Il collezionista di televisori
«In Italia le trasmissioni regolari della Rai iniziarono il 3 gennaio 1954, settant’anni fa. Per questo negli spot del festival di Sanremo sono apparsi vecchi televisori. Quando il collezionista vede quello con Amadeus, sorride: “Questo è un Körting, è della fine degli anni ’60”. Nella sua mansarda wunderkammer piena di televisori ordinatamente esposti, mi mostra un Philips del 1952, prodotto a Monza. Era utilizzato già durante le trasmissioni sperimentali e veniva dato in affitto: non pagavi il canone ma per guardare dovevi mettere una monetina in una scatolina, come un jukebox. Periodicamente gli addetti passavano a ritirare le monetine, e se lo avevi usato poco te lo ritiravano»
Il collezionista me lo dice sorridendo, mentre saliamo le scale che conducono alla parte più pregiata della sua collezione. L’oggetto che indica è un mobiletto di legno lungo e stretto con una finestrella nella parte alta, un piccolo schermo, davvero davvero piccolo. Mi spiega che è un televisore inglese del 1946, uno dei suoi pezzi più antichi. A quei tempi il trasformatore generava alta tensione non appena l’apparecchio veniva collegato alla presa, «c’era il rischio di beccarsi una bella scarica» mi racconta il collezionista, «l’inglese che me l’ha venduto mi ha detto che per questo la chiamavano “the widows maker” “il fabbrica vedove”».
L’uso di una nuova tecnologia prevede sempre una fase di addomesticamento, che oscilla tra la meraviglia e l’ansia, e crea anche qualche leggenda. In un articolo intitolato «La bella paura di una volta chi la prova più?», pubblicato dal quotidiano milanese serale Corriere d’informazione nel 1955, tra le ansie «del mondo dei nostri vecchi» si racconta di quando si andava a trovare chi possedeva la luce elettrica per partecipare a «un esperimento un po’ diabolico»: gli ospiti formavano una catena umana dandosi la mano, poi il primo “stuzzicava” con la punta di un ferro da calza l’attacco vuoto della lampadina, per prendersi la scossa e raccontare di avere fatto esperienza della luce elettrica, della modernità, del futuro: «Siamo andati a sentire la scossa a casa del cavaliere» scrive ironicamente l’autore dell’articolo, che paragona quelle visite del passato a quanto nel 1955 stava accadendo con il televisore.
In Italia le trasmissioni regolari dei programmi televisivi da parte della Rai iniziarono il 3 gennaio 1954, più di settant’anni fa. Forse anche per questo negli spot del festival di Sanremo sono apparsi vecchi televisori: «Sanremo si ama» dice lo slogan, ma l’amore che Amadeus e alle sue spalle Marco Mengoni, Lorella Cuccarini, Teresa Mannino, Giorgia, Fiorello dimostrano dialogando con questi apparecchi sembra più universale, riguarda il televisore e la televisione in generale. Il festival, che era nato nel 1951 per la radio, diventa televisivo già nel 1955 e impone da subito nuove regole, come dimostra una circolare della Rai riportata da Eddy Anselmi nel suo libro Il festival di Sanremo: «Alle cantanti è fatto l’obbligo di indossare toilettes decenti perché la trasmissione sarà teletrasmessa».
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Quando il collezionista vede lo spot con Amadeus e gli altri conduttori, sorride: «Questo è un Körting, è della fine degli anni ’60. Era quasi un giocattolo, fatto per funzionare a 12 volt e lo usavi in macchina o all’aperto fuori casa». Negli altri due spot, quelli solo con Amadeus, riconosce invece un Saba del 1980 e un Itt del 1984. Di fronte allo spot in cui Amadeus sussurra all’apparecchio «Questo è un amore che durerà tutta la vita. Solo a guardarti mi emoziono ancora», anche il collezionista sussulta un po’: «Questo televisore è molto bello, è un Radio Allocchio Bacchini del 1954/1955».
Anni fa, durante le sue ricerche – ormai tutte online sul marketplace di Facebook – si era imbattuto in un modello del 1953 che lo aveva colpito molto: un ART Radio Milano, piccola azienda milanese che aveva creato i primi televisori in concorrenza con la Geloso, altro storico marchio. Aveva subito contattato il proprietario, un signore di più di settant’anni che si ricordava di quando da bambino ad Agrate, vicino a Milano, la sua famiglia era stata la prima ad aver avuto la tv «prima dell’ufficialità della tv»: vicini, amici, parenti si presentavano con la loro sedia e si sedevano intorno al televisore per vedere le prime brevi trasmissioni, ed era come raccogliersi intorno a una cosa importante, che contemporaneamente era anche un evento solenne. Ma anche dopo l’inizio delle trasmissioni regolari nel 1954, guardare la televisione rimase per molto tempo un atto pubblico e condiviso.
«Quando guardo la mia collezione, più che vedere l’oggetto, ricordo le storie di chi me l’ha dato o come l’ho recuperato, e alcune sono divertenti», mi dice il collezionista, che vive nella sua casa (un po’ museo) a Cassina de’ Pecchi, un comune a nord-est di Milano. L’ho conosciuto anni fa per un documentario, e sono rimasta affascinata dai suoi oggetti e dalla passione con cui ne parla, che cominciò nel 1981, quando aveva 9 anni e spiava la collezione di giradischi e televisori del suo vicino di casa. Fu un innamoramento, come quello degli italiani settant’anni fa. Secondo i dati Istat nel 1954 gli abbonamenti privati erano circa 72.000 perché le televisioni costavano, e solo alcune famiglie potevano comprarle, condividerle e sfoggiarle. Per questo esistevano anche apparecchi a consumo.
Nella sua mansarda wunderkammer piena di televisori ordinatamente esposti, il collezionista mi mostra un Philips del 1952, una scatolotto allungato in legno, elegante e compatto, prodotto a Monza. Era utilizzato già durante le trasmissioni sperimentali e veniva dato in affitto: non pagavi il canone ma per guardare dovevi mettere una monetina in una scatolina, come un jukebox. Periodicamente gli addetti passavano a ritirare le monetine, e se vedevano che lo avevi usato poco te lo ritiravano. È stata questa, mi racconta, la prima tv importante acquistata da Alfonso, un suo amico appassionato rivenditore. «L’ho incontrato anni fa a una fiera, sulla sua bancarella c’era un televisore che mi interessava, gli ho chiesto il prezzo e lui mi ha risposto: “Vuoi farne un acquario o un presepe?”. “No”, ho detto io, “voglio farlo funzionare”. Siamo diventati amici».
Ogni collezionista ha le sue prerogative. Al televisore che mi mostra ora – la scocca è sempre in legno massiccio, ma lo schermo è molto più ampio – il collezionista teneva molto perché era lo stesso modello che le due prime annunciatrici, Fulvia Colombo e Marisa Borroni, abbracciano sulla copertina del 27 dicembre 1953 del Radiocorriere, la rivista settimanale organo ufficiale della RAI dal 1925. Nelle pagine interne si spiega: «Gli studi televisivi di Milano, di Torino, di Roma porteranno nelle vostre case con le nitide immagini la testimonianza diretta e immediata degli avvenimenti di tutto il mondo e i programmi sempre più intensi d’arte, di cultura, di scienze e di ricreazione».
Come racconta il professore dell’Università di Bologna Luca Barra nel saggio Evanescenti fantasmi (si trova qui), la fase sperimentale che va dal 1949 al 1953 non servì soltanto ai tecnici per maneggiare la nuova tecnologia, ma anche a dirigenti, registi, autori e personaggi televisivi per capirne e inventarne il linguaggio. La tv era anche e soprattutto un’attrazione, come l’elettricità lo era stata per la generazione precedente. Nella trasmissione Rai del 1964 Dieci anni di televisione, un rivenditore racconta che nel 1948 a Palermo, quando le trasmissioni non c’erano ancora, già vendeva apparecchi, spesso d’importazione americana: «Lo compravano per poter dire: Io ho il televisore».
Fu una progressiva epifania, dalle prime esibizioni nelle fiere la televisione arrivò nei cinema, nei bar, nelle prime case e poi in quasi tutte. All’inizio la visione condivisa nelle case dei pochi che possedevano un televisore era un momento di aggregazione e di festa, e talvolta anche un’invasione: «Come devo fare a sopportare pazientemente numerosi ospiti che ogni giovedì sera fruiscono in casa mia per assistere a Lascia o raddoppia? E che durante la trasmissione fanno dei commenti e chiedono il mio parere? A parte poi il fatto che ciascuno arriva con il proprio comodo a trasmissione iniziata». Scrive così nel 1956 una lettrice di Grazia alla rubrica di consigli tenuta dal nuovo idolo televisivo, Mike Bongiorno.
Nei bar il televisore veniva collocato in alto, su qualche mobile o scaffale, e assumeva così un’aria ancora più solenne. È difficile credere che sia successo anche all’Allocchio Bacchini del 1954 che mi fa vedere adesso il collezionista. È uno scatolone in legno pesante, pure pericoloso se posto in alto. Per comandarlo a distanza si usava un rudimentale filo-comando, cioè un filo lungo 4 o 5 metri collegato al bottone di accensione e spegnimento. Tanto c’era un canale solo. Il collezionista lo ha avuto in regalo dal signor Palmiro di Milano, un tecnico che da ragazzino gli aveva insegnato a riparare i televisori e che lo teneva sul balcone, impossibile da spostare, per questo fu calato con un sistema di corde sul portapacchi della macchina del collezionista parcheggiata di sotto. Ma un pezzo prezioso si può trovare anche in una discarica o in un pollaio. È il caso del Phonola da 17 pollici del 1956, che aveva ancora i segni delle beccate. Possiede anche quello da 21 pollici, di cui esistono solo 500 esemplari. Opera degli architetti Dario Montagni, Sergio Berizzi, Cesare Butté, è al MoMA di New York.
Durante i primi anni della tv, gli italiani addomesticano il nuovo mezzo, e lo accolgono nelle loro case attraverso un processo culturale complesso (e ricostruito nel libro di Cecilia Penati Il focolare elettronico). Le prime pubblicità della Rai non riguardavano i programmi ma la tv stessa, presentata come una finestra sul mondo per completare la casa moderna e dare svago a tutta la famiglia. La tv pian piano si diffonde e occupa uno spazio importante in casa, tra gli oggetti da mettere in mostra. La scocca in legno, che racchiude lo schermo e la parte tecnica, mimetizza la nuova tecnologia tra gli altri arredi. Le riviste femminili consigliano come arredare il salotto “locale principe della casa borghese”, e allo stesso tempo avvertono le mogli che la tv può essere una rivale nella competizione per ottenere l’attenzione dei mariti…
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Nel 1960 ci sono le Olimpiadi a Roma, la Rai le trasmette e aumenta così anche il numero dei televisori venduti: gli abbonati Rai sono circa due milioni. Intanto il piccolo schermo diventa un oggetto di design grazie all’azienda Brionvega e al lavoro dei designer Marco Zanuso e Richard Sapper: lo stile del modello Doney (1962) e dell’Algol (1964), esposti al MoMA, è pulito, raffinato, quasi futuristico. D’altra parte sta iniziando l’avventura dell’uomo nello spazio, e molti televisori sembrano arredi per navi spaziali. Come i due Keracolor inglesi del 1969-70, che ricordano capsule e caschi spaziali, recuperati in macchina fino in Scozia. Ma il pezzo che mi piace di più è un Condor italiano ancora del 1969-70. Lo schermo emerge nero e brillante dal cubo che lo contiene, anche se per accendersi gli ci sono voluti quasi 40 secondi, un’infinità. Eppure l’effetto è stupendo: l’apparizione dello schermo è una meraviglia, perché da lì sembra poter uscire di tutto. Sembra quasi il monolite di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, del 1968.
I televisori spesso sono un viaggio nel tempo in cui sono stati creati (ma a volte mostrano spesso come quel tempo immagina il futuro). Per questo il primo lavoro del collezionista come “scenografo vintage” è stato nel film La Leggenda di Al, John e Jack (2002), ambientato a New York nel 1959. La produzione gli ha fatto recapitare a casa dall’America due televisori vuoti che lui ha restaurato all’esterno, inserendo all’interno la tecnologia televisiva di fine anni Novanta, in modo che potessero trasmettere delle immagini. L’immagine sullo schermo che si vede nel film è reale, non è appiccicata in post produzione: «L’oggetto vero ha sempre un altro fascino, un’altra sostanza». Ma il collezionista ha lavorato anche per X Factor, per la sfilata dello stilista Charles Jeffrey Loverboy, per il video musicale della rapper Chadia Rodriguez, e sogna di fare funzionare i suoi televisori per qualche videoartista (ammira molto il lavoro di Nam June Paik). «Quando vedo i miei apparecchi su uno scaffale sono belli ma non dicono niente. Voglio riuscire a farli raccontare, a farli vivere, a far dire loro qualcosa».
Il collezionista considera ormai finita la sua collezione. Ha molti pezzi e ormai possiede anche gli apparecchi rari che desiderava, come la tv meccanica, la prima forma di televisore inventata da John Baird nel 1925. Per il resto la collezione di Valerio Marchesi – è questo il suo nome – si ferma all’inizio degli anni 2000: gli schermi ultra piatti e la loro tecnologia non lo affascinano.