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  • Sabato 18 maggio 2024

Gli antichi e travagliati rapporti tra islandesi e baschi

Nel Seicento crearono una specie di lingua ibrida per poter scambiare informazioni sulle balene e poi si scontrarono violentemente, racconta Leonardo Piccione

Una scogliera islandese e l'oceano
Un piccolo promontorio nel sud dell'Islanda (Maja Hitij/Bongarts/Getty Images)

L’Islanda è un paese piccolo e poco popolato ma per ragioni geografiche e storiche è anche un luogo dalle usanze molto originali e la fonte di tante storie affascinanti. Leonardo Piccione, scrittore italiano che negli ultimi anni ha passato gran parte del suo tempo in Islanda, ne ha raccontate parecchie sui social e nel suo primo libro, Il libro dei vulcani d’Islanda, e ora è tornato a farlo con Insegnare a nuotare a una foca. Viaggio insolito nella lingua islandese, pubblicato da Utet. È un saggio che a partire da alcune parole e caratteristiche dell’islandese descrive lati diversi della cultura del paese. Ne pubblichiamo un estratto che spiega come mai in Islanda, fino al 2015, c’era una legge che consentiva (almeno sulla carta) di uccidere le persone provenienti dai Paesi Baschi.

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Il viaggiatore che percorra l’Islanda oggi, attenendosi scrupolosamente agli itinerari suggeriti e preferendo le proprie playlist alle emittenti radiofoniche preimpostate nell’auto noleggiata in aeroporto, ha un’elevata probabilità di portare a termine la traversata senza mai entrare in contatto con la melodia cantilenata del parlato islandese. Gli stagionali di hotel, musei e ristoranti sono in gran parte af erlendu bergi brotnir, “tagliati da roccia straniera”, e la rimanente quota di locali si destreggia più che egregiamente con l’inglese, così che la circostanza di aver visitato un paese in cui si parla un idioma ritenuto tra i più singolari e tignosi al mondo passa il più delle volte inosservata, o per meglio dire inascoltata.

Consideriamo però il caso – per assurdo, ma soprattutto per consentirmi di raccontarvi una delle storie più incredibili che ho appreso in questi anni – che siate un pescatore basco giunto in un fiordo dell’Ovest a inizio Seicento, mentre l’Islanda è una nazione povera e arretrata, la piccola era glaciale fa il suo corso e lungo le coste dell’isola la paura dei pirati morde più di quella dei fantasmi, trasformando remote comunità di contadini in violenti clan di facinorosi.

Voi non comprendete la lingua locale, e i locali non comprendono la vostra. Non c’è un ceppo comune, di interpreti nemmeno l’ombra, l’esperanto è lungi a venire – per non parlare di Google Translate. Cionondimeno, dovete fargli capire che siete lì per una missione precisa: vi importa delle balene, i giganti del mare che gli islandesi non posseggono la tecnica né gli strumenti per cacciare. Se ne cibano, certo, ne impiegano gli ossi per rafforzare le loro case di torba, ma solo nei casi in cui sono esse stesse a offrirsi agli umani appetiti, spiaggiandosi. Quando ne rinvengono una esclamano hvalreki!, espressione che è diventata sinonimo di “colpo di fortuna”.

Dovete prendere accordi con questa gente, spiegare loro che mirate soprattutto a una cosa: la sostanza cerosa detta “spermaceti” che i capodogli accumulano nell’immane capo arrotondato e che voi smercerete a olandesi vogliosi di farne profumi e candele, mentre la carne – i quintali e quintali di burrosa polpa che si ricavano da un singolo esemplare –, quella siete disponibili a barattarla in loco in cambio di pecore, latte, guanti, calze e qualche cane.

L’opzione più sensata che avete a disposizione è accordarvi con gli indigeni, stabilire un punto d’incontro verbale che agevoli le relazioni. Non vi occorre una lingua vera e propria – in un’estate islandese non c’è il tempo d’impararne una, figurarsi codificarne di nuove – ma giusto un frasario essenziale che permetta di relazionarvi con i locali per la durata della vostra permanenza nordica. Esattamente questo fecero i balenieri baschi spintisi nei Fiordi dell’Ovest nel XVII secolo, escogitando un mezzo di comunicazione ipersemplificato che i linguisti chiamano “pidgin basco-islandese”.

La nostra conoscenza di questo pseudoidioma è ancora piuttosto limitata, basata sulla miseria di quattro glossari rinvenuti nel corso dell’ultimo secolo (il più recente nel 2008) e contenenti in totale alcune centinaia di espressioni utilizzate per facilitare gli scambi tra i marinai baschi e i residenti islandesi. Non si sa se tale pidgin sia sorto in Islanda o se i baschi, naviganti tra i più provetti dell’epoca, l’avessero plasmato altrove e riciclato nelle loro incursioni subartiche: fatto sta che alcuni islandesi ritennero opportuno prendere appunti, organizzando lemmi e locuzioni udite in accurate liste provviste di traduzione a fronte.

Sono, tali voci, un misto di basco, olandese, francese, tedesco e spagnolo, e nei glossari compaiono ordinate per temi: dalle introduzioni personali (Nola dai fussu?, “Come ti chiami?”) ai primi approcci commerciali (Sumbatt galsardia for?, “Per quanti calzini?”); da precise richieste utilitarie (Presenta for mi berrua usnia eta berria bura, “Dammi del latte caldo e del burro fresco”) fino a più elaborate proposizioni ipotetiche: Christ Maria presenta for mi Balia, for mi, presenta for ju bustana, “Se Cristo e Maria mi faranno avere una balena, te ne darò la coda”, in cui for mi e for ju sono palesi reminiscenze anglofone. Non mancano espressioni meno urbane, come Sickutta Samaria, una poco amichevole esortazione a intrattenere un rapporto intimo con un cavallo, o ancora For ju mala gissuna, che significa “Sei un uomo malvagio” e suggerisce che non sempre la convivenza tra baschi e islandesi fu retta da principi di apertura e collaborazione.

Nonostante il supporto del pidgin, le incomprensioni rimanevano infatti all’ordine del giorno, e bastava poco a spezzare un equilibrio che gli stenti di quegli anni rendevano più che precario. Le cose talvolta si mettevano male, insomma, e precipitarono del tutto nell’anno del Signore 1615, quando una catena di eventi nefasti condusse all’ultimo massacro documentato della storia d’Islanda, un accesso di violenza passato alla storia con il nome di Spánverjavígin, “l’eccidio degli spagnoli”. (Negli ultimi tempi si tende a preferire il più puntuale termine Baskavígin, “l’eccidio dei baschi”.)

Avvenne che nella tarda serata del 20 settembre insolite raffiche da sudest invasero il Reykjafjörður. Alti cavalloni trascinarono nella bocca del fiordo lastre di ghiaccio sconnesse che per tutta la notte si accanirono sui tre vascelli stranieri ivi ormeggiati in attesa dell’imminente ripartenza, danneggiandoli irreparabilmente. Ottantadue balenieri baschi si ritrovarono appiedati, e la brutta stagione s’avvicinava. Decisero d’imbarcarsi senza indugio sulle scialuppe di salvataggio e sparpagliarsi tra gli artigli di roccia a picco sul mare che sono i Fiordi dell’Ovest in cerca di natanti solidi a sufficienza da consentir loro di far subito rotta verso sud, ma non fecero i conti con la disperata diffidenza dei locali. Dopo che una delle bande di baschi erranti ebbe saccheggiato una canonica e uno spaccio di sale e pesce essiccato, gli islandesi conclusero che per neutralizzare gli invasori e scongiurare il prematuro esaurimento delle scorte invernali i mezzi diplomatici non avessero alcuna utilità.

Il successivo 8 ottobre, rendendo applicativo un decreto ratificato l’estate precedente dal parlamento, il procuratore Ari Magnússon di Ögur dichiarò fuorilegge tutti i baschi vaganti nella regione, garantendo l’impunità a chiunque si fosse adoperato per liquidarli. Cominciò così una sanguinosa caccia all’uomo, un regolamento di conti che nel giro di pochi giorni e una manciata di spedizioni punitive portò all’omicidio di un numero di baschi compreso tra i trentuno e i quaranta.

La crudeltà degli atti di cui si resero protagonisti certi loro avi genera raccapriccio negli islandesi contemporanei. Orrendamente mutilati e profanati, i cadaveri dei marinai furono legati in gruppetti di due o tre e gettati giù dalle scogliere, al pari di carcasse di animali. Oltremodo atroce la sorte riservata a Martín de Villafranca, il capitano di uno dei tre vascelli stranieri, uomo di indiscusso carisma, che tentò di salvarsi dalla furia degli autoctoni tuffandosi in mare e prendendo a nuotare «al modo di una foca o una trota». Mentre guizzava veloce nell’oceano, Martín intonò una melodia straziante: cantava in latino, e «molti pensarono che le sue doti fossero stupefacenti». Ammirato ma niente affatto impietosito, un manipolo di sicari lo inseguì a bordo d’una barchetta e lo colpì con un bastone e una pietra, vanificando la sua fuga. Ricondotto a riva, il marinaio basco fu prima denudato e poi ripetutamente pugnalato. Balzò in piedi un’ultima volta, solo per accorgersi che un profondo squarcio gli percorreva trasversalmente il torso. Stramazzato in avanti, morì eviscerato, «come se fosse il peggiore dei pagani e non un povero cristiano innocente».

La genesi del resoconto citato tra virgolette, distintamente compassionevole per essere stato redatto da un conoscente degli assassini, costituisce l’unico risvolto edificante di questa vicenda. La vera storia del naufragio e dell’eccidio degli uomini spagnoli fu compilata con il preciso scopo di riferire in modo oggettivo dei crimini avvenuti nel 1615, confrontando le diverse fonti a disposizione e senza il più piccolo timore di inimicarsi le autorità. Jón Guðmundsson quel passo l’aveva già compiuto qualche settimana prima di mettersi a scrivere, d’altra parte, rigettando l’ultimatum del procuratore Magnússon: s’era rifiutato di unirsi alla mattanza dei baschi – con alcuni dei quali aveva intrattenuto relazioni amichevoli –, motivo per cui sarebbe stato costretto ad abbandonare i Fiordi dell’Ovest senza più farvi ritorno. Il suo testo fu a lungo l’unico documento severo con gli assalitori e clemente con i balenieri, ed è stato definito «la difesa dell’umanità da parte dell’uomo comune contro gli stereotipi disumanizzanti prodotti dalle élite al potere e dai loro servitori». Per tutte queste ragioni, Jón Guðmundsson è considerato il primo giornalista della storia d’Islanda, oltre che primo folclorista e primo etnologo. […]

Il 22 aprile 2015, nel villaggio di Holmavík, non lontano dai luoghi della mattanza, il ministro dell’istruzione islandese Illugi Gunnarsson e il presidente della provincia basca di Gipuzkoa Martín Garitano si strinsero calorosamente le mani: cadeva il quattrocentesimo anniversario dei fatti. L’occasione era stata scelta per inaugurare una stele commemorativa e soprattutto per abolire ufficialmente il decreto che consentiva di trucidare liberamente i baschi nei Fiordi dell’Ovest. Per quattro secoli nessuno si era curato di farlo, anche se – specificò il procuratore regionale dell’epoca – «le leggi islandesi moderne già vietano di uccidere chiunque, baschi inclusi». La notizia fece in ogni modo il giro del mondo, e il “Washington Post” titolò In Islanda non è più legale uccidere i baschi a vista.

Alla presenza di un discendente delle vittime e di una degli assassini, fu svelato il monumento che simboleggia la riappacificazione tra i due popoli, e la cui incisione riporta in esordio le parole di Jón Guðmundsson il Dotto: «In ricordo dei trentuno marinai baschi massacrati nel 1615. Possano coloro che ne han gusto ascoltare la mia storia, e coloro che non se ne curano la lascino tranquillamente perdere».

© 2024, De Agostini Libri S.r.l.
© Leonardo Piccione, 2024

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