Perché a volte nelle liste elettorali ci troviamo anche i soprannomi

“Giacinto Pannella detto Marco”, “Giuseppe Sala detto Beppe”, ma anche “Federico Petitti detto Petiti, Pettiti, Pettitti, Petti”: sono i partiti che mettono le mani avanti

(ANSA/MATTEO BAZZI)
(ANSA/MATTEO BAZZI)
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Quando si va a votare in elezioni in cui per esprimere una preferenza è necessario scrivere il nome di un candidato o di una candidata sulla scheda elettorale, e non solo sbarrare un simbolo, può capitare di vedere nelle liste alcuni candidati indicati con la dicitura “Tizio detto Caio” o “Tizia nota Sempronia” (nel senso di: “nota come Sempronia”). È un espediente molto diffuso: serve in teoria a evitare di perdere voti nel caso in cui un elettore sbagli a scrivere un nome sulla scheda, soprattutto quando le liste sono piene di candidati e ci sono cognomi simili e potenzialmente confondibili. Oppure serve quando, specialmente alle elezioni locali, un candidato è noto soprattutto con un diminutivo del nome o con un soprannome.

Lo si fa abitualmente da tempo: un esempio famoso è quello dell’ex leader dei Radicali Marco Pannella, che sulle liste elettorali era “Giacinto Pannella detto Marco”. Il fatto che avesse due nomi rendeva chiaro il motivo della precisazione, anche perché tutti lo conoscevano come Marco e il nome Giacinto era indicato come primo per via di un errore burocratico, come raccontò lui stesso. Un esempio banale più recente è invece quello del sindaco di Milano, che nelle liste dei candidati è sempre “Giuseppe Sala detto Beppe”, il diminutivo con cui viene spesso chiamato: in questo modo se anche un elettore scrivesse sulla scheda semplicemente “Beppe” il voto potrebbe essere attribuito a Sala.

Di recente in Sardegna c’è stata una piccola polemica sul modo con cui veniva indicato il nome di una candidata consigliera sulla scheda elettorale per le elezioni regionali. La candidata si chiama Anita Sirigu e il suo nome era tra quelli della lista congiunta dei partiti Azione e +Europa nella circoscrizione di Cagliari. Sulla scheda veniva indicata come «Anita Sirigu nota “Soru”» (nel senso di “nota come Soru”), in un modo cioè che le permetteva di ricevere i voti sia nel caso in cui gli elettori avessero scritto “Sirigu”, sia nel caso in cui avessero scritto “Soru”.

“Sirigu” però è decisamente diverso da “Soru”, e soprattutto “Soru” è il cognome di un’altra candidata nella circoscrizione di Cagliari: Camilla Soru, che però era sostenuta dal PD. Le cose erano ulteriormente complicate dal fatto che Camilla Soru è la figlia di Renato Soru, noto imprenditore ed ex presidente della Sardegna dal 2004 al 2009, che a queste elezioni era candidato come presidente e sostenuto tra gli altri proprio da Azione e +Europa, la lista di Sirigu, quindi in una coalizione opposta a quella della figlia (circostanza che non è passata inosservata).

Camilla Soru ha accusato Azione e +Europa di aver sfruttato in malafede la possibilità di indicare un soprannome nelle schede per sottrarle dei voti, travisando però del tutto il motivo per cui viene data quella possibilità ai candidati. Alcuni rappresentanti della lista di Azione e +Europa hanno risposto che Sirigu è nota tra loro proprio come “Soru”, ma l’argomentazione non sembra reggere: la stessa Sirigu ha infatti detto che nessuno la conosce in questo modo e che non aveva «alcuna idea di tale accostamento, che non corrisponde in alcun modo alla realtà».

La legge italiana non ha restrizioni particolari sull’uso dei soprannomi nelle liste elettorali. In generale sulle questioni elettorali vige il principio del cosiddetto favor voti, o della “conservazione del voto”: quello per cui nel giudicare la preferenza espressa in una scheda elettorale bisogna sempre cercare di privilegiare la volontà dell’elettore, quando non ci sono motivi ragionevoli per metterla in dubbio. Se non ci sono altri “Beppe”, per esempio, un voto per Beppe Sala può essere considerato valido anche se viene espresso solo con l’indicazione del soprannome.

In base al principio del favor voti l’indicazione del soprannome non dovrebbe quindi essere necessaria, ma di fatto per evitare ricorsi e conflitti di attribuzione con le parti politiche avverse i partiti tendono sempre più spesso a premunirsi e mettere le mani avanti, anche in modo eccessivo. Questa abitudine in anni recenti ha prodotto nomi sulle liste elettorali che possono sembrare persino paranoici: alle ultime regionali nel Lazio dell’anno scorso un candidato consigliere di Azione era “Federico Petitti, detto Petiti, Pettiti, Pettitti, Petti”. In Lombardia invece un candidato di Forza Italia era «Daniele Cassamagnaghi, detto Cassa detto Magnaghi». Silvia Maullu di Fratelli d’Italia, sempre candidata in Lombardia, era «detta Maullo detta Maulo detta Maulu».

I partiti in questo modo si assicurano insomma di non avere problemi di schede considerate nulle con i cognomi più difficili o più facilmente travisabili, oppure di non dare la possibilità di ricorsi agli avversari: generò qualche discussione nel 2021 il caso di Cecilia Frielingsdorf, candidata consigliera a Roma nelle liste di Carlo Calenda, che veniva indicata semplicemente come «detta Cecilia», per evitare a chi volesse votarla di dover scrivere il cognome per intero, piuttosto complicato e inusuale per gli italofoni.

Ma in quelle stesse elezioni ci furono anche casi assai meno giustificabili, con soprannomi usati per fini spregiudicatamente politici che furono notati: nella lista del noto critico d’arte Vittorio Sgarbi c’era per esempio un candidato consigliere che veniva indicato come “Franco Deiana detto Sgarbi”. O ancora un altro che era “Alessandro Balli detto Michetti”, cioè il cognome del più noto Enrico Michetti che a quelle elezioni era il candidato sindaco sostenuto dalla destra. In quei casi l’intento era di evitare di perdere preferenze per i consiglieri in tutte le schede con voti espressi in modo maldestro: un elettore poco consapevole del funzionamento della scheda elettorale potrebbe infatti decidere di scrivere nello spazio bianco che vede davanti a sé semplicemente il nome del politico a lui più familiare, magari quello candidato sindaco o presidente, senza sapere che in quel modo il voto non va ad alcun candidato consigliere.

Un fac-simile della scheda delle elezioni regionali in Sardegna

In una scheda come quella qui sopra, per esempio, bisognava barrare il nome del candidato presidente nella colonna di destra e scrivere fino a due nomi di candidati consiglieri nella colonna di sinistra.

È probabilmente per un motivo simile che alle regionali in Sardegna Anita Sirigu è diventata “Soru”: senza quell’indicazione se qualcuno avesse scritto il nome di Soru nelle liste di Azione e +Europa con l’intenzione di votare Renato, il candidato presidente collegato a quella lista, avrebbe involontariamente potuto dare un voto a Camilla Soru, che invece era candidata col PD a sostegno di Alessandra Todde come presidente. Camilla Soru invece sosteneva che fosse un modo per confondere gli elettori e fargli credere di star votando per lei, mentre si dava la preferenza a Sirigu. In caso di impossibilità nel distinguere l’intenzione dell’elettore, come richiede il principio del favor voti, la scheda avrebbe potuto essere annullata.

Uno dei motivi per cui si possono generare spesso conflitti e ricorsi è che il principio del favor voti deve essere equilibrato con la necessità della segretezza del voto: gli elettori devono cioè fare in modo di non rendere riconoscibili le proprie schede, che altrimenti non sono considerate valide. È il motivo per cui sulla scheda non si possono fare simboli oltre a una “X” sul nome o sul partito che si sceglie, per esempio (ci sono comunque dei margini di tolleranza, e la valutazione viene fatta caso per caso).

Indicare un candidato con un soprannome o un nomignolo particolare può essere interpretato come un tentativo di rendere riconoscibile la scheda, e per questo per evitare fraintendimenti molti candidati indicano ogni possibile soprannome accanto al nome. È un espediente che difficilmente ha un grosso impatto sugli esiti finali del voto, nemmeno in un caso limite come quello di Sirigu e Soru in Sardegna: ma farlo costa poco, e può evitare guai a cose fatte nell’ipotesi in cui un’elezione si decida per pochissimi voti.