il campione analizzato, composto da 300 registrazioni, è stato prodotto direttamente dalle autrici e dagli autori dello studio: musicologi, psicologi, linguisti, neuroscienziati e biologi, ma anche musicisti professionisti, ciascuno dei quali ha registrato almeno una canzone tradizionale della propria cultura di origine. Per esempio: il neuroscienziato dell’università La Sapienza e del Max Planck Institute for Psycholinguistics Andrea Ravignani, coautore italiano dello studio, ha suonato “Bella ciao” al sassofono. Le lingue rappresentate nello studio sono in totale 55: oltre alle più diffuse e a quelle parlate da comunità linguistiche molto estese, come il basco, sono incluse anche lingue di piccoli gruppi etnici come i Rikbaktsa in Brasile e gli Ainu in Giappone.

Il metodo di indagine prevedeva di registrare di ogni canzone una breve descrizione, una versione cantata, una strumentale e una in cui il ricercatore o la ricercatrice pronuncia le parole del testo. Tra i vari strumenti musicali utilizzati c’erano claviette, flauti di bambù e liuti tradizionali dell’Asia centrale e meridionale come il tar e il sitar. Nelle intenzioni del gruppo di ricerca coinvolgere direttamente nelle registrazioni persone che sono originarie delle culture esaminate è utile a limitare il rischio di pregiudizi ed errori di interpretazione. Pregiudizi che sono invece frequenti nei casi in cui – come in molte canzoni registrate in database esistenti – i musicologi interpretano la struttura e i testi di canzoni di culture che non conoscono.

Una canzone tradizionale brasiliana, “Petara”, in versione cantata e in versione suonata al flauto di bambù dal ricercatore Tutushamum Puri Teyxokawa (zenodo.org)

Il musicologo e psicologo Patrick Savage, coautore dello studio e ricercatore dell’università di Auckland, in Nuova Zelanda, ha detto al New York Times di aver reclutato gli altri partecipanti attingendo a una rete di contatti che ha sviluppato nei dieci anni scorsi durante conferenze e incontri di lavoro. Insieme si sono concentrati sulle caratteristiche acustiche del parlato e della musica indipendentemente dalle differenze tra le lingue e gli stili musicali. E hanno scoperto che in tutte le culture, salvo rare eccezioni, la versione cantata e quella strumentale delle canzoni tendono a essere più lente, più acute e più stabili nell’intonazione rispetto al parlato (sia quello usato per descrivere la canzone che quello usato per pronunciare le parole del testo).

Non è chiaro perché le canzoni e le melodie strumentali analizzate nello studio fossero in generale più lente e più acute del parlato. Ma secondo Savage la musica è più prevedibile e regolare di quanto possa esserlo il parlato perché potrebbe essersi evoluta per formare e rinsaldare legami sociali tra gruppi di persone. «Le caratteristiche che abbiamo scoperto che distinguono la musica dal parlato si adattano bene a questa teoria», ha aggiunto lo psicologo Peter Pfordresher in un comunicato stampa pubblicato sul sito della University at Buffalo, coinvolta nello studio.

– Leggi anche: Non saltano più fuori nuovi strumenti musicali

Pfordresher ha detto che quando le persone fanno musica tendono a farla collettivamente, e devono quindi sincronizzarsi e sintonizzarsi tra loro. Dato che essere in sincronia diventa più difficile man mano che il tempo aumenta, quando il tempo invece rallenta il ritmo diventa più prevedibile e più facile da seguire. Più o meno lo stesso discorso vale per la sintonia, considerando che è molto più facile accordarsi sul tono di qualcun altro se quel tono è stabile. Nel parlato la necessità di sincronizzarsi viene invece meno, perché generalmente nelle conversazioni le persone si alternano tra loro. E fare pause o parlare lentamente, secondo Pfordresher, potrebbe anzi fornire il falso segnale che il proprio turno sia finito.

Secondo Yuto Ozaki, coautore dello studio e ricercatore dell’università Keio a Tokyo, la musica potrebbe derivare da segnali in grado di produrre un vantaggio evolutivo. «Forse era necessaria per migliorare la coesione del gruppo», ha detto al New York Times, ipotizzando che cantare in coro e condividere ritmi e melodie potesse essere un modo di preparare alla battaglia le persone di una stessa comunità.

– Leggi anche: La musica è davvero universale?

Daniela Sammler, una neuroscienziata del Max Planck Institute for Empirical Aesthetics a Francoforte, ha detto al New York Times che lo studio potrebbe aver evitato alcuni pregiudizi ma averne introdotti altri, visto che i cantanti erano in gran parte studiosi. «Alla fine si tratta di accademici che cantano canzoni che potrebbero non essere rappresentative», ha detto Sammler. Inoltre alcuni di loro avevano una preparazione musicale significativa, come la neuroscienziata pakistana di lingua indostana e cantante di musica classica Shantala Hegde, o il percussionista senegalese Latyr Sy. La loro musica potrebbe avere caratteristiche diverse da quella prodotta da un campione casuale di partecipanti.

Ribadendo la necessità di altri studi su questo argomento, Sammler ne ha tuttavia segnalato un altro in formato preprint (cioè non ancora sottoposto a revisione paritaria) che ha analizzato il canto e il parlato di 369 persone di 21 diverse società urbane e rurali nel mondo. Dallo studio, che confermerebbe le conclusioni di quello uscito su Science Advances, emerge che il canto e la musica da una parte e il parlato dall’altra differiscono allo stesso modo in tutte le culture, sulla base di caratteristiche acustiche indipendenti dalle caratteristiche culturali.

L’ipotesi che il canto e la musica abbiano caratteristiche universali non culturali non esclude in ogni caso la possibilità di origini evolutive diverse dalla necessità di coesione sociale prima delle battaglie tra gruppi. Potrebbe anche derivare, per esempio, dal bisogno dei genitori di creare un legame con i figli, ha detto Sammler citando uno studio del 2022 sul “maternese”, cioè i versi e i suoni che emettiamo per comunicare con neonati e bambini molto piccoli.

– Leggi anche: Il modo in cui parliamo ai neonati è una specie di lingua franca