Sono vent’anni che chiamiamo i podcast così

Da quando, nel febbraio del 2004, il giornalista inglese Ben Hammersley decise che serviva un nome per le «radio scaricabili» che cominciavano a spuntare online

Una bambina milanese di otto anni, Monica Congia, parla alla radio nel 1977 (AP Photo/Raoul Fornezza)
Una bambina milanese di otto anni, Monica Congia, parla alla radio nel 1977 (AP Photo/Raoul Fornezza)
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Nei primi anni Duemila, quando il web era ancora popolato da una frazione delle persone che lo usano oggi, alcune radio pubbliche e appassionati cominciarono a caricare su internet un nuovo tipo di media. Erano dei file audio digitali creati senza bisogno di particolari attrezzature o permessi, e pensati per essere pubblicati su internet e scaricabili da chi volesse su computer, palmari, lettori mp3 o anche telefoni cellulari.

Il giornalista britannico Ben Hammersley fu il primo a proporre un nome per questo nuovo formato, e per la tecnologia che lo rendeva possibile. Nel febbraio del 2004, in un articolo sul Guardian, si domandò «come dovremmo chiamare [queste radio amatoriali digitali]? Audioblogging? Podcasting? GuerrillaMedia?». Tra le tre opzioni si sarebbe imposta “podcast”, una combinazione di “iPod”, il famoso prodotto compatto di Apple per ascoltare musica in formato mp3, e “broadcast”, ovvero “trasmissione” in inglese.

Un anno più tardi, durante una conferenza, il fondatore di Apple Steve Jobs domandò al pubblico quante persone avevano già sentito parlare di “podcast”. Nessuno alzò la mano. Ma nei vent’anni successivi, i podcast sono diventati un formato estremamente diffuso, su cui milioni di persone fanno affidamento per informarsi o intrattenersi e in cui molte si cimentano.

Quando Hammersley pubblicò il suo articolo sul Guardian, online di podcast se ne trovavano pochini. C’erano vari audiolibri offerti da Audible, azienda tuttora tra le più grandi del settore, che pubblicava anche, tra le altre cose, un podcast sul sesso, In Bed with Susie Bright, messo su internet perché «sostanzialmente impossibile da mandare in onda in radio per via del suo linguaggio esplicito». C’erano vari podcast dedicati alla tecnologia, dato il tipo di utenti che già passavano molto tempo online all’epoca. E c’erano un po’ di cose bizzarre con un seguito di ascoltatori fidati, come QuietAmerican.org, una collezione di suoni di strada registrati durante i viaggi dell’autore nel sud-est asiatico: «troppo brevi e privi di contesto per una trasmissione classica, sono perfetti per essere scaricati o ascoltati online», scrisse Hammersley.

In Italia Alessandro Piccioni, podcaster e fondatore dell’agenzia di comunicazione Tonidigrigio, ricorda che esisteva già qualche podcast nel 2004: uno lo faceva il blogger e scrittore Jacopo Fo, che diceva di produrre «controinformazione allo stato puro» raccontando «informazioni censurate dalle tv e discorsi scomodi che i giornalisti di regime preferiscono dimenticare per non perdere il lavoro». Un altro lo faceva la sezione dei Radicali del Friuli Venezia Giulia, ed è stato attivo dal 2004 al 2021.

– Leggi anche: Cosa serve per produrre un podcast

Il primo podcast di grosso successo internazionale però uscì solo una decina di anni dopo: Serial raccontava un’indagine giornalistica sulla vicenda realmente accaduta dell’omicidio di Hae Min Lee, una studentessa di un liceo di Baltimora, avvenuto nel 1999. La storia era raccontata dalla giornalista Sarah Koenig, già famosa per essere stata tra le produttrici di uno dei programmi radiofonici più celebri degli Stati Uniti, This American Life, e attrasse milioni di ascoltatori: secondo i dati di Apple, solo la prima stagione venne scaricata più di 300 milioni di volte.

Oggi, con le piattaforme di streaming audio, produrre e pubblicare un podcast continua a essere molto economico e negli ultimi anni l’offerta è aumentata tantissimo. In Italia secondo il più recente Digital News Report del Reuters Institute for the Study of Journalism il 30 per cento delle persone ascolta podcast almeno una volta al mese, ma raccogliere dati precisi è piuttosto complesso, anche perché manca una metodologia condivisa su chi conti come ascoltatore e su come interpretare il dato del numero di download per episodio.

Secondo l’Economist, nei prossimi anni molti podcaster cominceranno a pubblicare video in cui parlano piuttosto che semplici tracce audio (per andare incontro alle esigenze di un maggior numero di utenti, quelli che vogliono qualcosa da guardare e quelli che invece vogliono solo ascoltare): è un fenomeno che si può già osservare su YouTube e TikTok, e che è stato adottato da alcuni dei podcaster più ascoltati al mondo, come l’americano Joe Rogan. «Qualunque cosa accada al settore, l’impatto dei podcast sulla narrazione audio rimarrà», dice l’Economist. «Perché i podcast offrono qualcosa che il pubblico brama: la trasparenza. Invece di leggere interviste ingessate, gli ascoltatori assistono a intere conversazioni. Invece di ascoltare servizi radiofonici di pochi minuti, gli ascoltatori vengono guidati attraverso intere indagini nell’arco di ore».

– Ascolta anche: L’offerta di podcast del Post