I pub britannici sono in crisi, tranne uno
Mentre quelli indipendenti chiudono la catena J D Wetherspoon si espande, soprattutto grazie ai prezzi bassissimi che le hanno attirato accuse di concorrenza sleale
di Viola Stefanello
Nel 1973 nel Regno Unito uscì un libretto scritto da un giovane giornalista poco conosciuto di nome Christopher Hutt. Si chiamava The Death of the English Pub (“La morte del pub inglese”) e sosteneva, nell’arco di 160 pagine, che «la natura della maggior parte dei pub che conosciamo e frequentiamo è cambiata in modo irriconoscibile negli ultimi 10 anni, e quest’operazione di demolizione sembra acquisire costantemente potenza e ritmo». The Death of the English Pub rientrava in una lunga letteratura di saggi, articoli, pamphlet e allarmi di scrittori, antropologi e giornalisti che da decenni lamentavano il declino apparentemente inarrestabile di un’istituzione che storicamente, soprattutto nei piccoli centri abitati delle isole britanniche, aveva avuto una rilevanza sociale equiparabile a quella della Chiesa.
La parola pub è un’abbreviazione di “public house”, “casa pubblica”: sono locali che nel Regno Unito e in Irlanda esistono da secoli e si distinguono da altri tipi di locali perché non fanno pagare l’ingresso né chiedono di avere una tessera per entrare, servono birra o sidro alla spina, permettono di bere senza comprare il cibo e di ordinare da bere al banco senza aspettare il servizio al tavolo. E sono effettivamente in declino: nel 1980 nel Regno Unito ce n’erano più di 69mila; oggi sono circa 46.800. Nel 2023 ne sono stati chiusi una media di due al giorno.
Non tutti, però, sentono la crisi. Un mese fa Tim Martin, l’eccentrico e controverso fondatore della catena di pub J D Wetherspoon (nota come Wetherspoons, o anche solo Spoons), ha detto che conta di arrivare ad aprire il suo millesimo bar nei prossimi anni. Piuttosto omogenei nella qualità del cibo e delle bevande vendute, adatti ad avventori di tantissime estrazioni sociali e generazioni diverse, piazzati in modo strategico nelle vie principali di città grandi e piccole ma soprattutto davvero, davvero economici, i Wetherspoons aperti in Regno Unito e Irlanda oggi sono 814, di cui 55 funzionano anche come hotel a basso costo. Nel 2015 erano ancora di più, 955.
Dopo un periodo di relativa contrazione, dovuta anche a un’espansione precedente troppo rapida, tra il 2022 e il 2023 i profitti dell’azienda sono cresciuti moltissimo. Quelli al lordo delle imposte sono saliti a 36 milioni di sterline (42 milioni di euro) nell’ultimo semestre del 2023: nello stesso periodo dell’anno precedente erano stati 4,6 milioni, otto volte inferiori. Nel frattempo il fatturato è cresciuto da 916 a 991 milioni di sterline, 1,16 miliardi di euro. Le vendite di bevande sono aumentate dell’11,6 per cento, quelle di cibo del 7,6 per cento, nonostante abbiano chiuso 10 pub della catena. I profitti hanno beneficiato, oltre che della crescita della domanda, anche dell’attenuazione dell’inflazione, che nel 2022 ne aveva aumentato le spese.
Al contempo, la rilevanza culturale di Wetherspoons nella società britannica di oggi è notevole: alla catena sono stati dedicati libri, meme e anche una serie di documentari andata in onda nel 2021 su Channel 5, il quinto canale della televisione pubblica britannica. Il 31 dicembre del 2023 al suo fondatore, Tim Martin, è stato conferito il titolo di cavaliere di sua maestà per il suo impegno nel settore dell’ospitalità e della cultura. E i giornali e i programmi televisivi britannici ne parlano spesso e volentieri, che sia per discutere sul ruolo di Wetherspoons nella chiusura dei pub più piccoli e indipendenti, sulle posizioni politiche di Martin, che è noto per il suo forte sostegno all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, o sull’essenza stessa di ciò che gli Spoons rappresentano.
Martin comprò il suo primo pub nel 1979: era il Marler’s, un bar nel nord di Londra di cui era diventato cliente abituale perché era tra i pochi che in quel periodo avevano una discreta selezione di birre “real ale”, o birre crude, ovvero prodotte senza pastorizzazione né aggiunta di conservanti. Quando il proprietario decise di venderlo, Martin gli offrì un accordo bizzarro: 40mila sterline in contanti, una casa nel sud di Londra e un paio di settimane nella casa delle vacanze che suo padre aveva in Jamaica. Il proprietario accettò, e il pub venne rinominato per un po’ Martin’s Free House, prima di cambiare nome, diventando J D Wetherspoon.
J D era il nome di un personaggio della serie americana The Dukes of Hazzard (trasmessa in Italia come Hazzard), che Martin stava guardando in quel periodo; Wetherspoon il cognome di un suo vecchio insegnante. «Ho pensato che io non ero capace di tenere sotto controllo il mio pub e lui non era mai stato capace di controllare le sue classi, e che quindi avrei dovuto dare al pub il suo nome», ha poi raccontato.
Nella storia di Wetherspoon aneddoti coloriti come questo sono frequenti. Uno dei più bizzarri ha a che fare con la grande passione di Martin per The Moon Under Water, un saggio del 1946 scritto da George Orwell, l’autore di 1984 e La fattoria degli animali. Nel testo, Orwell forniva una descrizione dettagliata di quello che secondo lui era il pub perfetto, dandogli il nome fittizio di “The Moon Under Water” (“La luna sott’acqua”). Questo pub doveva avere un’architettura e un arredo che ricordasse l’epoca vittoriana; baristi che conoscono i clienti per nome e si interessano alle loro vite; vendere tabacchi, sigarette, aspirine e francobolli; «una specie di birra scura cremosa»; bicchieri di porcellana; un bel giardino sul retro. Doveva, «sei giorni a settimana, offrire un pranzo buono e sostanzioso, per esempio una tagliata di manzo, due verdure e un panino alla marmellata, per tre scellini circa». E doveva essere abbastanza silenzioso da permettere ai clienti di parlare tra loro in qualsiasi momento della giornata, senza tenere quindi mai accesa la radio né avere un pianoforte in un angolo.
Degli oltre ottocento Spoons aperti oggi, quasi nessuno risponde a tutti i requisiti di Orwell, ma Martin ne ha comunque applicati diversi: in tutti i suoi pub si può mangiare a colazione, pranzo e cena (e in qualsiasi momento del giorno si decida di arrivare, negli orari di apertura). Ci sono grandi classici della cucina popolare inglese, a partire dalla colazione con uova, bacon, fagioli, black pudding, salsiccia e toast, ma anche opzioni vegetariane, vegane e gluten-free.
Ma soprattutto, nessun Wetherspoons riproduce musica, neanche la sera: qualcuno mette a disposizione un paio di televisori per seguire le notizie (e mai gli sport, come invece fanno spesso altri pub), oppure delle slot machine. Non si trovano biliardi né freccette: è uno spazio chiaramente disegnato per parlare, bere e mangiare. Spesso, quando Martin non sa come chiamare un pub appena aperto, gli dà il nome “The Moon Under Water”: in tutto nel paese ci sono tredici Spoons che si chiamano così.
Per il resto è difficile trovare due Wetherspoons identici tra loro, benché alcuni dettagli, come lo stile dei menù, siano chiaramente standardizzati. Fin da subito, per aggirare il fatto che gran parte dei pub all’epoca appartenesse a grandi case produttrici di birra che imponevano i propri prezzi e le proprie birre ai locatari, Martin cominciò ad acquistare soprattutto locali che in precedenza non erano stati pub: vecchi cinema, uffici postali, banche, concessionarie d’auto, teatri d’opera.
Alcuni sono molto belli, altri (soprattutto quelli negli aeroporti e nelle stazioni ferroviarie) sono noiosi o anonimi. Tutti hanno a terra un tappeto diverso che richiama in un modo o nell’altro la storia precedente del locale: a questa peculiarità nel tempo sono stati dedicati un profilo Instagram e poi un libro di fotografie. Tutti hanno alle pareti una lunga serie di pannelli informativi che raccontano stralci di storia locale. Lo storico Nathan Smith peraltro ha da poco dedicato un intero studio al modo, talvolta inaccurato o romanticizzato, di raccontare la storia locale attraverso gli spazi di Wetherspoon.
Tutti i pub mettono poi a disposizione dei clienti Wetherspoon News, un periodico scritto dall’ufficio di pubbliche relazioni dell’azienda: al suo interno ci sono spesso storie toccanti di buone azioni fatte dai dipendenti, ma anche lunghi editoriali in cui Martin si lamenta estesamente del trattamento riservatogli dalla stampa o delle tasse troppo alte. Wetherspoon News è il principale strumento di comunicazione dell’azienda, che dal 2018 ha cancellato tutti i propri profili ufficiali dai social network dicendo di poterne fare a meno.
Martin operò in perdita per i primi quattro anni, pur cominciando a espandersi nel nord di Londra fin da subito. L’azienda realizzò un profitto per la prima volta nel 1984. Nel 1991 registrava oltre un milione di sterline di profitti e possedeva quarantaquattro pub. Nel 1992 venne quotata alla Borsa di Londra e valutata 45,6 milioni di sterline. Nel 1994 venne aperto il centesimo pub. Si chiamava, ovviamente, The Moon Under Water.
Da allora i prezzi sono rimasti sistematicamente più bassi di quelli offerti nella grandissima parte degli altri pub. Wetherspoon riesce a mantenerli acquistando spazi slegati dai birrifici tradizionali, contrattando prezzi più bassi rispetto alla concorrenza, ma anche per una semplice questione di grandi numeri, ammortizzando il costo delle materie prime acquistandole per tutti i locali. L’azienda paga i dipendenti un po’ meno della media del settore, e preferisce integrare un salario non molto allettante con un bonus per i dipendenti che decidano di rimanere almeno cinque anni. Al personale viene poi chiesto di seguire specifiche tecniche di servizio e spillatura della birra in modo da risparmiare quanto più tempo, e denaro, possibile.
In generale, comunque, i margini di profitto che realizza non sono particolarmente ampi: nell’anno finora più redditizio della sua storia, il 2018, ha ottenuto un profitto di 107 milioni di sterline su un fatturato annuo di 1,7 miliardi di sterline, con un margine quindi del 6,3 per cento. Normalmente, un pub viene considerato di successo se ottiene un margine compreso tra il 14 e il 18 per cento.
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«Oggi un pub indipendente e di successo probabilmente offre cibo di alta qualità e un’atmosfera più intima. È un’esperienza un po’ più lussuosa, diciamo. Wetherspoons invece conduce un’esperienza che si gioca tutta sui volumi: è fatto esplicitamente per accogliere chiunque», spiega Nils Pratley, giornalista finanziario che lavora da anni per il Guardian e si è più volte occupato dell’azienda.
«C’è davvero sempre qualcuno: c’è chi passa di là per bersi un caffè o fare colazione la mattina, mentre la maggior parte degli altri pub è frequentata solo la sera o al massimo all’ora di pranzo. Ci va mia figlia diciannovenne con gli amici studenti per risparmiare, ma ci vanno anche i pensionati e le famiglie, e tutti coesistono felicemente nello stesso spazio. Non è una cosa che succede spesso altrove, in realtà».
Nel Regno Unito è piuttosto diffusa la convinzione che a frequentare gli Spoons siano principalmente le persone meno abbienti. A Martin, però, questa caratterizzazione non piace: in un’intervista recente condotta dal giornalista Harry Wallop, che ha deciso di passare ventiquattr’ore all’interno di uno dei locali della catena a Birmingham, ha detto che «i nostri clienti vengono da tutte le estrazioni sociali e da tutte le fasce d’età». I dati raccolti dalla società di ricerche di mercato CGA BrandTrack gli danno una certa ragione: secondo loro, il cliente medio di J D Wetherspoon ha un reddito annuo di 45mila sterline, di poco inferiore a quello di chi frequenta pub e ristoranti di altro tipo (46mila sterline all’anno).
Oltre alla pura questione economica, comunque rilevante, molte persone dicono di apprezzare Wetherspoons perché ricopre effettivamente il ruolo sociale storicamente affidato al pub di paese: incontrare amici e sconosciuti, chiacchierare, far passare il tempo. «Ci vanno i lavoratori che vogliono bersi un bicchiere con i colleghi dopo lavoro tanto quanto le persone più anziane in cerca di compagnia», racconta la sociologa Deborah Toner, che ha a lungo studiato le culture che si sono sviluppate attorno al consumo di bevande alcoliche in vari paesi.
«Aiuta sicuramente il fatto che, avendo a disposizione degli spazi così grandi, di solito riescono a dividere il locale in varie zone per ogni gusto: c’è l’angolo più accogliente per le famiglie, quello un po’ più privato perfetto per le coppie o i singoli, quello più spazioso per i grossi gruppi di studenti o gli uomini che celebrano l’addio al celibato. E seguono quei vecchi valori da pub storico: un tempo era del tutto normale evitare di riprodurre musica durante il giorno, perché rende molto più facile chiacchierare».
Alcuni trovano l’atmosfera molto piacevole; altri guardano a Wetherspoons con una certa ritrosia, per tanti motivi. Uno è puramente estetico, forse anche velatamente snob: tra luci brillanti, menù standardizzati, cibo spesso preparato in un altro momento e poi semplicemente riscaldato e mobili semplici, Wetherspoons non è esattamente considerato sinonimo di un posto elegante o cool dove passare la serata. Altri ancora hanno ragioni politiche per essere diffidenti.
La prima ha a che fare con il personaggio stesso di Martin, il fondatore. Uomo orgogliosamente populista e tendenzialmente conservatore, Martin nel tempo ha condiviso molto esplicitamente le proprie opinioni sull’Unione europea. Nei primi anni Duemila era talmente contrario all’introduzione della moneta unica nel Regno Unito da arrivare a sostenere che non avrebbe mai accettato un euro in un proprio locale (salvo poi aprirne diversi in Irlanda, dove l’euro è la moneta ufficiale). In vista del voto per l’uscita del paese dall’Unione europea nel 2016, poi, stampò migliaia di sottobicchieri che invitavano i clienti a votare a favore di Brexit. Più tardi si fece più volte fotografare pubblicamente con esponenti del Partito Conservatore, tra cui l’ex primo ministro Boris Johnson.
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Al contempo, però, ha spesso sostenuto politiche favorevoli all’immigrazione: dopo Brexit, per esempio, ha pubblicato un “Wetherspoon Manifesto” in cui chiedeva al governo di concedere la cittadinanza a qualsiasi cittadino europeo la chiedesse. Ciononostante ci sono persone che da allora boicottano i pub della catena perché non vogliono che i loro soldi vadano a una persona con cui sono così profondamente in disaccordo.
L’obiezione più comune, però, è legata all’idea che J D Wetherspoon faccia concorrenza sleale ai pub indipendenti in un momento in cui si trovano particolarmente in difficoltà, tra gli strascichi economici della pandemia, l’aumento del costo del lavoro e delle materie prime per via della Brexit, il crescente costo dell’energia, e l’impatto che tutto ciò ha avuto sui consumatori.
C’è stato senza dubbio un momento in cui l’azienda è cresciuta a discapito degli altri pub. Tra il 2008 e il 2009 aprì 39 pub, in gran parte all’interno di locali storici che erano in precedenza stati a loro volta pub, ma che non erano sopravvissuti al calo di clientela dovuto al divieto nazionale di fumare nei locali chiusi entrato in vigore nel 2007 prima, e alla crisi economica globale dopo. J D Wetherspoon aveva già bandito le sigarette nei propri locali due anni prima che passasse la legge nazionale, e quindi la sua clientela aveva fatto in tempo ad abituarsi. Al contempo, in quegli anni la catena aveva cominciato a investire moltissimo sull’offerta di cibo, colazioni e caffè, che si rivelarono una fonte di introiti sostanziosa e affidabile anche negli anni della crisi.
«Che J D Wetherspoon abbia prosperato in un periodo di declino generalizzato nel settore dei pub è indubbio. Ma il grado di responsabilità dell’azienda nella chiusura degli altri pub è oggetto di dibattito», scriveva già nel 2018 il giornalista Mark Wilding. «Secondo i suoi sostenitori la catena porta clienti in aree altrimenti trascurate, il che aiuta economicamente anche gli altri negozi. I critici però sostengono che i pub indipendenti semplicemente non possano competere [con i suoi prezzi]. E l’azienda è stata senza dubbio aggressiva nel marcare il territorio: per molti anni ha esposto i prezzi dei rivali, pub indipendenti compresi, sui propri manifesti pubblicitari».
Nonostante il comportamento talvolta scorretto di Wetherspoons, alcuni fanno notare che non sia colpa loro se quasi tutti i pub, indipendenti o meno, fanno fatica a eguagliare i prezzi bassi di J D Wetherspoon: quasi sempre la ragione sono i rapporti con i birrifici, molto stretti e limitanti.
Il dibattito sulla responsabilità di Wetherspoons, poi, spesso ignora le ragioni strutturali, non solo economiche, che hanno portato i pub ad avere una minore centralità nella vita delle persone nel Regno Unito. «C’è stata una sorta di riconfigurazione del mercato: nelle città chiudono i pub, certo, ma magari aprono cocktail bar, wine bar, locali specializzati in birre artigianali. Insomma, spazi dove si può bere qualcosa di più specifico, che però non sono dei pub in senso tradizionale: servono una nicchia più specifica di consumatori», spiega la sociologa Deborah Toner. «E poi semplicemente le persone hanno meno tempo e spesso meno soldi, per questo vanno di meno al pub. Ironicamente la possibilità di comprare qualcosa da bere al supermercato e bersela a casa, con gli amici o meno, mette in maggior difficoltà i pub rispetto a quanto non possa mai fare Wetherspoons».
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L’immagine del pub, però, è centrale in moltissime delle storie con cui per secoli inglesi, scozzesi, gallesi e irlandesi hanno raccontato se stessi, da The Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer, una delle prime opere letterarie in lingua inglese, a The Old Oak, l’ultimo film del regista Ken Loach che parla del senso di smarrimento di una comunità che rischia di perdere il suo ultimo pub. Anche per questo la loro progressiva decadenza viene discussa con tanto fervore a livello nazionale.
«Spesso pensiamo ai pub come all’ultimo baluardo in una lotta contro la fatica del lavoro e la complessità della vita moderna. Il pub è un luogo dove proiettiamo la nostra visione preferita del Regno Unito: estroversa, amichevole, sempre pronta a scherzare, con gli occhi umidi di commozione per la tradizione. Il genere di paese che si è già bevuto tre boccali di birra e ha comprato un sacchetto di patatine da lasciare aperto sul tavolo in modo che chiunque possa prenderle, se vuole», ha scritto di recente il giornalista Tom Nicholson. Aggiungendo: «Peccato che la rabbia e la tristezza che di solito accompagnano la chiusura dell’ennesimo pub non coincidano con l’entusiasmo di andarci davvero, al pub, evitando così che un altro pub muoia».