Negli Stati Uniti la religione influenza ancora la politica
Le tante fedi, per lo più protestanti, sono radicate nella società e possono cambiare le dinamiche elettorali di un paese storicamente laico
Il primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti vieta al governo di imporre una religione di stato e di proibire il libero esercizio della fede, due princìpi che permettono a molte fedi di convivere in un paese dove stato e Chiesa sono rigidamente separati. Allo stesso tempo il prossimo 20 gennaio, durante la cerimonia di insediamento, il presidente degli Stati Uniti giurerà di difendere la Costituzione scegliendo di mettere una mano sulla Bibbia e pronunciando la formula di rito: «So help me God», «Che Dio mi aiuti». Negli Stati Uniti il rapporto con la religione è più intenso e pervasivo rispetto a molti altri paesi del mondo occidentale, e ancora oggi la fede influenza non solo la società, ma anche la politica.
A partire dal 1865 tutti i presidenti statunitensi si sono identificati come cristiani, oltre otto cittadini su dieci dichiarano di credere nell’esistenza di Dio e il 68 per cento di chi si definisce cristiano dice che la religione ha una «grande importanza» nella sua vita: il dato mediano nei paesi dell’Europa occidentale è del 14 per cento.
Dio non compare nella Costituzione degli Stati Uniti, ma è praticamente ovunque altrove: il motto “In God we trust” (“Crediamo in Dio”) è stampato su tutte le banconote, e vari riferimenti a Dio compaiono nella Dichiarazione d’indipendenza del 1776, nel testo del giuramento sulla bandiera e in molti discorsi pubblici, che vengono chiusi con la formula “God bless America”, “Dio benedica l’America”. Esiste un’approfondita e argomentata serie di studi su come molta parte delle cerimonie e dei simboli istituzionali statunitensi costituisca una «religione civile», generata anche dal desiderio originario di dare sacralità a una giovane nazione fondata sulla separazione tra stato e Chiesa.
La religione prevalente è di gran lunga quella cristiana, praticata da oltre il 70 per cento della popolazione. Meno del 2 per cento degli statunitensi è di religione ebraica, e meno dell’uno per cento rispettivamente musulmano, buddista o induista. Gli Stati Uniti sono oggi il paese con più cristiani (e più protestanti) al mondo. I censimenti ufficiali non fanno domande sul tema della religione, ma poco meno del 30 per cento degli statunitensi risponde ad altri sondaggi dicendo di non riconoscersi in alcuna confessione, e solo quattro su cento si dichiarano atei, contro per esempio il 21 per cento in Francia e il 13 per cento nel Regno Unito.
La maggioranza cristiana non è omogenea ma si divide in una serie di chiese e confessioni diverse, alcune importate secoli fa dagli immigrati europei, altre nate in terra statunitense. Il protestantesimo è maggioritario, con oltre la metà dei fedeli, ma si organizza almeno in tre grossi gruppi: le chiese evangeliche, le chiese protestanti principali e le chiese protestanti storiche della comunità afroamericana.
Il legame con la religione è evidente fin dalle prime fasi della colonizzazione degli Stati Uniti. I fondatori di una delle prime colonie americane, la colonia di Plymouth, scapparono dal Regno Unito tra le altre cose per fuggire alle persecuzioni religiose: facevano parte di un gruppo protestante puritano che non riconosceva l’autorità religiosa del re d’Inghilterra. Questi primi coloni sono tuttora ricordati dalla tradizione come Padri Pellegrini, per rimarcare la natura religiosa del loro arrivo negli Stati Uniti. Da quel momento, la possibilità di professare liberamente la propria fede divenne una ragione di attrattiva per le persone che arrivavano nelle nuove colonie.
Il protestantesimo principale, anche detto storico o “del patrimonio”, è costituito dalle Chiese eredi di quelle dei primi coloni: i puritani inglesi in Massachusetts, i quaccheri in Pennsylvania, gli anglicani in Virginia, presbiteriani, metodisti, battisti, episcopali e luterani in tutto il nord-est. Erano confessioni protestanti importate da diverse parti d’Europa, che hanno poi avuto evoluzioni specifiche negli Stati Uniti. Oggi quelle con più fedeli sono la metodista, la battista, la luterana e la presbiteriana: semplificando molto, ognuna ha una dottrina specifica e si concentra su aspetti particolari della fede, come la carità (metodista), il battesimo (battista), la lettura delle Scritture (presbiteriana) o la comunione (luterana). Nessuna ha una diffusione particolarmente ampia – sono praticate ognuna all’incirca dal 3 per cento degli statunitensi – ma alcune di queste confessioni sono ampiamente sovrarappresentate fra le fasce più istruite, ricche e potenti della popolazione.
Molte delle famiglie statunitensi storicamente più potenti erano episcopali e presbiteriane, tra cui i Vanderbilt, gli Astor, i Rockefeller e i Forbes. Fino agli anni Settanta il 72 per cento dei vincitori dei premi Nobel statunitensi veniva da famiglie del protestantesimo principale, e molte delle università americane più note e prestigiose, fra cui Yale, Harvard, Princeton, Columbia e Duke, furono fondate da gruppi afferenti a queste confessioni religiose. Per tutto il Ventesimo secolo sono state espressione dell’élite dominante bianca negli Stati Uniti, a cui ancora oggi ci si riferisce con l’acronimo WASP, che significa “bianchi anglosassoni protestanti” (White Anglo-Saxon Protestants). Sebbene il numero di fedeli stia man mano diminuendo, questi gruppi religiosi continuano a mantenere una certa influenza sul potere economico e politico del paese.
Oggi il gruppo con più fedeli è quello evangelico. L’evangelicalismo non prevede autorità religiose e non richiede di essere professato in chiese consacrate: è un movimento teologico che si concentra sulla lettura della Bibbia, che non deve essere interpretata ma considerata come “parola di Dio” e per questo insindacabile. Rifiuta ogni sovrastruttura teologica ed è molto focalizzato sul concetto di conversione personale, interpretato come una rinascita: i suoi fedeli sono soliti definirsi “reborn” (“rinati”), e in alcuni casi giustificano atteggiamenti aggressivi e verbalmente violenti nei confronti di chi non condivide i loro ideali.
Il movimento evangelico crebbe notevolmente durante il cosiddetto “Secondo grande risveglio”, un periodo di inizio Ottocento durante il quale il numero dei fedeli cristiani statunitensi aumentò molto. Fino ad allora gli Stati Uniti non erano un paese particolarmente religioso, ma il successo di predicatori, chiese e pastori portò alla nascita di molte confessioni evangeliche: ogni persona dotata di carisma poteva diventare un pastore, e ogni sala poteva svolgere le funzioni di una chiesa. Gli evangelici predicavano ugualmente agli schiavi e agli schiavisti, e anzi furono per tutto il secolo portatori di istanze progressiste sui temi della schiavitù, dei diritti delle donne, della riforma del sistema scolastico e della giustizia.
Dopo la Seconda guerra mondiale però la gran parte delle Chiese evangeliche cominciò a spostarsi su posizioni molto conservatrici e vicine alla destra, concentrandosi a livello politico sull’opposizione all’aborto, ai movimenti LGBTQ+, al femminismo e genericamente alle droghe, criminalizzate in ogni forma e in ogni genere di consumo. Dagli anni Cinquanta le chiese evangeliche raggiunsero grandi dimensioni, si organizzano e sfruttarono il nuovo mezzo della televisione per farsi conoscere e aumentare la loro influenza.
Oggi le chiese evangeliche tradizionali si dividono in numerose confessioni, ma il numero di fedeli sta diminuendo a favore di un approccio più personale alla religione, promosso anche da alcuni predicatori diventati molto noti grazie alle loro attività online. Molti dei nuovi evangelici non frequentano luoghi fisici, ma ascoltano sermoni e podcast online, e vivono l’evangelicalismo come appartenenza politica a un’idea di mondo molto conservatrice che si sente sotto attacco da una società descritta come dominata da istanze progressiste.
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Le Chiese storiche afroamericane furono invece fondate nell’Ottocento principalmente dagli schiavi liberati, e cominciarono la loro attività nel lungo periodo di segregazione razziale che segnò la storia degli Stati Uniti sia prima che dopo l’abolizione della schiavitù, avvenuta formalmente nel 1865. Molti degli schiavi portati forzatamente negli Stati Uniti dall’Africa erano musulmani, ma nel corso di un paio di generazioni si convertirono al cristianesimo. Le Chiese afroamericane protestanti spesso ricalcano le confessioni di quelle protestanti principali, ma seguono riti basati sulla formula della “chiamata e risposta”, un’interazione fra pastore e fedeli a cui a una frase del primo segue una risposta in coro dei secondi. A volte la pratica è musicale, e nel tempo ha dato vita al genere della musica gospel. Soprattutto negli anni Sessanta le Chiese afroamericane ebbero anche importanti funzioni sociali: rispondevano alle necessità dei fedeli e cercavano di aiutarli non solo economicamente, ma anche con iniziative legate all’istruzione e alla consapevolezza politica, e ottennero un ruolo fondamentale nei movimenti di lotta per i diritti civili.
Si riconosce nella Chiesa cattolica circa il 20 per cento della popolazione statunitense, con concentrazioni più alte negli Stati del nord-est storicamente caratterizzati da una forte immigrazione irlandese o italiana, e più recentemente in quelli del sud (per esempio in California, New Mexico, Texas e Florida) come risultato dell’immigrazione messicana e sudamericana. Pur rispondendo al Vaticano e alle gerarchie romane, la Chiesa cattolica statunitense ha organizzato una propria struttura, considerata più conservatrice rispetto alle posizioni dell’attuale papato, con cui non di rado si scontra. Negli ultimi vent’anni è stata al centro di numerosi scandali a causa delle accuse di pedofilia avanzate nei confronti di alcuni suoi sacerdoti, e dei tentativi delle autorità ecclesiastiche locali di nasconderle.
Ma la quasi totale libertà religiosa ha permesso nel corso dei secoli lo sviluppo di comunità religiose fra le più diverse, e con regole sociali proprie, come gli amish, che rifiutano quasi totalmente la tecnologia e parlano il tedesco come prima lingua, oppure come i fondamentalisti mormoni, che ammettono la poligamia maschile. I culti religiosi nati espressamente negli Stati Uniti sono numerosi e vari: spesso sono comunità molto coese e chiuse verso l’esterno, che a volte si contrappongono apertamente al resto della società, creando una forte tensione di origine religiosa.
Come molte delle società occidentali, anche quella americana sta vivendo però negli ultimi decenni una parziale secolarizzazione: secondo vari studi ogni anno negli Stati Uniti chiudono fra le 6mila e le 10mila chiese, che vengono demolite oppure si trasformano in appartamenti, negozi o spazi pubblici. La diminuzione del numero di fedeli è dovuta principalmente a un calo della partecipazione organizzata e comunitaria, mentre la fede e gli interessi religiosi restano importanti a livello personale.
È una tendenza riconducibile a vari fattori. Secondo un’analisi dell’Economist c’entra l’età dei fedeli, che sta aumentando notevolmente: nel 2023 la maggior parte delle persone che si identificavano come cristiane aveva più di cinquant’anni, e un terzo più di 65 anni, mentre solo 1 fedele su 10 aveva meno di trent’anni. Inoltre oggi molte persone nascono in famiglie tradizionalmente religiose, ma decidono poi di non praticare la fede che è stata insegnata loro da bambini. Al contrario, solo il 20 per cento delle persone che nascono in famiglie non religiose decide autonomamente di convertirsi. Anche le differenze geografiche sono rilevanti, e alcune aree del paese sono storicamente più religiose di altre. Per esempio la zona sudorientale degli Stati Uniti, che va dall’Oklahoma e dall’Arkansas fino alla Florida, viene definita Bible belt (“cintura della Bibbia”) proprio a causa della forte influenza che la religione ha da tempo sulla società e sulla politica.
Negli Stati Uniti stato e Chiesa sono due entità separate, ma alcuni stati hanno provato ad aggirare la regola chiedendo ai candidati di affermare per lo meno che Dio esista. La Costituzione del Texas, per esempio, vieta di escludere una persona da un incarico istituzionale a causa della sua appartenenza religiosa, ma richiede comunque alle persone che ricoprono incarichi pubblici di «riconoscere l’esistenza di un essere supremo». Anche in Tennessee è in vigore una legge simile, così come in South Carolina, North Carolina, Mississippi, Maryland e Arkansas, tutti stati particolarmente conservatori.
Più in generale, la religione è un fattore che da tempo condiziona la vita politica e sociale degli Stati Uniti: uno dei temi più divisivi e più centrali delle contrapposizioni, l’aborto, ha a che fare con la natura religiosa di una delle posizioni. Solo pochi anni fa ci furono grandi confronti su darwinismo e creazionismo. Ma al tempo stesso l’autonomia dalle religioni si manifesta nelle libertà avanzate su diritti di riproduzione, matrimoni tra persone dello stesso sesso, liberalizzazione delle droghe leggere. Nell’attuale Congresso il 99 per cento dei Repubblicani e il 78 per cento dei Democratici si riconoscono come cristiani. Nella storia ci sono stati solo quattro rappresentanti alla Camera di fede musulmana, di cui tre attualmente in carica, e tutti sono stati eletti con il partito Democratico. Quasi tutti i presidenti della storia statunitense furono cristiani protestanti, con una prevalenza di episcopaliani e presbiteriani, mentre Richard Nixon e Herbert Hoover erano quaccheri.
I soli presidenti di fede non protestante sono John Fitzgerald Kennedy e l’attuale presidente Joe Biden, mentre gli unici due presidenti “non affiliati” ad alcuna confessione religiosa furono eletti nel Diciannovesimo secolo: Abraham Lincoln, in carica tra il 1861 e il 1865, e Thomas Jefferson (1801-1809). Lincoln veniva considerato un deista, una concezione religiosa che contempla l’esistenza di un essere supremo ma rifiuta qualsiasi dogma, testo sacro o autorità religiosa. Jefferson invece non riconosceva la figura religiosa di Gesù Cristo: al tempo questo non fu un ostacolo decisivo per la sua elezione, mentre oggi le sue posizioni sulla religione potrebbero essere non altrettanto tollerate da una parte dell’elettorato.
Tutti i sondaggi sottolineano infatti che gli elettori americani considerano “più affidabile” un candidato che mostri una solida fede religiosa, mentre il 40 per cento dichiara che non voterebbe mai per un candidato ateo, chiunque esso sia. A partire dagli anni Settanta i candidati alla presidenza hanno iniziato a parlare con costanza della propria fede religiosa, che è diventata un fattore importante all’interno delle campagne elettorali. Gli storici hanno interpretato questa tendenza come una risposta alla crescente secolarizzazione avvenuta negli anni Sessanta, grazie ai movimenti giovanili e studenteschi a favore dei diritti civili e dell’accesso all’aborto, oltre che a una crescente separazione fra la sfera pubblica e quella religiosa, con l’abolizione delle preghiere nelle scuole pubbliche e di tutte le festività religiose a livello federale, tranne il Natale.
In risposta a questi movimenti, considerati lontani da molti elementi tipici della religione, negli anni Ottanta emerse una destra religiosa molto potente i cui interventi, fondi e capacità di mobilitazione furono decisivi per l’elezione dei presidenti Repubblicani Ronald Reagan, George H.W. Bush e il figlio George W. Bush. In quest’ambito è risultata fondamentale l’opera di Moral Majority, un movimento della destra cristiana fondato nel 1979 dal battista Jerry Falwell che contribuì a spingere vari movimenti protestanti verso posizioni sempre più vicine al partito Repubblicano.
Nelle elezioni presidenziali del 2004 uno dei principali fattori di debolezza del candidato Democratico John Kerry (che perse contro George W. Bush, in corsa per il secondo mandato) fu individuato proprio nella sua percepita “scarsa religiosità”. Kerry è ufficialmente cattolico, ma tendeva a parlare poco di temi religiosi e venne percepito quasi come ateo, soprattutto fra gli elettori che indicavano i “valori morali del candidato” tra i motivi principali della propria scelta.
Secondo molte analisi questo finì col condizionare non solo la campagna di Kerry, ma anche la strategia adottata dai successivi candidati Democratici: Barack Obama e Hillary Clinton parlarono molto di fede, soprattutto cercando di proporre un’idea di Cristianesimo differente da quella fortemente conservatrice che spesso viene presentata come dominante. Durante la campagna elettorale del 2015, per esempio, i media parlarono molto di un lungo scambio intercorso tra Clinton (che poi perse contro il Repubblicano Donald Trump) e un reverendo del South Carolina che stava leggendo la Bibbia in una panetteria: Clinton entrò casualmente nel locale e si mise a parlare con il reverendo, mostrando di conoscere alcuni passaggi dei testi sacri e in generale parlando a lungo della sua fede metodista, un’espressione del protestantesimo.
La religione ebbe un ruolo importante anche nelle elezioni presidenziali del 2012, vinte da Obama contro il Repubblicano Mitt Romney, che è di religione mormona: si tratta di un culto cristiano fondato sugli insegnamenti del profeta Joseph Smith, un uomo statunitense di inizio Ottocento che disse di aver ricevuto per rivelazione il Libro di Mormon, ancora oggi considerato un testo sacro dai mormoni, insieme alla Bibbia. Il mormonismo rifiuta il concetto di trinità divina, considerando padre, figlio e spirito santo come entità separate, e interpreta la rivelazione cristiana come un processo continuo che si concluderà con il ristabilimento del Regno di Dio sulla terra. I mormoni oggi rappresentano circa l’1,6 per cento della popolazione statunitense e sono presenti soprattutto nello Utah, in California e in Idaho. Secondo gli analisti identificarsi come mormone fu un problema per Romney, e allontanò molti elettori sia di destra che di sinistra.
La religione è presente anche nella campagna elettorale per le presidenziali del 2024. Molti comizi di Trump, per esempio, iniziano con un video intriso di retorica biblica nei quali Trump è presentato come una sorta di difensore dei valori cristiani, messi in pericolo da presunte «forze interne alla nazione che vogliono allontanare gli Stati Uniti dai propri valori tradizionali». La sua rielezione è presentata come una battaglia fra il “bene” e il “male”, identificato nei Democratici e nelle loro istanze secolarizzatrici e progressiste nell’ambito dei diritti civili, una concezione presente anche nelle prediche online dei cristiani evangelici.
Trump è cresciuto come presbiteriano, ma dal 2020 si riconosce come cristiano aconfessionale, una definizione spesso associata all’evangelicalismo. È oggi percepito dalla gran parte dei sostenitori dei Repubblicani come un “uomo di fede”, nonostante partecipi raramente alle funzioni religiose e abbia un passato per molti versi lontano dai valori cristiani: tra le altre cose ha divorziato due volte e avuto diverse relazioni extraconiugali.