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  • Martedì 30 aprile 2024

C’è un “caso Ariston” tra Italia e Russia

Il governo russo ha trasferito la gestione della filiale dell'azienda italiana a Gazprom, e quello italiano ha protestato e convocato l'ambasciatore russo, anche se non c'è molto che possa fare

L'ambasciatore russo Alexei Paramonov ospite in una trasmissione televisiva
L'ambasciatore russo Alexei Paramonov ospite in una trasmissione televisiva (Mauro Scrobogna /LaPresse)
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Lunedì il governo italiano ha convocato alla Farnesina, la sede del ministero degli Esteri, l’ambasciatore russo a Roma Alexei Paramonov. La convocazione serviva per discutere la decisione con cui il governo russo ha trasferito la gestione di Ariston Thermo Rus, la filiale della società italiana Ariston attiva in Russia, a Gazprom Household Systems, società produttrice di elettrodomestici gestita dall’azienda energetica statale russa Gazprom.

La decisione del governo russo è stata presa venerdì ed è stata resa possibile da un decreto firmato nell’aprile del 2023 dal presidente russo Vladimir Putin, che prevede la possibilità di trasferire ad aziende russe la gestione di società che provengono da paesi ritenuti «ostili». Benché sia formalmente un «trasferimento temporaneo», quella di Ariston è di fatto un’espropriazione: finora nessuna delle aziende che ha subìto questo provvedimento è stata restituita e una – la francese Danone – è stata costretta a vendere. È la prima volta, però, che succede a un’azienda italiana (benché Ariston abbia sede legale nei Paesi Bassi), e ciò ha creato una certa agitazione nel governo e nel settore imprenditoriale.

Secondo i giornali italiani, la discussione alla Farnesina tra il segretario generale del ministero degli Esteri Riccardo Guariglia e l’ambasciatore russo Paramonov è stata inconcludente.

L’Italia ha chiesto al governo russo di revocare il provvedimento e restituire la gestione della filiale di Ariston ai suoi proprietari, ma l’ambasciatore, in una nota pubblicata sulla pagina Facebook della sua ambasciata, ha scritto che le misure contro Ariston «sono state adottate nel quadro giuridico e sono state intraprese in risposta alle azioni ostili e contrarie al diritto internazionale degli Stati Uniti e degli stati stranieri», e che la responsabilità «ricade interamente sulle autorità italiane, che hanno sacrificato i loro reali interessi nazionali preferendo partecipare ad avventure geopolitiche antirusse pericolose e senza speranza».

Il riferimento è al sostegno del governo italiano alla resistenza dell’Ucraina. Più nello specifico, tuttavia, una delle ipotesi circolate in questi giorni è che Ariston sia stata colpita per minacciare il governo italiano, che in queste settimane discuterà con i colleghi del G7 se sequestrare gli asset finanziari russi bloccati nelle banche europee. Questi fondi ammontano a 300 miliardi di dollari e potrebbero essere trasferiti alla difesa dell’Ucraina.

Ariston opera in Russia dal 1995, e la sua filiale, Ariston Thermo Rus, gestisce uno stabilimento di produzione di boiler e scaldabagno elettrici a Vsevolozhsk, a nordest di San Pietroburgo. Ha inoltre uffici a Mosca, con decine di dipendenti. Le attività di Ariston in Russia valgono circa il 3 per cento del fatturato del gruppo.

Non è chiaro cosa succederà adesso, né cosa potrebbe fare il governo italiano, che ha espresso «forte disappunto». Il governo ha annunciato che si coordinerà con i propri partner, sia all’interno dell’Unione Europea sia all’interno del G7. Inoltre si sta tenendo in contatto con la dirigenza di Ariston e con Confindustria, valutando nel frattempo misure per proteggere le aziende italiane da future ritorsioni russe.

Al tempo stesso, però, finora nessuno degli altri paesi occidentali le cui aziende sono state colpite da provvedimenti simili ha potuto fare molto per rispondere o proteggersi. I casi più noti – per i quali è stato utilizzato lo stesso provvedimento legale che ha riguardato Ariston – sono quelli delle filiali russe dell’azienda alimentare francese Danone e del birrificio danese Carlsberg, la cui gestione nel luglio del 2023 era stata messa «temporaneamente» sotto il controllo dello stato russo. Mesi dopo, la Russia aveva ritirato il provvedimento nei confronti di Danone, ma soltanto perché l’azienda aveva accettato di vendere tutti i suoi asset a un imprenditore vicino al Cremlino con uno sconto eccezionale e subendo grosse perdite.

Tra i casi di Ariston e quelli di Danone e Carlsberg c’è una differenza: le filiali delle aziende francese e danese erano state trasferite sotto l’amministrazione di Rosimushchestvo, che è l’Agenzia federale per la gestione delle proprietà statali. Al contrario, Ariston (e la filiale dell’azienda tedesca di utensili Bosch, sottoposta a un provvedimento analogo) è stata messa sotto l’amministrazione di una società del gruppo Gazprom, che è sempre un’azienda statale ma non è un’agenzia del governo e ha una gestione separata. Non è chiaro però che implicazioni possa avere questa differenza di trattamento.

La sede di Gazprom a San Pietroburgo

La sede di Gazprom a San Pietroburgo (AP Photo/Dmitri Lovetsky)

Il fatto che Ariston sia la prima azienda italiana per la quale è stato deciso questo genere di provvedimento è comunque notevole, perché dopo l’invasione russa dell’Ucraina il sistema imprenditoriale italiano era stato uno dei più cauti e attendisti nei confronti della Russia.

Secondo un noto studio dell’Università di Yale, che ha tracciato la posizione nei confronti della Russia di migliaia di aziende internazionali, dall’inizio della guerra più di mille aziende da tutto il mondo (quasi tutte occidentali) hanno lasciato la Russia, per protestare contro l’invasione dell’Ucraina o perché costrette. Tra paese e paese, però, le differenze sono notevoli: il 32 per cento delle aziende statunitensi presenti in Russia ha lasciato il paese, così come il 10,6 per cento delle aziende britanniche, il 7,8 delle tedesche e il 4,8 delle giapponesi. Ma soltanto l’1,4 per cento delle grandi aziende italiane ha fatto lo stesso.

Questo vale anche per Ariston: l’azienda nel 2022 aveva annunciato la sospensione di tutti gli investimenti in Russia, tranne quelli legati alla sicurezza sul lavoro, ma aveva anche detto che non avrebbe lasciato il paese per proteggere i propri investimenti e i posti di lavoro dei suoi 200 dipendenti russi. Nonostante questo, l’Università di Yale continua a catalogarla come una delle aziende rimaste completamente attive in Russia, che ha continuato a operare nel paese durante tutto il corso della guerra e ha anche mantenuto aperte le assunzioni.

Secondo i critici, le aziende che rimangono operative in Russia – e che dunque pagano le tasse allo stato russo e contribuiscono al buon andamento dell’economia del paese – pur senza violare nessuna legge stanno di fatto contribuendo alla macchina bellica del regime di Vladimir Putin. Anche per questo, soprattutto nei primi mesi dopo l’invasione, si è sviluppato un ampio dibattito su che atteggiamento le aziende occidentali avrebbero dovuto adottare in Russia. Alla fine le strategie adottate sono state di fatto tre.

La prima è stata interrompere le proprie attività nel paese. Soprattutto nel 2022, centinaia di aziende occidentali avevano lasciato la Russia, tra enormi perdite: i loro beni e le loro proprietà erano state immediatamente espropriate e trasferite a imprenditori locali. Il caso più noto è la catena di ristoranti McDonald’s, che aveva interrotto le sue attività in Russia a metà 2022 e i cui 850 ristoranti erano stati subito consegnati a un oligarca vicino a Putin.

Altre aziende hanno provato a vendere le proprie attività piuttosto che rischiare di perderle, ma la legge russa, approvata nel corso della guerra, prevede condizioni estremamente svantaggiose: obbliga i venditori a scontare il valore dei propri beni del 50 per cento, e di fornire ulteriori contributi allo stato.

Anche per questo, pur di proteggere i propri affari, tantissime aziende occidentali alla fine hanno continuato a operare in Russia, nella speranza che sarebbero state lasciate in pace. Nemmeno loro, tuttavia, sono al sicuro dalla volontà di esproprio dello stato russo, come mostra il caso di Ariston. Le aziende italiane che operano ancora in Russia sono circa 400.