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  • Mercoledì 14 febbraio 2024

Il caso di Alessia Pifferi e la protesta degli avvocati di Milano contro la procura

Il pubblico ministero che sta seguendo il processo contro la donna accusata di aver fatto morire la figlia di stenti ha aperto un'inchiesta sulla difesa, con metodi che stanno facendo discutere

Alessia Pifferi durante il processo: è accusata di aver lasciato morire di stenti la figlia di 18 mesi
Alessia Pifferi durante il processo: è accusata di aver lasciato morire di stenti la figlia di 18 mesi (Claudio Furlan/LaPresse)
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La camera penale di Milano, l’associazione degli avvocati penalisti che discute con la magistratura dei problemi della giustizia, ha annunciato una giornata di astensione dall’attività giudiziaria. Sarà il prossimo 4 marzo. L’astensione non è un vero e proprio sciopero, anche se gli effetti sono simili: avvocati e avvocate non lavoreranno per protesta. L’unica eccezione riguarda i processi con detenuti, che si terranno regolarmente.

Lunedì 4 marzo non è una data casuale: è il giorno in cui è prevista una nuova udienza del processo nei confronti di Alessia Pifferi, accusata di aver lasciato morire di stenti la figlia di 18 mesi nel luglio del 2022. La protesta della camera penale riguarda l’iniziativa giudiziaria del pubblico ministero Francesco De Tommasi che ha avviato un’indagine parallela al processo principale in cui sono state coinvolte due psicologhe del carcere di San Vittore, dove Pifferi è detenuta, e l’avvocata della donna, Alessia Pontenani. Secondo la camera penale, l’indagine parallela viola diverse norme e avrà conseguenze che vanno oltre il caso in questione perché non solo compromette l’assistenza alle persone detenute, ma è un attacco diretto e illegittimo al ruolo della difesa.

Alessia Pifferi è in carcere da un anno e mezzo, accusata di aver abbandonato la figlia di 18 mesi nel suo appartamento lasciandola morire di stenti. Da allora è assistita dal personale del carcere di San Vittore tra cui due psicologhe, che tra le altre cose hanno riconosciuto in Pifferi una «scarsa comprensione delle relazioni di causa ed effetto e delle conseguenze delle proprie azioni». Le psicologhe sono arrivate a questa conclusione grazie alla cosiddetto test di WAIS (Wechsler adult intelligence scale) che permette di calcolare il quoziente intellettivo.

Secondo le relazioni delle due psicologhe Pifferi avrebbe un quoziente intellettivo molto basso, di 40 punti, che non le consentirebbe di accorgersi della sofferenza né di collocare nel tempo le conseguenze delle proprie azioni. La difesa di Pifferi ha chiesto per due volte una perizia psichiatrica anche sulla base delle relazioni delle psicologhe di San Vittore. Nonostante il parere contrario dell’accusa, lo scorso novembre la Corte d’assise di Milano ha infine commissionato a un esperto una perizia psichiatrica che dovrà essere consegnata entro il 26 febbraio.

Lo scorso ottobre, durante un’udienza del processo, il pubblico ministero Francesco De Tommasi (quindi l’accusa) si era opposto alla richiesta della perizia accusando le due psicologhe di aver manipolato Alessia Pifferi. «A San Vittore è successo un fatto gravissimo: la rivisitazione dei fatti dal punto di vista del personale della struttura carceraria», aveva detto De Tommasi. «L’effetto è stato quello di metterle in testa [all’imputata, ndr] di non avere alcun tipo di responsabilità. Alessia Pifferi entra in carcere in una situazione in cui non esistono pregressi psichiatrici di nessuna natura che l’hanno mai riguardata nel corso della sua esistenza. A un certo punto diventa una persona che ha un quoziente intellettivo pari a 40». De Tommasi, tuttavia, non si è limitato a contestare in aula la richiesta della perizia, ma ha avviato un’indagine sia sulle psicologhe che sull’avvocata della donna.

Il pubblico ministero ha aperto un nuovo procedimento penale: ha chiesto e ottenuto dal giudice per le indagini preliminari (gip) Fabrizio Filice di intercettare per due mesi le conversazioni in carcere tra Pifferi e le psicologhe, indagate per falso ideologico insieme all’avvocata Alessia Pontenani. Secondo De Tommasi l’assistenza psicologica nei confronti della donna era ingiustificata e sarebbe stata «una vera e propria attività di consulenza difensiva volta esclusivamente a creare, mediante false attestazioni circa lo stato mentale della detenuta e l’andamento e i contenuti dei colloqui, le condizioni per tentare di giustificare la somministrazione del test psicodiagnostico».

Come ha scritto Cesare Giuzzi in un articolo sul Corriere della Sera, il pubblico ministero ha descritto una delle due psicologhe come «un’eversiva» che «nella vita avrebbe preferito essere artefice di una “rivoluzione”» e che «invece ha optato per una “rivolta” contro lo Stato e la società, lenta e “discreta”, condotta “scavando la roccia goccia dopo goccia”» favorendo i detenuti «che ritiene siano delle vittime del sistema». Questi giudizi sono contenuti in una memoria che il pubblico ministero ha rivolto a se stesso, con una procedura piuttosto inusuale: di solito la memoria, ossia una comunicazione in forma scritta, è uno strumento usato dalla difesa e più raramente dall’accusa per argomentare con il giudice o il pubblico ministero, oppure informarli di qualcosa.

Rosaria Stagnaro, la pubblico ministero che insieme a De Tommasi era titolare del processo principale contro Pifferi, ha scoperto dell’indagine parallela soltanto a gennaio, quando la notizia è stata pubblicata da diversi quotidiani. Anche le due procuratrici aggiunte – Alessandra Dolci della Direzione distrettuale antimafia di cui fa parte De Tommasi e Letizia Mannella – non erano state informate dell’indagine. Stagnaro ha poi espresso la volontà di rinunciare al caso Pifferi perché tenuta all’oscuro dell’iniziativa del collega. Il procuratore Marcello Viola ha autorizzato la rinuncia per “contrasto insanabile” tra i due pubblici ministeri (anche la rinuncia a seguire un processo già così avviato è un fatto inusuale, per un pubblico ministero).

L'avvocata Alessia Pontenani e Alessia Pifferi

L’avvocata Alessia Pontenani e Alessia Pifferi (ANSA/MATTEO CORNER)

Ci sono poi altre anomalie segnalate dalla camera penale. Il decreto di perquisizione nei confronti delle due psicologhe, che conteneva anche il nome dell’avvocata Pontenani, è stato diffuso ai giornali prima di essere notificato alla difesa. La camera penale ha scritto inoltre che la polizia penitenziaria impegnata nelle indagini ha notificato il decreto all’avvocata Pontenani nel palazzo di giustizia di Milano, dove si trovava per lavoro, con modalità definite “del tutto eccentriche”.

La camera penale ha rilevato anche il mancato rispetto di diverse procedure. Quando la procura viene informata di un possibile reato, spetta al procuratore organizzare l’inchiesta assegnandola a un magistrato e coordinando il lavoro. In questo caso, secondo gli avvocati, De Tommasi si è autoassegnato l’inchiesta violando il divieto a farlo previsto dal regolamento, senza neanche informare la collega titolare dell’indagine principale. Sulla base di questo, la camera penale ha approvato una delibera per chiedere al procuratore Viola di riassegnare ad altri pubblici ministeri sia il processo in corso, sia l’indagine parallela.

Un altro problema riguarda i tempi dell’indagine parallela. Nella giustizia italiana esiste un principio secondo cui i presunti reati commessi a processo in corso da persone coinvolte nello stesso processo – testimoni, consulenti, periti – debbano essere valutati soltanto dopo la sentenza. In gergo si dice che “gli atti devono essere trasmessi alla procura alla fine del processo”. L’obiettivo di questa regola è evitare di stravolgere o condizionare il processo in corso, compresa la serenità di giudici, periti e consulenti. È un principio che va seguito in particolare quando il presunto reato è legato in modo chiaro al processo in corso, come nel caso di questa indagine parallela. Per questo, secondo la camera penale, nel caso in questione l’azione del pubblico ministero interferisce chiaramente sul processo principale mettendo in discussione l’equilibrio tra accusa e difesa.

Anche le modalità di indagini e di interrogatorio sono state criticate, e non solo dalla camera penale. Le indagini sono state affidate alla polizia penitenziaria del carcere di Opera, dove lavora una delle due psicologhe, e le perquisizioni sono state fatte nel carcere di San Vittore. Oltre un centinaio di operatori, volontari e associazioni hanno scritto una lettera alla procuratrice generale Francesca Nanni e alla presidente del tribunale di sorveglianza Giovanna Di Rosa per denunciare le conseguenze dell’indagine che ha previsto l’utilizzo di intercettazioni ambientali in carcere. Secondo i firmatari della lettera, l’indagine «ha come risultato l’intimidazione di tutti gli operatori e rischia di intaccare la fiducia nel loro operato da parte delle persone detenute e dell’opinione pubblica».

La gestione sanitaria e l’assistenza psicologica delle persone detenute non dipende dall’amministrazione penitenziaria, bensì dalle aziende sanitarie locali, proprio per garantire l’autonomia degli operatori nell’interesse della persona, ed escludere fini punitivi dell’assistenza. A questo proposito la camera penale ha scritto che il personale sanitario che lavora all’interno di un istituto penitenziario deve poter svolgere il proprio compito «in scienza e coscienza, senza sentirsi spiato e messo alla berlina per effetto di attività investigative svolte con modalità discutibili».

Durante la partecipata assemblea della camera penale che si è tenuta la scorsa settimana diversi avvocati sono intervenuti per chiedere di protestare con un’astensione perché questa indagine rischia di essere un precedente pericoloso. Il rischio è che passi l’idea per cui fare verifiche sull’imputabilità di un imputato – cioè verificare se è processabile o meno – sia solo un modo per sfuggire alle responsabilità, mentre l’imputabilità è un istituto giuridico previsto dal codice penale «espressione di civiltà giuridica». La difesa, hanno detto diverse persone intervenute, deve poter scegliere la propria linea difensiva senza che questa scelta possa essere sindacata dalla procura o, peggio, considerata un reato. Secondo molti avvocati, questo è il risultato di una narrazione populistica che tende a identificare gli avvocati con i propri assistiti, mettendo a repentaglio il ruolo della difesa.

Martedì la giunta di Milano dell’Associazione nazionale magistrati (ANM) ha diffuso una nota per difendere il valore della difesa previsto dalla Costituzione: è una presa di posizione che conferma le critiche della camera penale nei confronti dell’iniziativa del pubblico ministero. L’associazione ha scritto inoltre che i processi devono essere fatti «in un ambiente privo di condizionamenti, che consenta lo svolgimento disteso e pacifico senza che nessuno vi interferisca, proprio a garanzia dell’equilibrio delle decisioni e della piena esplicazione del diritto di difesa».