Maschi che parlano d’amore (e di matrimonio)

«Chiedendo ai miei volontari se la fedeltà sia mai stata un problema, riscontro un’apertura che va oltre le mie aspettative. Raccolgo una varietà di confidenze profonde, anche dolorose. Non mi aspettavo risposte così pensate. Matteo, per esempio, mi scrive di essere lui stesso stupito di non aver mai combattuto con alcuna tentazione. Vittorio, le cui risposte, per inciso, mi arrivano per il tramite della moglie, scrive: “Ho tradito la fiducia di mia moglie, e ho capito di aver sbagliato”. Per Massimo, invece, “l’importante è non dirselo”»

Cardiff Arms Park, Galles, Regno Unito, 7 aprile 1984 (Mike Powell/Getty Images)
Cardiff Arms Park, Galles, Regno Unito, 7 aprile 1984 (Mike Powell/Getty Images)

Qualche tempo fa ho scritto un articolo che era un intreccio di voci di donne sposate o comunque in relazioni stabili da almeno vent’anni. Avevo lanciato un piccolo sondaggio e la risposta era stata impressionante: 70 volontarie, un centinaio di pagine di testimonianze.

Mi era rimasta una curiosità: e gli uomini? Cosa dicono, cosa pensano gli uomini impegnati in relazioni lunghe?

Mi sono fatta coraggio e ho chiesto. Metodo identico: un sondaggio sui social. Certo, mi è mancata la spinta propulsiva del palco del festival di Faenza, da dove avevo inaugurato la mia prima ricerca, aggiudicandomi alcune risposte dal vivo, ma nonostante abbia rilanciato il post, il campione è risultato più ridotto: 26 volontari, meno della metà.

Non per questo gli esiti sono stati meno sorprendenti. Innanzitutto, ho raccolto oltre cinquanta pagine di interviste: in proporzione, i maschi che hanno risposto hanno scritto di più rispetto alle donne, reagendo alle medesime domande.

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A volte sono intervenute le mogli, girandomi le parole dei mariti (l’eccezione: una mia amica, di primo acchito entusiasta di inoltrare l’intervista al compagno, lette le domande mi ha detto che non aveva intenzione di aprire vasi di Pandora. Aveva le sue ragioni, e ne abbiamo riso). Mi ha colpita poi un ventisettesimo volontario, che dopo essersi proposto ha procrastinato oltre il limite l’invio delle risposte; ma, superata la deadline, mi ha mandato una lettera bellissima sulle ragioni per cui non era riuscito a rispondere (non aveva calcolato che io sarei stata più in ritardo di lui).

Le testimonianze sono arrivate rapidissime: laconiche, oppure lunghissime e dettagliate, rare le vie di mezzo. I volontari si sono detti grati per l’esercizio: qualcuno mi ha ringraziata «per l’opportunità di scrivere pensieri che aleggiano nella mente e nel cuore». Qualcun altro ha commentato che «ogni tanto fa bene fare questi esercizi per capire quanto siamo fortunati».

Il tema della fortuna, e della felicità come variabile che ne dipende, ricorre. E non per caso. In un articolo pubblicato qualche mese fa sul New York Times, David Brooks cita diversi studi, non di psicologia né di sociologia, bensì di analisi economica, a sostegno della tesi che, ai fini della felicità, il matrimonio conti più della carriera.

Oggi «la percentuale dei matrimoni è al suo minimo nella storia degli Stati Uniti (nel 1980 solo il 6% dei 40enni non era mai stato sposato. Mentre nel 2021 la percentuale sale al 25%)». Ma, scrive Brooks, «se avete una grande carriera e un matrimonio schifoso sarete infelici, mentre se avete un grande matrimonio e una carriera schifosa sarete felici. […] Sam Peltzman ha pubblicato uno studio in cui ha mostrato che il matrimonio è il più importante elemento di differenziazione tra persone felici e infelici. […] Gli economisti Shawn Grover e John F. Helliwell hanno studiato due gruppi di adulti nel tempo, alcuni sposati e altri no. Hanno scoperto che il matrimonio determinava livelli più elevati di soddisfazione della vita, soprattutto nella mezza età, quando il livello medio tende a essere più basso. Il matrimonio stesso aveva effetti positivi».

Fra i miei intervistati, che forse avranno letto il testo di Brooks o forse no, emerge la consapevolezza del ruolo giocato dalla fortuna nella sua forma più pura: dalle coincidenze, che sincronizzano incontri, cambiamenti, decisioni.

Per esistere, le coincidenze hanno bisogno di essere riconosciute. Come dice Nicolò, che usa una curiosa metafora per descrivere l’incontro decisivo («è come con l’appartamento che abbiamo comprato insieme: ne avevamo visti tanti, ma quando abbiamo trovato quello giusto lo abbiamo capito all’istante»), non bisogna «trascurare le proprie percezioni, piccoli segnali precoci che ti arrivano già dopo pochi mesi dall’inizio di una relazione».

Fidarsi delle percezioni significa anche non ignorare l’imperscrutabile capriccio del tempo, che mette alla prova la resistenza al logorio della routine – aspetto di cui tutti gli intervistati paiono ben consapevoli, come le controparti nel primo sondaggio. Sandro riassume: «Si parte da giovani innamorati pieni di sogni e ci si scontra contro varie dure realtà (non che i sogni debbano scomparire)».

Giovanni crede a un kairòs che porta i desideri a coincidere segnando le traiettorie di vita: «Ci siamo incontrati nel momento giusto. Non so se esistano le anime gemelle, di sicuro esistono i tempi gemelli». Mi racconta la storia del suo matrimonio e mi accorgo che gli eventi sono scanditi da una sorprendente puntualità, controprova perfetta (o forse origine?) della sua teoria dei tempi gemelli: «Lei diceva che se volevo un figlio allora dovevamo sposarci. Io ho detto se fai tutto tu ok. Quindi ha fatto le carte e ci siamo sposati, ed è stata una festa bellissima che mi ricorderò per sempre e per cui le sarò sempre grato. Ed era vero che se volevo un figlio dovevamo sposarci perché il nostro primo figlio è nato a nove mesi esatti dal giorno del matrimonio».

«Mia moglie mi dice spesso: come sei stato fortunato a incontrarmi. Io rispondo scherzando: non è fortuna, ti ho scelta. Probabilmente sono vere entrambe le cose», scrive ancora Nicolò. E mi pare che nella schermaglia emerga l’alchimia dell’innamoramento: una fortuna riconosciuta.

Incontrarsi al momento giusto non basta. Bisogna esser disposti a rendersi conto delle implicazioni dell’incontro, accoglierne le conseguenze – è questo, forse, che chiamiamo amore: e in tanti mi raccontano che alla fin fine è la ragione più forte per cui si sono sposati. Giulio cita un classico della commedia romantica, Harry, ti presento Sally: «Perché quando trovi la persona con cui vuoi passare il resto della tua vita, vuoi che il resto della tua vita cominci il prima possibile».

«Un amore travolgente», insieme al desiderio di «dare stabilità ai figli di lei», ha convinto Massimiliano a convolare. Marino ricorda che lui e sua moglie, che oggi hanno due figlie grandi, si sono sposati perché aspettavano la prima: «Siamo stati felicemente peccatori». All’interno del mio piccolo campione c’è una certa incidenza di matrimoni contratti per regolarizzare una convivenza già in atto o una gravidanza in corso, tutelando i bambini in arrivo e tranquillizzando i parenti delle future mogli.

Come nell’esperienza di Rolando: «Abbiamo deciso di sposarci perché innamorati; ci sembrava la cosa più naturale del mondo, poi certo i genitori di lei sarebbero stati più tranquilli». O in quella di Antonio: «a essere cambiata dal matrimonio è stata soprattutto mia suocera». Sergio mi racconta un aneddoto buffo: nel suo caso, il progetto è nato per indispettire, anziché compiacere parenti. E per iniziativa non sua, ma della sua allora fidanzata berlinese, in Italia come ragazza alla pari («Dopo sei mesi sarebbe dovuta andare in Israele in un kibbutz per un altro semestre. Ma conobbe me…»): «Nel giugno del ‘78 andammo a casa dei miei a vedere la partita di calcio Italia-Germania, mondiali in Argentina. Finì 0 a 0 e mio padre, che non aveva la mia futura moglie in simpatia, affermò che l’Italia aveva giocato meglio. Nella discussione che ne seguì a un certo punto lei sparò: «Tanto noi il prossimo anno ci sposiamo!»Non ne avevamo parlato in modo approfondito, ma non la smentii. In fondo sembrava normale. Era ed è una donna che ama prendere decisioni».

Ricorrono, come spinte decisive, le ragioni che già emergevano dal sondaggio femminile: burocrazia, tutela dei figli; la voglia di far festa. «Credo che il matrimonio sia un’occasione per le nostre anime di vedersi e affidarsi l’una nella promessa dell’altra. Come quando da piccoli ci si accorda in gran segreto per una missione che ha i caratteri dell’infinito, e nessuno sa di quella scintilla che unisce i due protagonisti. Qui però c’è una cerchia di amici e parenti a far festa, a gioire e sostenere questa scommessa», mi dice Gregorio. Maurizio usa parole toccanti: «Vivere insieme era un desiderio. Con il matrimonio si è realizzato, ma senza dividere l’integrità del sentimento iniziale».

Qualcuno si è sposato in età avanzata, pensando non alle vecchie ma alle nuove generazioni: «La figlia di mia moglie aveva appena avuto una figlia, aveva piacere che la nostra unione fosse ufficializzata. Per noi non è stato un problema, era giusto e lo abbiamo fatto senza problemi», mi scrive Gerardo.

Qualcuno si è sposato perché voleva andare in vacanza. Come Mario, 43 anni, insieme alla sua attuale moglie da più di metà della sua vita, anche se, dice, «quello che amo di più è il fatto che stiamo insieme da 26 anni, ma è come se stessimo insieme da pochissimo»: «Avevamo quasi esaurito i nostri giorni di ferie e sposandoci abbiamo aggiunto i 15 giorni di congedo matrimoniale previsti e siamo partiti per Stati Uniti e Messico. Con il matrimonio non è cambiato niente, abbiamo continuato con la nostra vita di coppia. Forse è stato così anche perché non abbiamo sofferto e subito le ansie dettate dai preparativi per il fatidico giorno. Al matrimonio eravamo sei in tutto: io, mia moglie e i nostri quattro genitori, che sono stati i nostri testimoni in un matrimonio a sorpresa, per loro. Tutto rapido e indolore».

Un tema che emerge spesso (quasi del tutto assente nelle interviste al femminile), è quello della riluttanza. Più di uno racconta di non esser stato, in prima battuta, entusiasta all’idea di sposarsi: chi era indifferente, chi titubante o addirittura contrario, laddove la futura sposa manifestava una convinzione forte o quantomeno una ritrosia meno decisa.

Con notevoli eccezioni: come Dante, che ha visto proprio nella scelta precisa e irreversibile una concreta prova d’amore. «È un salto senza rete da fare in due. Non crediamo agli effetti sananti del divorzio, specie quando ci sono figli, e quindi sposarsi – perdendo la via d’uscita dei semplici conviventi – è il più grande atto d’amore che puoi fare. Ci siamo detti che da quel momento avremmo fatto di tutto per appianare ogni difficoltà».

Giovanni ha potuto parlare di questo con un interlocutore d’eccezione: con una posizione più morbida di quella di Dante, ma orientata nella stessa direzione. «È un rito di passaggio, il fatto di compierlo in due e che sia pubblico lo trasforma in un legame e in una promessa, perché il rito rimane compiuto se il matrimonio resiste. Una volta ne ho parlato con Bernardo Bertolucci, eravamo da soli in una piscina, mi ha detto che quello che cambia è che ci pensi molto di più a non farlo finire e ci metti molta più attenzione a farlo durare. Non so se avesse ragione, però un po’ sì».

Matteo, che si definisce «più noioso di Stoner», e trova oggi «misteriosamente rassicurante» indossare la fede, ha ribaltato una posizione che a lungo gli era parsa irremovibile: «Lei era disposta da mo’, ero io che avevo sempre escluso la cosa, per un rifiuto (quasi ideologico) della sanzione pubblica. Va detto che i miei genitori non erano sposati (ora lo sono, dicono a cagione della reversibilità delle pensioni), e a me, che ho passato la vita da figlio di genitori non sposati – cosa che negli anni ’80 in provincia era ancora poco comune – non dispiaceva questo anticonformismo. Poi ho capito quanto fosse posticcio e mi è invece venuta voglia di coinvolgere il mondo nel fatto che avevo una famiglia nuova, mia, con questa persona. Quindi, gliel’ho chiesto, e non credo se lo aspettasse, ormai. In un certo senso, a questa altezza, è stato più anticonformista sposarsi dopo tanti anni che restare insieme come prima».

I miei volontari, in 25 casi su 26, sono sposati, e da diversi anni, il che significa che anche gli altri indecisi hanno poi cambiato idea, spesso abbracciando l’avventura del matrimonio con l’entusiasmo dei convertiti. Si distingue Daniele, in una relazione da 21 anni (lui ne ha 45), l’unico a proporsi per l’intervista senza essere sposato.

«Non abbiamo deciso di sposarci, sapendo implicitamente che soprattutto io non volevo sposarmi. Non sono credente, dunque non do valore al matrimonio. Diciamo però che stiamo comunque pensando di stipulare un contratto civile per evitare situazioni spiacevoli, come la non possibilità di assistere l’altro in caso di ricoveri ospedalieri o la gestione delle reciproche eredità economiche nel caso di una morte prematura (abbiamo conti separati). Ma si tratterebbe appunto solo di un contratto per evitare complicazioni di natura giuridica. Non credo che sia necessario un prete o una persona laica che stabilisca l’unione oggettiva tra due persone. Si può essere una coppia a tutti gli effetti nel momento in cui entrambi la riconoscono come tale, senza bisogno di terzi. Io, poi, rispetto alla mia compagna ho una certa allergia nei confronti dei riti di passaggio e nelle celebrazioni. Sono una persona egocentrica ma non auto-celebrativa, non mi piace essere festeggiato».

Daniele prosegue il racconto soffermandosi su una peculiarità che attribuisce proprio alla “naturalezza” della vita comune: «Non abbiamo praticamente fotografie insieme e non condividiamo la nostra relazione sui social. Magari, in un futuro segnato da qualche imprevisto doloroso, me ne pentirò. Ma mi piace la mancanza del bisogno di mostrare in pubblico la relazione. Ci muoviamo bene insieme, dunque non c’è bisogno di immortalare questo movimento».

Chiedendo ai miei volontari se la fedeltà sia mai stata un problema, riscontro un’apertura che va oltre le mie aspettative. Raccolgo una varietà di confidenze profonde, anche dolorose. Non mi aspettavo risposte così pensate. In alcuni casi si tratta di un tema che non ha interferito con la vita della coppia; ma spesso, chi risponde così aggiunge una chiosa da cui emerge la consapevolezza della peculiarità e della precarietà della propria posizione. Matteo, per esempio, mi scrive di essere lui stesso stupito per il fatto che «non ho mai combattuto con alcuna tentazione. La cosa è stata sorprendente per me, ma ormai ci sono abituato: l’unica che mi piace così è sempre stata lei, nessun’altra. Mi chiedo se sia un tratto infantile della mia personalità, ma quelle poche occasioni che possono essere capitate non mi hanno mai tentato, nemmeno per un attimo». E aggiunge: «Dalla sua parte, mi pare che ci sia stato qualcosa di simile. Non so se e come affronteremmo la cosa, dovesse presentarsi ora. Non sono sicuro che la prenderei bene».

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Mario, che finora non ha mai sentito l’impulso di tradire, non esclude «che uno dei due, un giorno, possa innamorarsi di un’altra persona o capire che questo rapporto non è più sufficiente e senta l’esigenza di avere qualcosa di diverso».
Per la maggior parte degli intervistati si è trattato comunque di una questione dibattuta, nodale. Mi parlano di “tentazioni” frenate per rispetto e amore della compagna; o anche, molto semplicemente, perché per quanto le occasioni si presentassero, mancava una spinta abbastanza forte da spingere a tradire la persona con cui si condivide la vita. In altri casi, l’infedeltà viene ammessa – con un certo candore: «Dopo tanti anni non hai quel che di mistero che serve. Non sono di quelli che crede che le cose nella coppia si aggiustino con le parole. A questa età, se dessi retta all’impulso sessuale, correrei dietro a tutte quelle che trovo piacenti. Ho amici che l’hanno fatto», dice Mirco.

Vittorio, le cui risposte, per inciso, mi arrivano per il tramite della moglie, riassume in poche parole un viaggio accidentato: «Ho tradito la fiducia di mia moglie, ho capito di aver sbagliato, e insieme abbiamo ricominciato il nostro percorso perché ci sono ragioni profonde che ci legano».

Diversi mi raccontano di essere stati traditi. In qualche caso, rispondendo a loro volta con una relazione extraconiugale, ma sempre cercando, poi, di ricomporre i pezzi (Sergio dice: «Se siamo ancora insieme è segno che le voglio bene, nonostante tutto. Certo le corna hanno lasciato il segno, ma riconosco di avere avuto anch’io le mie colpe, per egoismo e superficialità»).

Mi domando se questo aspetto non abbia una relazione con il loro offrirsi volontari per l’intervista: in molti casi, alla scoperta dell’infedeltà è seguito un periodo di analisi, o comunque di necessaria riflessione sui limiti e i punti critici della vita di coppia. Mi stupisce la lucida schiettezza con cui Gregorio racconta: «Poi ho scoperto un tradimento di mia moglie… il più grande dolore della mia vita. Ti assicuro, il cuore che si sgretola. È stato durissimo, mi ha scosso nelle fondamenta e da un mare di dolore sono fiorito, diventando più consapevole… a 42 anni ho iniziato a svegliarmi alla vita. Capire come sia potuto succedere, le mie responsabilità e il mio ruolo è stato un percorso complesso e lungo. Ho capito che siamo profondamente diversi, complementari direi, ma diversi. La asincronia è difficile da gestire perché quanto tu tendi a qualcosa l’altro si trova dalla parte opposta e questa distanza fa sentire soli. Penso, sento, che capita a entrambi».

Massimo introduce qualche variabile nella monolitica accezione in cui spesso si impiega la parola tradimento: «La fedeltà è un fatto molto convenzionale e l’essere umano a mio avviso non è per sua natura monogamo. Mi è capitato di tradire fisicamente ma mai ho pensato per un solo istante di desiderare vivere con un’altra donna. E non posso escludere che sia successo anche a lei. Se il tradimento è solo fisico e non c’è innamoramento, dal mio punto di vista è tollerabile. Amo mia moglie e non la cambierei con nessun’altra, ma l’attrazione fisica e la chimica non durano in eterno e qualche scappatella clandestina, se sono solo storie di sesso, può anche far bene alla relazione».
E conclude con un’osservazione che mi colpisce, anche perché ricorre in altre testimonianze: «L’importante è non dirselo (perché non si compie un gesto di onestà nel rivelare un tradimento, bensì solo di inutile ed egoistica liberazione della coscienza)».

Sul tema della sincerità riscontro due tendenze opposte: c’è chi sostiene che sia fondamentale «non avere tabù», e anzi attribuisce la longevità della propria coppia alla pratica del «parlare, parlare, parlare»; diciamo, dunque, affiliandosi alla coraggiosa (e rischiosissima) scuola dei protagonisti di Doppio sogno di Arthur Schnitzler, marito e moglie che decidono, per seduzione e per gioco, di rivelarsi fino ai desideri più indefinibili. E chi sembra più incline a proteggersi dagli eccessi della sincerità come il Massimo Troisi di Pensavo fosse amore… e invece era un calesse, che implora di esser tenuto all’oscuro delle verità che feriscono. Come Mirco: per lui, il segreto di una relazione longeva è «non dirsi tutto e lasciare delle zone d’ombra. Le coppie che si dicevano tutto sono le prime che ho visto separarsi fra gli amici. Io e mia moglie, che ci siamo conosciuti da adolescenti e sembravamo sempre sul filo, senza quell’atteggiamento da innamorati permanenti, siamo ancora qui».

Ancora una volta, come mi era successo intervistando le donne, mi rendo conto di quanto sia importante, al di là delle abitudini e dei luoghi comuni, trovare una formula irripetibile che permetta di inventarsi, nella relazione, una propria forma creativa di felicità. Lo dice bene Giulio: «Se ci fosse una ricetta buona per tutti, sarebbe pubblicata a caratteri cubitali in tutte le strade e le piazze, e tanti avvocati e qualche filosofo sarebbero disoccupati. Ognuno deve trovare il suo, di segreto: come individuo e come parte di una coppia». È la sola via possibile per «volare sulle difficoltà», «viaggiare alla stessa velocità»: le metafore di moto ricorrono con una frequenza impressionante. Giovanni è molto preciso: «Si pensa sempre al matrimonio come a un fenomeno statico, invece è la cosa più dinamica che esista».

Giuseppe, ingegnere, ha sposato un’ingegnera dopo una lunga militanza politica che in un primo tempo li aveva portati a escludere il matrimonio («il nostro comune impegno politico totalizzante (di militanti di Lotta Continua) si stava affievolendo e, di conseguenza, c’era il desiderio di recuperare un modo di vivere meno “impegnato”, più intimo, meno collettivo»). Hanno «impostato il rapporto con molto disincanto, convinti che niente può essere duraturo, dividendoci le mansioni domestiche e facendo cassa comune». Se oggi, a 47 anni dal matrimonio e 50 dall’inizio della relazione, sono ancora insieme, è per via della costante «manutenzione spinoziana degli affetti».

In un contesto in cui i divorzi sono sempre più frequenti, quando chiedo il segreto della longevità della coppia, molti mi confessano il loro stesso stupore di essere riusciti ad attutire «l’attrito delle rispettive nevrosi», come riassume Matteo. «Mantenere la ragione e la lealtà è la strada più arcigna da percorrere», racconta Maurizio, che ha 58 anni e una relazione da 36. Perché le difficoltà, anche se l’amore è forte, trovano il modo di manifestarsi, crudeli come le leggi inesorabili del mondo. Efficace la sintesi di Gianni: «Finché non ci sono state difficoltà economiche si è stati bene e sempre meglio. Con la nascita di nostro figlio è stato sempre più bello. Dopo, con le difficoltà serie, sono nate incomprensioni e tensioni».

Insomma: qual è, se c’è, il trucco per durare?

«Il segreto, nel nostro caso, è forse che non ci siamo mai fatti carico di dire, trent’anni fa, dobbiamo durare, dobbiamo mettere in piedi una relazione longeva… sono convinto che la nostra relazione sia stata costruita nella sua longevità giorno per giorno con un cammino quotidiano, lasciando sempre qualcosa per il domani», mi dice Alessio.

Qualcuno però ha ricette più concrete: Massimiliano tiene fede a tre punti fermi:

– non mi annoio a stare con te;

– non ti faccio annoiare quando stai con me;

– mi metto sempre nei tuoi panni.

Ancor più pratico Marco, il più laconico e sarcastico di tutti: il segreto, secondo lui, è «far funzionare la lavatrice». Come nelle interviste alle donne, riscontro che il dialogo, la vicinanza, il sesso, il rispetto, il confronto e l’autonomia reciproca hanno un ruolo ricorrente nella stabilità di coppia. Antonio fa notare che serve anche «un po’ di culo», e non ha torto.

Rolando rivela una scoperta: «Mia moglie pensava che io ci tenessi a fare sempre tutto insieme, perché a volte le facevo notare la sua tendenza ad isolarsi, ma in realtà anche a me fa piacere rilassarmi in compagnia di un bel libro, o facendo una passeggiata, contemplando le bellezze dei paesaggi e delle persone».

Il riconoscimento della reciprocità dei bisogni – il vedere l’altro, o l’altra, come una persona intera, con una sua vita segreta, mi pare una maniera efficace per dire cosa può essere, in fondo, l’amore. Come in una bellissima pagina dei diari di Robert Musil: lo scrittore è a letto in una stanza di hotel e guarda la moglie che si prepara per la notte, e nella minuzia di quei gesti che nella routine di casa restano invisibili mette a fuoco la sua irripetibile, concreta, minuziosa presenza. La vede, e la ama poiché la vede.

Perché alla fine, come dice Giovanni: «Credo che l’amore sia soprattutto attenzione, il matrimonio anche manutenzione».

Ilaria Gaspari
Ilaria Gaspari

È nata a Milano. Il suo ultimo libro è La reputazione (Guanda, 2024). Vive a Roma, collabora con diverse testate e con Rai Radio 3, e tiene corsi di scrittura.

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