Carrara non riesce a liberarsi dal mito del marmo

Da sempre la città toscana si identifica con le cave che, nonostante non diano più lavoro come un tempo, continuano a sfruttare le Alpi Apuane senza tanti limiti

di Isaia Invernizzi

Una delle zone di estrazione delle cave di Carrara
Una delle zone di estrazione delle cave di Carrara (il Post)

Da lontano la ruspa che carica scaglie di marmo bianco sul camion sembra piccola, quasi un giocattolo. Avvicinandosi diventa grande, a poche decine di metri è enorme. Nella cabina un uomo la manovra con un joystick, ogni giorno sposta tonnellate di marmo senza troppa fatica, immerso in nuvole di polvere bianca. A Carrara, in Toscana, l’epica dei cavatori che sfidavano la montagna si è via via persa, sorpassata dalla tecnologia e dai cambiamenti nel settore. La maggior parte dei blocchi viene lavorata e tagliata all’estero a costi irrisori, e il potere è concentrato tra poche grandi aziende così come i profitti dell’attività estrattiva. Le conseguenze, invece, sono di tutti: i residui della lavorazione del marmo inquinano i fiumi e le falde acquifere, le Alpi Apuane si consumano.

I proprietari delle cave dicono che chi è contro le cave è contro il lavoro: si oppongono con decisione ai tentativi pur timidi di limitare le escavazioni intensive, da almeno due decenni considerate non rispettose dell’ambiente da istituzioni e associazioni locali e nazionali. Costringere la popolazione di Carrara a scegliere tra ambiente e lavoro è un ricatto occupazionale che dura da anni e che è sempre stato efficace in un territorio con un bisogno urgente di posti di lavoro, soprattutto per i giovani.

Ma le cose sono cambiate rispetto al passato. Negli anni venti del Novecento al monte lavoravano ventimila persone, ora ne sono rimaste circa seicento e continuano a diminuire, mentre gli affari delle cave aumentano. Eppure, nonostante ci sia una più diffusa consapevolezza del fatto che le Alpi Apuane siano una risorsa finita e che andrebbero preservate limitando l’attività estrattiva, Carrara continua a rimanere “ostaggio” del mito del marmo.

Carrara insieme alla vicina Massa si trova nella parte nord della Toscana. Il suo territorio parte dalla montagna e arriva fino al mare, non è molto distante dalla Liguria né dal confine con l’Emilia. Le cave sono visibili dall’autostrada lungo la costa tirrenica, macchie bianche tra il marrone più scuro delle Apuane. Qui da due millenni gli abitanti – ora poco più di 60mila – subiscono il fascino del marmo. Le prime cave risalgono al I secolo avanti Cristo: all’epoca si estraeva con attrezzi rudimentali, per lo più picconi e piccozze, con un grande dispendio di tempo e di energie.

Servivano settimane per ottenere un piccolo blocco del celebre “marmo di Carrara” che già più di duemila anni fa era considerato il più pregiato al mondo, il più bianco e con la grana più fine. Chi scopre una vena di marmo chiamato statuario, il più ambito tra marmi già molto ambiti, fa la sua fortuna: di colore bianco brillante e con poche venature grigie, da sempre viene utilizzato per realizzare statue. Carrara è conosciuta soprattutto per il marmo bianco e per lo statuario, ma nelle cave si estraggono molte altre qualità come il calacatta e l’arabescato.

Una cava dismessa

Una cava dismessa (il Post)

L’unicità del marmo di Carrara ha permesso alle cave di continuare a prosperare mentre nel resto d’Italia molte miniere e cave venivano gradualmente dismesse e abbandonate.

Nella seconda metà del Novecento lo sviluppo della tecnologia rese tutto più semplice. Negli anni Venti dai picconi si passò all’esplosivo, poi al filo elicoidale e infine al filo diamantato, utilizzato dalla fine degli anni Settanta. Il filo diamantato è un lungo cavo di metallo a cui vengono applicate perle di diamante sintetico, piccole e dure. Scorre sul marmo con uno stridio riconoscibile e fastidioso, taglia qualsiasi cosa molto velocemente. Se prima si tagliava mezzo metro quadrato di marmo ogni ora, con il filo diamantato si arriva a 18 metri quadrati e oltre, 36 volte di più. La diffusione del filo diamantato ha avuto diversi effetti: ha causato una drastica riduzione della manodopera impiegata nelle cave, ha migliorato le condizioni di lavoro e la sicurezza, e soprattutto ha contribuito all’aumento della quantità di marmo estratto ogni anno. Negli ultimi trent’anni dalle cave di Carrara è stato estratto più marmo che nei duemila anni precedenti.

Dagli anni Novanta, poi, la globalizzazione delle merci e lo sviluppo dei trasporti e della logistica fecero crescere la domanda di marmo sul mercato internazionale. Diventò più semplice spostare e trasportare le lastre o addirittura interi blocchi nei paesi asiatici dove il marmo viene lavorato a costi inferiori rispetto all’Italia. I margini di guadagno nei passaggi tra l’estrazione e la vendita divennero enormi.

Un addetto segna un blocco di marmo nella cava Cima di Gioia nel 1955

Un addetto segna un blocco di marmo nella cava Cima di Gioia nel 1955 (Keystone/Getty Images)

Ma le cave iniziarono ad allargarsi e a essere sfruttate in modo intensivo anche per un’altra ragione. L’industria si rese conto che il composto di cui è fatto il marmo, il carbonato di calcio, poteva essere utilizzato per moltissime cose: nella produzione di cemento, in agricoltura, nell’industria alimentare e nella cosmetica, nelle cartiere e perfino nei dentifrici come sbiancante. Da un’estrazione di qualità, lenta e definita «eroica», si passò in poco tempo a una produzione di quantità, meno legata al territorio e alla storia di Carrara.

Per secoli la maggiore difficoltà per i cavatori di Carrara era stata estrarre grandi e pesanti blocchi, poi all’improvviso il mercato iniziò a chiedere detriti e scaglie, a tonnellate. Secondo i dati dell’osservatorio “Ambiente e Legalità” dell’associazione Legambiente, ora solo l’1% del marmo di Carrara è utilizzato per realizzare statue e opere d’arte. Il 20% finisce sul mercato sotto forma di lastre, piani cucina, piastrelle, pietre ornamentali. Tutto il resto, circa il 75% di tutto il marmo estratto, viene ridotto in polvere per diventare carbonato di calcio.


Negli ultimi anni geologi, sociologi e attivisti di molte istituzioni pubbliche, associazioni ambientaliste e collettivi hanno studiato lo sviluppo incontrollato delle cave dovuto in buona parte all’industria del carbonato di calcio. Nei dibattiti – il più recente è stato organizzato lo scorso 16 dicembre, insieme a una manifestazione intitolata “Le montagne non ricrescono” – la parola estrazione è stata sostituita da estrattivismo, una definizione con un significato più esteso e più politico: con estrattivismo si definisce lo sfruttamento e la depredazione di un territorio in nome della crescita economica, senza rispetto per l’ambiente e per le persone che lo vivono.

«Ci sono elementi comuni in tutti i luoghi dove domina l’estrattivismo, in Sudamerica come a Carrara», dice Nico, un attivista del collettivo Athamanta, nato nel 2020 tra Carrara e Massa per sensibilizzare la popolazione sulle conseguenze ambientali dell’attività estrattiva: Athamanta è il nome di un fiore endemico delle Alpi Apuane, la cui sopravvivenza è messa in pericolo dall’estrazione del marmo. «Questi elementi sono l’alto impatto ambientale e sulle acque, le infiltrazioni della criminalità organizzata, un forte impatto sociale, il ricatto occupazionale. Ci viene ripetuto che “il marmo è il pane”: ormai non è più così».

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Basta alzare gli occhi in alto dai ponti di Vara, nella zona di Fantiscritti poco sopra Carrara, per rendersi conto di come le cave abbiano ridotto le montagne: le hanno scavate all’esterno e all’interno con lunghe gallerie alla ricerca dei filoni di marmo più remunerativi. In altre zone le ruspe hanno letteralmente abbassato le Alpi Apuane. Il picco di Falcovaia, nel comune di Seravezza, è un ex monte: la sua cima è stata spianata. Da lontano sembra un’enorme pista di atterraggio per elicotteri.

Il picco di Falcovaia

Il picco di Falcovaia (Apuane Libere)

Secondo un censimento del centro di geotecnologie dell’università di Siena, sulle Apuane ci sono 165 cave attive e 510 dismesse. Carrara è il comune italiano con il maggior numero di cave attive, 73. Un centinaio di queste cave è compreso nei confini del parco naturale regionale delle Alpi Apuane istituito nel 1985.

Il parco, come tutti i parchi regionali, dovrebbe tutelare la montagna e impedire qualsiasi tipo di sfruttamento della natura; in realtà le regole sono lasche e in passato sono già state ritoccate all’occorrenza. Nel 1997 il perimetro del parco venne ridotto di circa 200 chilometri quadrati per tutelare le aziende. Le cave vennero chiamate ACC, aree contigue di cava, cioè attività dentro i confini del parco che non devono rispettarne le regole. Un altro esempio: la cosiddetta legge “Galasso” del 1985 vieta di scavare sugli Appennini a oltre 1.200 metri di altezza, eppure sulle Apuane le cave arrivano fino a 1.600 metri.

Le associazioni ambientaliste dicono anche che in pochi rispettano le leggi perché i controlli sono scarsi. Le guardie del parco sono solo quattro, l’agenzia regionale per la protezione ambientale (ARPAT) ha poco personale. L’azienda sanitaria si occupa solo di incidenti sul lavoro.

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Il territorio è già di per sé difficile da controllare, esteso, inospitale, con lunghe strade tortuose che portano alle cave. Ci si può accorgere dell’arrivo di un fuoristrada da una certa distanza e non serve installare telecamere. «Su alle cave, venendo specificamente ai rifiuti, c’è tutto», disse nel 2017 Aldo Giubilaro, all’epoca procuratore di Massa e Carrara, durante un’audizione della commissione parlamentare di inchiesta sui rifiuti. «Tranne gli omicidi volontari c’è ogni cosa, quindi anche il problema dei rifiuti, in questo caso direi particolarmente grave e delicato».

L'indicazione per le cave

(il Post)

Di fatto buona parte dell’attività estrattiva, del rispetto delle regole e dei piani di estrazione si basa sulla fiducia nei confronti dei proprietari delle cave. Secondo diverse stime ogni anno si estraggono circa 3 milioni di tonnellate di marmo. La maggior parte viene venduta all’estero, soprattutto in Arabia Saudita.

I camion che trasportano i blocchi e le scaglie devono passare dalla pesa pubblica sulla strada che dalle cave porta a Carrara: in pratica devono pesare il mezzo e il carico su una grossa bilancia. Lo scorso dicembre il comune di Carrara ha avviato un osservatorio dei prezzi per tentare di misurare l’impatto diretto e indiretto delle cave sull’economia della città.

Secondo le aspettative della sindaca Serena Arrighi, grazie al nuovo strumento – con una serie di stime e schede merceologiche fatte per ogni cava – si potrà controllare meglio quanto marmo viene scavato e di quale qualità. «Noi dobbiamo vigilare sul rispetto delle normative, cercando di incentivare l’utilizzo di tecnologie per impattare meno sulla montagna», dice la sindaca. «È indubbio che il settore estrattivo ha un forte impatto: detto ciò, c’è una maggiore e più diffusa sensibilità ambientale tra gli abitanti e anche tra i proprietari delle cave. Abbiamo strumenti e potere per fare controlli: li facciamo, anche se poi il mondo del marmo è un mondo a sé».

Arrighi è abituata a misurare le parole perché si trova nella stessa scomoda situazione dei suoi predecessori. Da amministratrice pubblica deve tutelare un patrimonio naturale come la montagna dalle speculazioni, eppure il comune non può fare a meno delle cave, che sostengono il bilancio con generosi contributi: nel 2023 l’attività estrattiva ha assicurato quasi 26 milioni di euro, 5,7 milioni di euro grazie al sistema delle concessioni e 20,2 milioni sotto forma di contributo per la quantità di marmo estratto, un quinto di tutte le entrate del comune.

«Quanto vale la montagna? Così poco?», si chiede Alberto Grossi, referente dell’associazione Gruppo d’Intervento Giuridico. Le quotazioni del marmo vanno da circa 150 euro alla tonnellata per il meno pregiato fino a quasi 10mila euro alla tonnellata per il marmo statuario. «Il comune incassa meno di cinque euro per ogni tonnellata. I profitti ottenuti da un bene pubblico come la montagna vengono privatizzati, i pesanti costi ambientali invece ricadono su tutti», osserva Grossi.

Una cava dall'alto

Una cava dall’alto (il Post)

Il meccanismo escogitato da alcuni proprietari di cave per pagare meno tasse e contributi di escavazione è stato spiegato da Giovanni Fiumara, fino al 2018 comandante della Guardia di Finanza di Massa e Carrara. «Il gioco è molto semplice», disse Fiumara intervistato nel documentario Le crepe del marmo. «Se tu vai a prendere le ditte più importanti che sui loro siti hanno i marmi più belli e poi vai a vedere le loro fatture non c’è traccia di questo marmo: [sulle fatture] è tutto marmo scarso, blocchi deformi, informi, rovinati. C’è qualcosa che non quadra. Se tu dici che hai il marmo bello poi questo marmo bello a chi lo vendi, a nessuno?».

A complicare tutto, controlli compresi, c’è la questione dello status giuridico delle cave, contestato da secoli. In passato le cave, come le montagne, erano considerate un bene comune, terreni demaniali il cui sfruttamento era riservato agli abitanti. Tra il Diciassettesimo e il Diciottesimo secolo, tuttavia, il loro uso divenne confuso e opaco: molti cavatori iniziarono a sostenere di esserne proprietari per via degli investimenti fatti.

Nel 1751 Maria Teresa Cybo-Malaspina, duchessa di Massa e principessa di Carrara, provò per la prima volta a mettere ordine. Stabilì che chi lavorava da almeno vent’anni un pezzo di montagna avrebbe ottenuto una concessione gratuita e perpetua per la sua escavazione – i cosiddetti “beni estimati”, cioè iscritti nel registro degli estimi e considerati di fatto proprietà privata – mentre gli altri avrebbero dovuto lasciarne la gestione al ducato.

I beni estimati sono stati poi ereditati o venduti e sono sopravvissuti finora, anche nei frequenti casi di cessione delle cave a fondi finanziari internazionali. Molti degli attuali proprietari hanno comprato beni estimati e li considerano titoli validi per lo sfruttamento delle cave: non pagano nulla al comune, né alla Regione, né allo Stato. La ritengono cosa loro.

Tutti i ricorsi promossi finora dalle istituzioni – compreso il comune di Carrara – sono stati respinti. Ne manca ancora uno, presentato nel 2022 alla Corte di Cassazione e ancora in attesa di giudizio. Sull’area estrattiva del comune di Carrara i beni estimati costituiscono circa il 33 per cento della superficie totale. La parte restante, che rientra invece nei cosiddetti “agri marmiferi” comunali, è assegnata in base a concessioni.

Un'esplosione in una cava di marmo negli anni Sessanta

Un’esplosione in una cava di marmo negli anni Sessanta (ANSA ARCHIVIO)

Dove non sono arrivate le leggi europee sulla concorrenza è arrivata la Regione Toscana, che nel 2015 approvò una legge sulle cave con una serie di regole per controllare l’attività estrattiva. L’obiettivo iniziale della legge era limitare la produzione di detriti destinati a diventare carbonato di calcio e incentivare la produzione di blocchi, tenere il più possibile le lavorazioni del marmo a Carrara per limitare le esportazioni, introdurre concessioni più definite. In questo modo si sarebbe contenuta la deriva speculativa. Le trattative tra i partiti della maggioranza, tuttavia, furono lunghe e complicate e i proprietari delle cave fecero pressioni per allentare le regole.

Il risultato fu un compromesso che piacque a pochi. Nel 2014 Anna Marson, all’epoca assessora regionale all’Urbanistica della Toscana, disse di avere subito pesanti attacchi dalla “lobby delle imprese di cava”. «Attacchi odiosi con pagine a pagamento sui giornali che in altre regioni mi avrebbero costretto a girare con le guardie del corpo», disse Marson in un’intervista al Tirreno.

La proposta iniziale della regione fu stravolta. Furono aggiunte eccezioni che consentirono alle cave di continuare a estrarre e vendere più detriti che blocchi. Le concessioni furono allungate fino a 25 anni a patto che i proprietari si impegnassero a finanziare progetti “di interesse generale di tutela ambientale e di sistemazione idraulica”, compresi quelli al servizio delle stesse cave. In una delle modifiche più discusse venne inserito proprio il verbo «impegnarsi» per evitare di introdurre un obbligo: in questo modo basta un progetto o una certificazione per evitare le gare e allungare per oltre due decenni le concessioni in scadenza.


Sui muri accanto alle strade che portano alle cave si notano molte scritte. “Salviamo le Alpi Apuane” è una delle più ricorrenti. Le mobilitazioni degli ultimi dieci anni hanno contribuito a diffondere una maggiore sensibilità ambientale rispetto al passato, soprattutto tra le persone più giovani. Athamanta e Apuane Libere, un’organizzazione di volontariato nata per preservare le Apuane, hanno organizzato diverse escursioni sui sentieri di montagna interrotti, tagliati dalle escavazioni. Spesso gli attivisti si sono trovati di fronte blocchi di marmo messi sui sentieri, catene, cartelli di divieto illegittimi con la scritta “proprietà privata”, minacciose squadre del personale assunto dalle aziende per tenere lontano le persone indesiderate.

Ma molti volontari di Apuane Libere sono alpinisti, abituati a trovare passaggi alternativi e a rimanere in quota a lungo: negli ultimi anni hanno fatto sopralluoghi durati diverse ore, talvolta anche giorni, osservando le cave da lontano con cannocchiali e macchine fotografiche. Hanno documentato violazioni del perimetro di scavo, smaltimenti illegali di scarti, norme di sicurezza non rispettate. «Purtroppo nel settore lapideo c’è una sorta di impunità diffusa legittimata da enti ed istituzioni e che porta i nostri esposti alle procure a rimanere lettera morta», dice Gianluca Briccolani, presidente di Apuane Libere.

In effetti le denunce fatte finora non hanno avuto molte conseguenze, perché le sanzioni sono minime. In compenso i volontari hanno ricevuto diffide e minacce. «Le sospensioni da poche settimane e le multe al massimo di 20mila euro non servono a niente», dice Alberto Grossi. «Per chi scava dove non è consentito o inquina la montagna sono un rischio che vale la pena correre. Funziona così da anni, ma ora la devastazione ha assunto dimensioni non paragonabili al passato».

Dall’alto di Campocecina, un altopiano che sovrasta alcune delle cave più estese di Carrara, Grossi indica punti della montagna che non ci sono più. Negli ultimi vent’anni ha filmato centinaia di esplosioni, tagli, sversamenti di scaglie e detriti nei pendii. Le riprese sono finite in diversi documentari.

Le proteste contro le conseguenze dell’attività estrattiva divennero un caso nazionale nel 2014, quando per tre mesi fu occupata una sala di rappresentanza nel municipio di Carrara. L’assemblea permanente di Carrara era composta da decine di persone di ogni fascia sociale, età e orientamento politico. Appesero nella sala un grande striscione con la scritta #Carrarasiribella e foto della città sommersa dal fango. Protestavano contro l’inerzia della politica dopo le gravi alluvioni provocate dall’esondazione del fiume Carrione che attraversa il centro della città. Ce n’erano state tredici in un secolo, la prima nel 1936.

Nel 2003 Ida Niccolai, una donna di 76 anni, morì travolta dalla piena. Il Carrione esondò due volte nel 2010, tre volte nel 2012. Nel 2014 il fango e i detriti entrarono in centinaia di case e negozi. Gli sfollati furono oltre 300 e ci furono danni per quasi cinquemila famiglie. La procura indagò 22 persone tra cui due ex sindaci, Giulio Conti e il suo predecessore Lucio Segnanini, accusati di omicidio colposo e inondazione colposa. Le indagini andarono per le lunghe, il processo iniziò a 20 giorni dalla prescrizione dei reati e si concluse senza una sentenza.

I magistrati che portarono avanti le indagini dopo l’alluvione del 2003 commissionarono perizie a esperti di idraulica e geologia. «Le attività estrattive rappresentano un elemento determinante nella connotazione dell’evento alluvionale», si legge in una delle perizie. Secondo i tecnici, le esondazioni del Carrione sono dovute allo smaltimento illegale di rifiuti dell’attività estrattiva: massi, scaglie, detriti abbandonati nei fiumi e soprattutto marmettola, come viene chiamata la polvere finissima composta quasi per intero da carbonato di calcio mischiato a oli e metalli, residuo della lavorazione del marmo.

La marmettola si scioglie, diventa fango bianco, cola sui terreni impedendo alla vegetazione di crescere, si infiltra nel sottosuolo, nelle cavità carsiche che formano le Alpi Apuane, fino a raggiungere le falde acquifere e i torrenti impermeabilizzando i terreni e distruggendo l’habitat naturale.

Negli anni grandi quantità di marmettola scaricate illegalmente dalle cave si sono depositate sul letto del Carrione di altri fiumi trasformandoli in una sorta di scivoli: l’acqua non può essere trattenuta, corre velocemente a valle e quando incontra un ostacolo non può che esondare. «Quando vedi il Carrione bianco la prima volta ti impressiona, la seconda volta ti fa strano, la terza lo noti e dalla quarta purtroppo in pochi ci fanno caso», dice Grossi. «Ormai si sono tutti assuefatti».

La marmettola è anche responsabile dell’inquinamento dell’acqua potabile che deve essere depurata prima di essere immessa nella rete idrica. In località Cartaro, sopra Massa e vicino al fiume Frigido, un impianto di depurazione è attivo 24 ore su 24. Nei serbatoi installati nella parte inferiore si vedono cumuli di marmettola filtrata dall’acqua. Ogni anno nell’impianto di Cartaro passano 7 milioni di metri cubi di acqua e rimangono bloccate 400 tonnellate di marmettola. Sono necessari sette cicli di depurazione contro un solo ciclo prescritto negli impianti di questo tipo: la depurazione costa quasi 400mila euro all’anno di soldi pubblici.

L'impianto di depurazione dell'acqua in località Cartaro

L’impianto di depurazione dell’acqua in località Cartaro (il Post)

Di tutto questo – dell’inquinamento, dell’estrattivismo e dei danni irreversibili alla montagna – i proprietari delle cave non vogliono parlare. Negli ultimi anni uno dei pochi rappresentanti a essersi esposti è stato il presidente di Confindustria di Massa e Carrara, Matteo Venturi. Nelle cave l’ambiente viene rispettato, ha detto in diverse interviste, perché si cerca di estrarre e preservare i blocchi ottenendo meno scarto possibile. Venturi ha assicurato che la sensibilità nei confronti dell’ambiente non è più quella di 50 anni fa e che gli imprenditori puntano alla qualità e non più alla quantità: lo dimostrerebbe il fatto che a un calo dell’escavazione non è seguita una diminuzione del fatturato.

Anche sulla marmettola la posizione di Confindustria tende ad assolvere chi gestisce le cave. «Quando piove in modo intenso, in altre zone d’Italia i fiumi diventano marroncini per la terra dilavata, qui a volte bianchi perché la pioggia intercetta depositi che purtroppo ci sono ancora», ha detto Venturi in un’intervista al Tirreno. «Ma è un dato di fatto che ci sono cave in cui la polvere di taglio non tocca neppure terra, oppure è subito raccolta, stoccata e portata a valle. Allora faccio io una domanda: chi si può permettere un impianto all’avanguardia e garanzie ambientali? Solo un settore produttivo che ha marginalità, la sostenibilità e la virtuosità sono in grado di sostenere costi importanti di migliori pratiche di gestione ambientale».

Secondo Confindustria senza le cave, i loro profitti e i contributi milionari assicurati al territorio l’impatto ambientale sarebbe peggiore. È difficile trovare un punto di accordo tra le esigenze delle aziende e le istanze ambientaliste delle associazioni, eppure Venturi spera che la conflittualità si possa «disinnescare», anche perché gli imprenditori sono stanchi di sentirsi additati come banditi. «Bisogna trovare un modo di convivere rispettoso dell’ambiente e degli interessi di tutti. Lo sottolineo: l’utile d’impresa non è un peccato», dice Venturi. «Carrara è marmo e marmo è Carrara, e questa città non può vivere senza i ricavi del marmo».

Uno dei due ponti di Vara, una delle strade che porta alle cave di Carrara

Uno dei due ponti di Vara, una delle strade che portano alle cave di Carrara (il Post)

Confindustria ha sempre risposto alle critiche ricordando i dati dei contributi garantiti ogni anno al comune e dei milioni di euro pagati ai fornitori e alla manodopera locale. Da sempre i sindacati hanno avuto posizioni non troppo distanti: i problemi ambientali sono stati messi in conto a patto di garantire lavoro alla popolazione, e per questo le rivendicazioni delle associazioni ambientaliste e civiche sono state trascurate e in molti casi contrastate anche dai sindacati.

Tuttavia dopo anni di calo degli occupati a cui non è corrisposto un calo dell’estrazione e dell’impatto ambientale la loro posizione è cambiata. All’inizio di marzo la CGIL ha detto che serve «una svolta per coniugare ambiente, lavoro e sicurezza» partendo dalle limitazioni imposte dalla legge regionale. «Il marmo, bene non riproducibile, è ricchezza da non lasciare in mano a pochi, ma un patrimonio di tutti, come le montagne dalle quali viene estratto», hanno scritto i sindacalisti firmatari in un comunicato.

La nuova posizione dei sindacati è un segnale. La diminuzione dei posti di lavoro, l’aumento della disoccupazione giovanile e la concentrazione dei profitti tra pochi grandi proprietari hanno iniziato a logorare la storica simbiosi tra la popolazione di Carrara e le cave.

Per molte persone, però, la transizione è inaccettabile e dolorosa: l’identità della città e dei suoi abitanti è stata costruita sulla mitologia dei cavatori e per una parte dei carrarini mettere in discussione il marmo è considerato un affronto. «In passato la narrazione dei proprietari delle cave era condivisa perché in ogni famiglia c’era qualcuno che lavorava nel marmo», dice Ildo Fusani, assessore allo Sviluppo economico del comune di Carrara tra il 1994 e il 1998 nella prima amministrazione che tentò di limitare le estrazioni, senza molto successo. «Ora quella base sociale è più ristretta, ci sono molti più “mal di pancia” che però si traducono in una coscienza ambientale solo parziale. Purtroppo il ceto imprenditoriale continua a essere influente: non più egemone, ma comunque dominante. Una volta c’erano cavatori, scultori, operai specializzati. Oggi Carrara è diventato un luogo dove si dorme, e basta».

Liberarsi dal mito del marmo, tuttavia, è un processo lungo e complicato. Anche nelle associazioni e nei collettivi ambientalisti ci sono posizioni diverse. C’è chi pensa che sia possibile interrompere del tutto l’attività estrattiva continuando a dare lavoro agli operai attraverso il ripristino ambientale destinato a durare decenni; chi invece si fa portavoce dello slogan “cave ai cavatori” e pensa che si possa estrarre marmo senza sfruttare la montagna in modo intensivo. «Basta estrazione selvaggia, diamo il giusto senso al nostro lavoro e all’ambiente che ci circonda, estraendo il necessario in sicurezza», sostiene il sindacato di base USB.

Il compromesso tra lo sfruttamento attuale e la fine dell’economia del marmo è ben sintetizzato dalla sindaca Arrighi. Nei prossimi anni, dice, è inevitabile una diminuzione della quantità di materiale estratto per trovare un’alternativa all’economia basata esclusivamente sul marmo: «Intravedo la possibilità di continuare con le estrazioni esclusivamente per produrre materiale di qualità e far sì che pian piano ci sia un maggior equilibrio tra ambiente, economia e ricadute sul territorio. È importante però creare un’economia alternativa, lo possiamo fare accorciando la filiera», cioè limitando le esportazioni di blocchi grezzi all’estero, tenendo le lavorazioni sul territorio.

– Leggi anche: La lunga storia anarchica di Carrara