Gli Oscar di trent’anni fa, a Steven Spielberg

Ne furono assegnati sette a Schindler’s List e tre a Jurassic Park, due film diversissimi a cui lavorò praticamente in contemporanea e che fecero la storia dei rispettivi generi

(Courtesy Everett Collection/Contrasto)
(Courtesy Everett Collection/Contrasto)
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Alla cerimonia degli Oscar del 1994 vennero premiati due film, Jurassic Park e Schindler’s List, entrambi di Steven Spielberg ma molto diversi tra loro. Il primo vinse tre premi, tutti tecnici (migliori effetti speciali, miglior sonoro, miglior montaggio sonoro), mentre il secondo aveva ricevuto dodici candidature e vinse sette premi, incluso quello per il miglior film. Non è per nulla usuale che un regista possa far uscire due film nel medesimo anno (per alcuni mesi del 1993 si sovrapposero nelle sale), specialmente se i due film sono così importanti e laboriosi. Tantomeno è frequente che siano entrambi film di successo e non era mai capitato, né è capitato in seguito, che fossero due film in grado di cambiare ognuno il proprio genere.

Per quanto Jurassic Park e Schindler’s List appartengano a generi diversi e abbiano finalità completamente distinte, il fatto di averli realizzati quasi insieme ha fatto sì che il primo, quello con i dinosauri, influenzasse in qualche modo il secondo, che parla di Olocausto.

La sovrapposizione tra le due produzioni non l’aveva voluta nessuno ma era capitata dopo che Steven Spielberg, entrato in contatto con il libro La lista di Schindler di Thomas Keneally nel 1982, aveva rimandato per un decennio la decisione di farne un film. Era un suo desiderio ma come spesso ha dichiarato, all’epoca era un regista di film con squali, extraterrestri o archeologi avventurosi, e non si sentiva pronto. Lungo tutti gli anni ’80 aveva anche tentato di produrlo soltanto, senza dirigerlo, proponendo la regia prima a Roman Polanski, la cui famiglia era stata deportata nei campi di sterminio nazisti (lui invece riuscì a sfuggire al rastrellamento), ma che gli disse di non avere la forza di rivivere una cosa simile (un film sul tema l’avrebbe girato solo vent’anni dopo, Il pianista), e poi a Martin Scorsese. Scorsese ci lavorò a lungo per capire come trasformare un libro che era un elenco di nomi, fatti ed eventi in una storia, trovando infine lo sceneggiatore giusto, Steven Zaillian, che scrisse una versione della sceneggiatura abbastanza simile a quella che poi avrebbe seguito Spielberg.

All’inizio degli anni ’90 Steven Spielberg – che nel 1982 aveva promesso alla Universal che il film l’avrebbe fatto, «ma tra dieci anni» – era un regista diverso. Era riuscito a liberarsi dell’immagine di ragazzo prodigio e confezionatore di film spettacolari girandone di politicamente impegnati come Il colore viola e di drammatici e ponderosi come Always o L’impero del sole. E questo anche se gli ultimi due erano stati dei sonori insuccessi. Si sentiva quindi pronto a dirigere lui Schindler’s List. In più, in quel periodo, per la prima volta nella sua vita si stava riconciliando con la religione: cresciuto nell’unica famiglia ebrea della sua cittadina, era stato maltrattato e aveva avuto esperienze di comportamenti antisemiti. Non era mai stato molto osservante ma le cose erano cambiate e voleva fare qualcosa per la sua comunità, un film che avrebbe ampliato la conoscenza dell’Olocausto. Prima di Schindler’s List infatti le commemorazioni annuali delle persecuzioni naziste negli Stati Uniti esistevano, ma erano limitate alla comunità ebraica: dopo quel film diventarono una ricorrenza per tutti.

Quando Spielberg disse all’allora capo della Universal, Sid Sheinberg (la stessa persona che gli aveva consigliato il libro di Keneally dieci anni prima), di essere pronto per fare il film, Martin Scorsese, che era terrorizzato all’idea di occuparsi di una questione che non apparteneva alla sua storia e che temeva sarebbe stata controversa, ne fu molto sollevato. Sheinberg accettò di produrre un film che tutti credevano sarebbe stato un insuccesso o che comunque avrebbe incassato molto poco (perché fino a quel momento nessun film sull’Olocausto era mai andato bene) a patto che Spielberg facesse prima per loro un altro film. Sheinberg aveva in mente qualcosa di spettacolare e potenzialmente di grande incasso: l’adattamento di Jurassic Park, romanzo di Michael Crichton che nel 1990 era stato un caso letterario e che era perfetto per il regista che aveva diretto Lo squalo. Era una buona idea perché Spielberg aveva già capito che il segreto per quel film sarebbe stato fare una storia in cui i dinosauri non fossero solo mostri, ma anche animali che potessero essere incontrati e abbracciati. L’ordine temporale doveva essere quello però perché, come ha spesso raccontato Spielberg, Sheinberg «sapeva bene che se avessi fatto prima Schindler’s List poi non avrei mai girato Jurassic Park».

Spielberg quindi andò prima sul set di Jurassic Park e poi, finite le riprese, volò direttamente in Polonia, dove avrebbe invece girato Schindler’s List con un budget tre volte inferiore (63 milioni di dollari per il primo e 20 milioni per il secondo) e senza essere pagato, perché disse che quei soldi sarebbero stati per lui «sporchi di sangue». Dirigere due film così ambiziosi nello stesso anno è considerata un’impresa ancora oggi con pochi paragoni nella storia del cinema. Venendo da una produzione molto imponente e pianificata accuratamente, come sempre avviene quando sono coinvolti molti effetti visivi (così che chi lavorerà alla post produzione sappia in anticipo esattamente che immagini dovrà maneggiare, quante inquadrature, cosa avviene in ogni singola inquadratura e via dicendo), sul set di Schindler’s List Spielberg si sentì spinto a fare l’opposto. Voleva che fosse qualcosa di davvero diverso dal suo solito e aveva paura di essere “troppo Spielberg”, di non riuscire a liberarsi di una carriera intera nel cinema spettacolare: quel film doveva essere l’opposto di Jurassic Park. Così il film più commerciale finì per influenzare la lavorazione di quello più personale e drammatico.

Per ogni scena di Jurassic Park esisteva uno storyboard (cioè il disegno di ogni inquadratura che funziona come il progetto del film), mentre per Schindler’s List la maggiore parte delle scene veniva ricostruita per intero, non solo la porzione di immagine che poi sarebbe stata filmata, così che la macchina da presa potesse muoversi liberamente come avrebbe fatto un cinegiornale d’epoca. Per Jurassic Park tutto era finzione, per Schindler’s List tutto doveva sembrare un documentario. Jurassic Park non aveva nessun margine di improvvisazione, in ogni giornata di lavoro di Schindler’s List invece Spielberg era aperto a cambiamenti e decisioni prese sul momento. Jurassic Park era un film pieno di luci e colori, la fotografia di Schindler’s List era in bianco e nero. Jurassic Park infine era un film di grande tensione ma per tutta la famiglia, innocuo. Schindler’s List avrebbe dovuto essere il film più terribile, scioccante e violento mai girato sull’Olocausto.

La lavorazione di un film come Jurassic Park però non finisce sul set, ha una parte molto lunga e importante dopo, quella in cui vengono creati i dinosauri. Il progetto era di animarli in stop motion, cioè creare dei modellini, dei pupazzi che vengono mossi un fotogramma alla volta. Era il metodo classico con cui si creavano personaggi finti: erano stati animati così King Kong nel film degli anni ’30 ma anche i mostri e le creature di Gli Argonauti. La Universal non aveva badato a spese e aveva preso uno dei più grandi artisti della stop motion di sempre, Phil Tippett, che aveva anche già fatto tutte le prove e i test del caso per mostrare come sarebbe stato il risultato finale. I suoi dinosauri erano molto buoni ma non esattamente realistici. Era previsto che Tippet ci lavorasse sia durante le riprese che dopo, e che Spielberg controllasse l’andamento da lontano ma senza una eccessiva presenza.

A cambiare tutto fu la proposta di Dennis Muren, ingegnere della Industrial Light & Magic, all’epoca già una delle più grandi aziende nel campo degli effetti visivi digitali, che sostenne di poter riuscire a creare dinosauri al computer fotorealistici. I primi test erano convincenti e benché sarebbe stato faticoso fare per la prima volta qualcosa che nel film era così importante e presente, Spielberg accettò. Chi ha visto The Fabelmans, il film che recentemente Spielberg ha diretto raccontando la storia della propria famiglia, sa che suo padre era un ingegnere che lavorava con i computer in un’epoca in cui quello era un lavoro pionieristico. E benché oggi Spielberg sia considerato egli stesso un pioniere dell’uso del digitale nei film, all’epoca non era così, anzi si era tenuto lontanissimo dal settore del padre. Tuttavia era troppo tentato dall’idea di avere nel suo film dinosauri che sembrassero veri tanto quanto gli animali dei filmati del National Geographic, e prese la decisione rivoluzionaria di avere nel suo film i primi animali mai creati interamente al computer.

Questo implicò però che ogni movimento dovesse essere coordinato: il regista doveva essere sempre presente, controllare tutto e seguire i lavori. Dunque durante i mesi di riprese di Schindler’s List in Polonia, un lavoro che Spielberg percepiva come più importante, doveroso, spirituale e personale, visto come lo considerava un legame con i genitori, di notte faceva teleconferenze e guardava dinosauri fino a prendere sonno. Un’esperienza che in seguito avrebbe definito “orribile” e che in più momenti l’aveva portato a valutare l’ipotesi di abbandonare del tutto Jurassic Park. Dover valutare inquadrature di un T-Rex mentre lavorava a un altro progetto per lui così importante «aveva creato dentro di me rabbia e risentimento per il fatto di dover passare continuamente dal peso emotivo di Schindler’s List a dinosauri che inseguono jeep. In seguito sarei stato molto felice di averlo fatto, ma in quel momento era un peso».

Quando uscì Jurassic Park incassò 914 milioni di dollari in tutto il mondo: all’epoca fu il film di maggiore incasso della storia del cinema (battendo un altro film di Spielberg, E.T., e venendo poi superato quattro anni dopo da Titanic). Pure Schindler’s List, benché su una scala diversa, fu un grande successo: 320 milioni di dollari di incasso, moltissimo di più di qualsiasi altro film sull’Olocausto, il primo vero successo di quel genere. Soprattutto Schindler’s List ebbe un impatto enorme: la sua violenza e la sua durezza, la maniera in cui non risparmiava dettagli avrebbero influenzato ogni altro film sull’Olocausto a seguire, e cambiarono la maniera in cui quell’evento viene oggi percepito e ricordato, soprattutto negli Stati Uniti. Molti ancora oggi non concordano sulla moralità di mostrare quella tragedia con espedienti spettacolari (Spielberg aveva tentato di liberarsene ma in diversi punti rimangono come ricorda il regista austriaco Michael Haneke, grande oppositore del film). I più grandi studiosi di Olocausto, pur facendo notare incongruenze ed errori, concordano sul fatto che quel film dimostrò che una storia è la maniera migliore per mantenere viva la memoria.

Quando arrivò la cerimonia di consegna dei premi Oscar Schindler’s List era quindi il grande favorito. Per la prima volta un film di Steven Spielberg fu il vincitore della serata e per la prima volta lui vinse l’Oscar per la miglior regia. Nel ritirare il premio per il miglior film disse: «È il miglior bicchiere d’acqua dopo il più lungo periodo senza bere della mia vita».