L’orologio di Walter Chiari

«Che cosa gliene importava che un moccioso dell’Unità come me gli dicesse “quanto sei bravo“ al punto da regalargli un Van Cleef & Arpels in oro e acciaio che valeva un sacco di soldi? Aveva lavorato con Visconti, amato le donne più belle, aveva uno spazio fisso nei sabato sera della Rai (venti milioni di italiani…), aveva guadagnato fiumi di denaro, godeva dell’amore popolare e piaceva anche a molti critici televisivi, che lo consideravano un raffinato affabulatore. Che gliene frega, a un’icona pop, di essere anche promosso dall’ultimo vice-critico o vice-intellettuale?»

Ava Gardner e Walter Chiari, al centro, nell'atelier delle sorelle Fontana a Roma in una foto senza data (ANSA)
Ava Gardner e Walter Chiari, al centro, nell'atelier delle sorelle Fontana a Roma in una foto senza data (ANSA)

Era il lontano 1987, forse febbraio. Avevo pubblicato il mio primo libro di satira, Visti da lontano, e andai a Roma a presentarlo, ospite per la prima (e ultima) volta del “Maurizio Costanzo Show”. Non ricordo bene come fosse composta la mezza dozzina di personaggi più o meno noti – io il meno noto – esposti sul palco di quel grande bazar umano. Una era sicuramente la soubrette Maria Teresa Ruta, bionda e ridente. Ma ricordo benissimo che quando, dietro le quinte, scoprii che quella sera con noi c’era Walter Chiari (1924 – 1991) mi emozionai come l’ultimo dei fan davanti alla prima delle star. Ci fossero già stati i cellulari, avrei telefonato subito a mia madre: «Non ci crederai, mamma. Sono con Walter Chiari! Tra cinque minuti saremo seduti sullo stesso palcoscenico!». E mi sarei fatto un selfie con lui.

Walter Chiari nella mia famiglia (e in milioni di altre famiglie italiane) era stato, fino a qualche anno prima, un vero e proprio mito. Nell’epoca in cui l’Albo dei Miti era molto ma molto più ristretto e selettivo di quello attuale. Le dimensioni della sua fama erano quelle della Rai prima monocanale, poi bicanale: Mina, Gaber, Mike Bongiorno, il Quartetto Cetra, Corrado, Lelio Luttazzi. Dovete immaginare un mondo (ormai difficile da mettere a fuoco, per quanto è remoto, anche per chi ci è cresciuto dentro) nel quale tutti o quasi tutti, ogni sera, vedevano lo stesso show, lo stesso film, lo stesso quiz. E la mattina dopo negli uffici, nelle fabbriche, in treno, se ne discuteva, se ne rideva.

C’era anche lo star-system del cinema, la Lollo, la Loren, Sordi, Gassman, la Vitti, la Magnani, Tognazzi, quando era ancora soprattutto il cinema, in Italia e nel mondo, che plasmava i gusti popolari e non di rado sapeva farli coincidere con quelli degli intellettuali (lo iato tra “scrittori e popolo”, nello show-business di quegli anni, era meno percepibile di adesso, forse perché si usciva tutti assieme, come un immenso branco, dalla stessa voragine: guerra, distruzione e povertà). Walter Chiari, che l’8 marzo 2024 avrebbe compiuto cent’anni, sommava entrambe le fame: quella cinematografica – 85 film in carriera, tra filmoni e filmetti – e quella televisiva. In televisione si era disegnato addosso il mestiere che oggi si chiama stand-up comedian, e allora si chiamava «ragazzi, c’è Walter Chiari che parla, venite qui e state zitti!». Era molto in anticipo sui tempi, artisticamente parlando. Raccontava cose, una mano in tasca, l’altra nell’aria, veloce e divagante, con una facilità di parola che incantava. (A risentirli oggi, quei testi, per metà improvvisati, non sempre appaiono al livello del loro dicitore; ma il dicitore è talmente bravo che non smetteresti mai di ascoltarlo).

Ma ve la sto facendo troppo lunga (come faceva regolarmente Walter Chiari, che sforava di molti minuti sul tempo concesso). Volevo solo inquadrare al meglio la piccola storia che sto per raccontarvi. Avrei anche potuto limitarmi a dire che Walter Chiari, quando lo incontrai nel 1987, usciva da anni di declino e di oblio – venne arrestato per faccende di cocaina nel 1970, e in quella Italia voleva dire: carriera distrutta. Ma per me era comunque, e sarà per sempre, l’attore bellissimo (Ava Gardner, Lucia Bosé e Anita Ekberg tra i suoi amori), elegante, spiritoso, leggero, che inchiodava i miei genitori, e io e mio fratello con loro, davanti al televisore nei sabato sera in bianco e nero. «È quasi bello come James Stewart», diceva mia madre. Se mi chiedete: dimmi un italiano che incarna al meglio la vitalità e il fascino del dopoguerra e poi del boom, io vi rispondo Walter Chiari (dopo un breve ballottaggio con Gassman). Guardatelo con Anna Magnani in Bellissima di Visconti, e poi ditemi se ho torto.

Da Costanzo, quella sera, succede questo. C’è un giochino sponsorizzato. Ognuno deve raccontare una piccola storia. Poi si vota per la storiella migliore, e chi ha più voti vince un orologio. Non ricordo quale storiella raccontai, non ricordo quale raccontò Chiari, fatto sta che alla fine – votavo per ultimo – il mio voto risulta decisivo. Ovviamente voto per lui, lo avrei fatto anche se avesse raccontato una scemenza qualunque. Lui salta in piedi, come se avesse vinto le Olimpiadi, e per mettersi l’orologino appena vinto sfila dal polso il suo orologio e me lo regala. Durante la pubblicità (i famosi “consigli per gli acquisti”, espressione inventata da Costanzo) lo ringrazio del gesto e provo a restituirgli l’orologio, per la serie: «Grazie, ma per così poco non è il caso». Lui insiste, quasi si offende: «Non se ne parla neanche, il mio orologio adesso è tuo!».

Non capivo niente di orologi. Per me, quello era solo l’orologio di Walter Chiari. Tornando a casa scoprii che era un Van Cleef & Arpels in oro e acciaio e valeva un sacco di soldi – la fama di dissipatore che accompagnò Chiari per tutta la vita era confermata. Lo portai al polso per molti anni, e per un destino maligno uno dei rarissimi giorni nei quali lo dimenticai sul comodino entrarono i ladri in casa. E tra le cose portate via c’era anche quell’orologio, che ora sarà al polso di qualche ignaro, in chissà quale parte del mondo (la storia degli oggetti è molto più misteriosa, avventurosa e affascinante di quella della grande maggioranza degli esseri umani).

Nei giorni successivi a quel “Costanzo Show”, chiacchierando dell’accaduto con i miei colleghi dell’Unità, collettivo molto vivace nel quale ho materialmente passato, tutta intera, la mia giovinezza (nei giornali quotidiani non c’era giorno e non c’era notte; era un bivacco permanente) qualcuno suggerì che Walter Chiari mi avesse regalato il suo orologio perché ero comunista. Ovvero: perché era sicuro che un giornalista dell’Unità – anche l’Unità il 12 febbraio ha compiuto cent’anni – mai e poi mai avrebbe votato per lui, che era notoriamente di destra – «molto di destra», specificavano. Era stato, giovanissimo, nella Decima Mas. E aveva sempre avuto il cruccio di non essere abbastanza apprezzato dalla critica, allora in larga parte di sinistra. Un complesso così acuto, così sofferto, che di fronte a un ragazzo comunista (avrei potuto essere suo figlio) che gli manifestava ammirazione, si era sentito in obbligo di manifestargli tutta la sua gratitudine.

Quella lettura dei fatti mi sembrò sbalorditiva. Molto ipotetica, intanto: magari il gesto di Chiari era dovuto solamente a uno dei suoi celebri impulsi di generosità. Si raccontava che certe sere, al culmine del suo successo, invitava al Savini, allora il ristorante più celebre e caro di Milano, decine di persone. E poi non lo sapevo proprio, che Walter Chiari fosse di destra. Per me era sempre stato Walter Chiari e basta: una grande star, per quanto declinante. Era stato molto ricco, molto famoso, molto amato, molto applaudito. E io ero solo un giovane giornalista pieno di entusiasmo e di rate da pagare, che per comperarsi un Van Cleef & Arpels avrebbe dovuto spendere un anno di stipendio – se bastava. La disparità di collocazione nella scala del successo (lui era in cima, io neanche la vedevo) mi sembrava così evidente che non capivo come fosse possibile che quell’uomo, del quale avevo grande soggezione, avesse potuto avere soggezione di me, tenendo in così gran conto la mia opinione su di lui. E rimanendone conquistato al punto da sfilarsi dal polso il suo orologio, e regalarmelo.

Walter Chiari, a sinistra, rincorre il fotografo e “re dei paparazzi” Tazio Secchiaroli. Roma (ANSA)

Da quel piccolo episodio – che ancora mi emoziona rievocare – è passata un’infinità di tempo. Ho avuto molti anni a disposizione – direi una vita intera – per metabolizzarlo, inquadrarlo meglio, verificarne l’interpretazione, ragionarci sopra. Ancora non mi è del tutto chiaro – umanamente parlando – perché Walter Chiari, nell’unica volta in cui ci siamo incontrati, mi abbia regalato il suo orologio. Ma certo più di un indizio, sulla giustezza della ipotesi che vi ho detto, l’ho poi raccolto, strada facendo. Constatando che in Italia vige, effettivamente, un percepibile complesso di inferiorità – non so come definirlo altrimenti – della “destra” nei confronti della “sinistra” (virgolette d’obbligo: qui si sta generalizzando, beninteso; di qui in poi, quando scrivo destra e scrivo sinistra, sappiate che so bene di generalizzare). E questo complesso di inferiorità si traduce a volte in malanimo e aggressività – l’orologio di Walter Chiari rientra nella categoria “brillanti eccezioni” – altre volte serve da comodo alibi per carriere così così il cui titolare attribuisce il “così così” alla discriminazione da parte di quelli di sinistra.

Si sono lette, negli anni, interviste e prese di posizione parecchio imbarazzanti di artisti e scrittori anche bravi, ma forse non bravissimi, che sospirando dicevano «ah, se fossi stato di sinistra, allora sì che sarei stato considerato come De André o De Gregori!». Non erano sfiorati dal sospetto che De André e De Gregori non siano tali perché di sinistra, ma perché De André e De Gregori; e magari Una rotonda sul mare, ottimo brano da pianobar, non gareggia nella stessa categoria di Creuza de mä e di Generale (sì, sto parlando di una vecchia intervista a Fred Bongusto. A un certo punto avevo messo insieme un intero file di «artisti di destra che si dichiarano vittime dell’egemonia di sinistra». Volevo farci un libretto divertente, poi ci ho rinunciato nel dubbio che quel libretto sarebbe stato l’ennesima conferma dell’odiosa discriminazione nei confronti degli artisti di destra. Ho cancellato quel file – ma i nomi me li ricordo tutti…).

Ho vissuto abbastanza anni per avere preso in considerazione anche l’altro corno del dilemma: quello che richiede, da parte mia, la rinuncia a qualche pregiudizio “di parte”. Se, cioè, la spocchia di molti intellettuali di sinistra non abbia grandemente contribuito a far sentire discriminati, o incompresi, o sottovalutati, molti artisti non di sinistra, non “del giro giusto”. E la risposta è: sì, la spocchia intellettuale germinava, a sinistra, nella sua doppia natura di spocchia libresca e di spocchia ideologica. Una spocchia al cubo, dunque.

Ho conosciuto molti intellettuali e molti critici, soprattutto negli anni felici dell’Unità, poi in quelli altrettanto fervidi di Repubblica, e una parte non piccola di loro dispensava i suoi giudizi con una supponenza non sempre giustificata dal talento, quanto dal rango; e con la presunzione di essere, in quanto “dalla parte giusta”, custodi del Vero e del Bello. Ma ho conosciuto, dentro il mondo comunista, anche un sacco di intellettuali e di critici pieni di intelligenza e di umanità, poco inclini all’anatema politico, spinti dalla passione culturale e dalla sensibilità per le cose umane, e non così condizionati dalla loro matrice. Non faccio nomi nella prima categoria, per umana indulgenza (qualcuno è ancora al mondo, altri hanno figlie e figli che li ricordano con affetto), ne faccio uno per tutti, Beniamino Placido, nella seconda categoria: il meno saccente, il più aperto, il più pop di tutti gli intellettuali di sinistra mai visti sul pianeta Terra.

E in ogni modo, ammesso e concesso che l’atteggiamento sdegnoso della cultura di sinistra abbia avuto una parte importante nella genesi del complesso di inferiorità della destra, la domanda cruciale per me rimane intatta, ed è sempre la stessa: perché mai un giudizio tutto sommato alieno, e condizionante solo dentro un certo mondo e un certo pubblico, ha così grandemente ferito una folta schiera di personaggi di destra, o comunque non di sinistra, che avrebbero potuto tranquillamente vivere del loro, e goderselo, e meritarselo, senza nessun bisogno di medaglie “nemiche” da affiggere sul petto? Che cosa gliene importava, a Walter Chiari, che un moccioso dell’Unità gli dicesse «quanto sei bravo»? Aveva lavorato con Visconti, amato le donne più belle del Dopoguerra, aveva uno spazio fisso nei sabato sera della Rai (venti milioni di italiani…), aveva guadagnato fiumi di denaro, godeva dell’amore popolare e piaceva anche a molti critici televisivi, che lo consideravano un raffinato affabulatore. Perché, se esistono differenti scale di valori, modi di vivere e di ragionare destinati a non incrociarsi mai, palcoscenici quanti ne bastano per spaziare da Tadeusz Kantor a Macario, dal teatro greco all’avanspettacolo, da Wagner a Pupo, la benevolenza delle sedicenti élites è così ambìta, e la sua mancanza ferisce? Che gliene frega, a un’icona pop, di essere anche promosso dall’ultimo vice-critico o vice-intellettuale?

Mi riesce molto difficile riconoscere un merito a Berlusconi. Ma è stato forse il primo italiano di destra, in forma così schietta e disinibita, a vivere senza complessi la propria natura umana e culturale. Della cultura, pur essendo il primo editore italiano, semplicemente non gli importava un fico secco. Viveva benissimo senza. Amava Tinì Cansino e Massimo Boldi, le canzoni da night-club e il cabaret dei doppi sensi, le soubrette con le tette al vento e il teatro leggero – quello che piace ai cumenda che andavano (e vanno!) al Teatro Manzoni con la sciarpetta bianca. Comprò il Teatro Manzoni a nome di tutti i cumenda con la sciarpetta bianca e le sciure con doppio filo di perle. Sapeva chi era Gei Ar e non aveva idea di chi fosse Brecht, e una volta che Antonio Tabucchi firmò un appello contro di lui chiese «ma chi è, questo Tabucchi?»: era stato un suo autore e in quel momento era primo in classifica. Nessun complesso di inferiorità, aveva il Berlusca, e anzi: la sinistra è triste e piena di fisime, la fa lunga e la fa difficile, noi qui siamo felici, siamo in tanti, ci bastiamo e della sinistra non sappiamo che farcene.

(Per dire la verità: forse gli rimase il cruccio di non essere amato, in quanto uomo più meraviglioso e affascinante del mondo, anche da quelli di sinistra. Sotto sotto, se Bertolt Brecht fosse rinato, gli avesse telefonato e gli avesse detto: «Cavaliere, il mio sogno è fare un musical con Tinì Cansino e Massimo Boldi al Teatro Manzoni, mi sono veramente stufato di tutta ‘sta politica e delle musiche di Kurt Weill, mi potrebbe presentare Memo Remigi?»; solo allora il Berlusca si sarebbe sentito definitivamente felice di sé stesso; e sarebbe andato alla prima di Brecht con la sciarpetta bianca. Ma insomma, nel suo caso stiamo parlando di un complesso di superiorità realizzato, con qualche residua e piccola sbavatura. Non del complesso di inferiorità del quale stavamo trattando).

A questo punto mi sono messo nei pasticci, perché mi rendo conto che l’argomento evocato è fondamentalmente indiziario e rischia di essere anche piuttosto arbitrario: sicuramente ci sono stati artisti italiani di destra (per esempio Raimondo Vianello) del tutto indenni dal desiderio insano di “piacere alla critica di sinistra”, paghi della loro arte e del loro successo. Vianello prese anche per i fondelli l’intellighenzia sprezzante quando (credo che il varietà fosse Il giocondo), indossando una ridicola tuta nera, improvvisava tetre gag che non facevano ridere nessuno: era la parodia del kabarett tedesco. E poi, certo, questo rivangare decenni e decenni di contrasti, bisticci, diffidenze tra l’antropologia italiana di destra e quella di sinistra spalanca varchi vertiginosi su infinite altre cose – mica solo la politica. Mi limito a suggerire, per chiuderla onorevolmente, una specie di “lieto fine”, di uscita dal tunnel delle reciproche diffidenze, delle posizioni ossificate, o peggio incancrenite.

Eccolo. La qualità, ovviamente, non è di destra o di sinistra; la cultura men che meno. Ma entrambe, la qualità e la cultura, esistono, e rappresentano, come dire, densità diverse rispetto alle conoscenze basiche e alle necessità elementari. La loro esistenza è percepita anche da chi tende a negarle, o a liquidarle come fisime di pochi intellettuali. Forse anche Berlusconi, nel fondo di sé stesso, intuiva che West Side Story è meglio di Dallas. La destra classica, che era antipopolare ed elitaria, non aveva dubbi sulla questione. Spesso dubitava che “il popolo” fosse all’altezza della cultura – vedi un po’ come sono mutate le parti.

Prezzolini, nel Manifesto dei conservatori, scriveva: «La cultura è di destra, la radiolina (sic!) è di sinistra». La società di mercato ha rimescolato tutte le carte, e in un certo senso ha ribaltato il tavolo. Oggi il racconto giornalistico e politico attribuisce alla sinistra snob ogni possibile prosopopea culturale; e alla destra la sana valorizzazione dei gusti popolari. Ma è un gioco dei ruoli che ha stufato. Gli anni Ottanta (Sandy Marton e i paninari contro la tetraggine della kultur di sinistra) sono passati da quarant’anni. Forse è ora di congedarsi, tutti quanti, da quel vecchio schemino, e ripartire da un obiettivo che dovrebbe essere, almeno sulla carta, condiviso: cercare la qualità, difenderla, lustrarla, proteggerla, dentro la mediocrità della massificazione, e questa qualità non considerarla elitaria, ma potenzialmente popolare anche quando non è pop.

Dovessi ritrovare Walter Chiari, e dovessi ritrovare il suo orologio, glielo restituirei. Gli direi: te lo sei meritato, perché sei Walter Chiari. Non me ne importa nulla che sei di destra e non vedo perché debba contare, per te, che io sia di sinistra. Rivediamo insieme tutto il tuo lavoro. Constatiamo insieme che Bellissima è un capolavoro, la tua eleganza e la tua eloquenza allegra e composta erano gioielli, invece certi filmetti sono stati solo un modo per fare quattrini (e comperare questo bellissimo orologio). Se su questo siamo d’accordo, ci siamo già detti la sola cosa indispensabile: la qualità e la bellezza esistono, sono nei desideri e nei sogni di ogni essere umano, anche il più umile e il meno istruito, ed è per questo che il Van Cleef & Arpels costa un sacco di soldi. Perché, a differenza dell’orologino che ti ho fatto vincere, è un bellissimo orologio.

Michele Serra
Michele Serra

È nato a Roma nel 1954, ha vissuto quasi sempre a Milano e ora abita in Appennino. Giornalista, scrittore, autore teatrale, scrive su Repubblica la rubrica l’Amaca e sul Post la newsletter Ok Boomer!. È stato autore televisivo lavorando con Gianni Morandi, Adriano Celentano e Fabio Fazio. Tra i suoi libri di maggior successo, tutti editi da Feltrinelli: Canzoni politiche (2000), Gli sdraiati (2013), Ognuno potrebbe (2015), Il grande libro delle Amache (2017), Le cose che bruciano (2019) e il romanzo per ragazzi Osso, anche i cani sognano (2021).

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