Le politiche ambientali danneggiano davvero gli agricoltori?

Parte delle proteste di questi giorni si è rivolta contro il Green Deal e le altre iniziative europee per la transizione ecologica: una guida per capire meglio

(AP Photo/Alessandra Tarantino)
(AP Photo/Alessandra Tarantino)
Caricamento player

Il 6 febbraio la Commissione Europea ha annunciato un nuovo ambizioso obiettivo che prevede la riduzione del 90 per cento delle emissioni di gas serra entro il 2040, rispetto ai livelli del 1990. La raccomandazione, che non è vincolante e sarà discussa in futuro dalle altre istituzioni europee, contiene riferimenti molto vaghi al settore agricolo nonostante questo produca circa il 14 per cento di tutte le emissioni nell’Unione Europea. La mancanza di indicazioni chiare non è passata inosservata e, secondo vari osservatori, è dovuta alla volontà della Commissione di non esacerbare ulteriormente i rapporti con gli agricoltori, diventati tesissimi nelle ultime settimane in parte proprio per le iniziative legate alla riduzione delle emissioni dei gas serra.

Da settimane in Italia, Francia, Germania, Spagna e in vari altri paesi europei gli agricoltori protestano contro le politiche nazionali e dell’Unione applicate al loro settore. Le ragioni delle proteste cambiano a seconda dei paesi, con rivendicazioni non sempre semplici da comprendere e coerenti, ma in un modo o nell’altro hanno comunque tutte a che fare con il modo in cui sono assegnati i sussidi per sostenere le attività agricole, i vincoli da rispettare per ottenerli e le nuove norme per ridurre le emissioni.

– Ascolta anche: Le proteste degli agricoltori sono un pezzo di una storia più grande, che sfama il mondo

Nelle semplificazioni che spesso accompagnano le cronache delle proteste è passato il concetto che gli agricoltori siano contro alcune delle più importanti politiche per contrastare il cambiamento climatico, e che di conseguenza siano più interessati al proprio tornaconto che all’ambiente e al suo futuro. In realtà, la questione è molto più complessa e le proteste degli ultimi giorni sono il risultato di anni di difficoltà economiche, proposte sul clima difficili da raggiungere in poco tempo e meccanismi non sempre efficienti nell’attribuzione dei sussidi.

L’agricoltura in Europa
Il settore agricolo nell’Unione Europea ha un ruolo importante sia dal punto di vista economico sia per i servizi che offre, visto che produce il cibo consumato da centinaia di milioni di persone. I dati completi più recenti riferiti al 2022 dicono che agricoltura e allevamento costituiscono circa l’1,5 per cento del prodotto interno lordo dell’Unione. È una quota relativamente contenuta rispetto ad altri settori molto più grandi, ma in termini assoluti è comunque rilevante, intorno ai 221 miliardi di euro sempre nel 2022. Se si considera il valore generato da tutte le attività agricole, compreso l’indotto, si arriva a quasi 540 miliardi di euro, la maggior parte dei quali è derivata direttamente dalle coltivazioni (circa 290 miliardi di euro).

Quattro paesi da soli producono circa il 57 per del valore di tutto ciò che è legato al settore agricolo europeo: Francia con 97 miliardi di euro, Germania con 76, Italia con 71,5 e infine Spagna con 63. Il maggior peso di queste nazioni nella produzione agricola spiega almeno in parte perché alcune delle proteste più grandi si siano verificate proprio in quei paesi.

Sussidi
Per ragioni storiche e di funzionamento del mercato, è molto raro che il settore agricolo riesca a sostenersi senza aiuti pubblici. È un problema diffuso che riguarda molte aree del mondo e che viene quasi sempre affrontato dai governi con agevolazioni fiscali e sussidi, tesi per esempio a far costare meno i carburanti per i mezzi agricoli o a favorire investimenti in sistemi per rendere più efficiente la produzione agricola. Spesso ai sussidi per obiettivi si affiancano finanziamenti “a pioggia”, che vengono quindi attribuiti senza che sia richiesto qualcosa in cambio.

Nell’Unione Europea l’insieme delle norme che regolano l’erogazione dei fondi europei si chiama “Politica agricola comune” (PAC) e viene aggiornata ogni cinque anni. Quella attualmente in vigore risale al 2023, sarà valida fino alla fine del 2027 e prevede lo stanziamento di circa 387 miliardi di euro, divisi in due grandi fondi: il Fondo europeo agricolo di garanzia (FEAGA) e il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR). La maggior parte del denaro sarà distribuita attraverso sussidi diretti per gli agricoltori, con una spesa intorno a 190 miliardi di euro.

Con la precedente PAC, si stima che la maggior parte degli agricoltori ricevette nel 2019 circa 5mila euro, mentre una piccola parte costituita da aziende molto più grandi incassò più di 50mila euro. I criteri di assegnazione della nuova PAC sono stati rivisti, con nuove modalità di accesso ai fondi e maggiori vincoli legati soprattutto alla tutela dell’ambiente: gli agricoltori che non rispettano alcune richieste necessarie per accedere ai fondi possono perdere diversi pagamenti.

Nel corso degli anni i sussidi si sono rivelati molto importanti per mantenere un settore spesso esposto alle oscillazioni dei prezzi, dovute a come cambia la domanda in base all’offerta dai paesi esteri, ma anche a grandi imprevisti come si è per esempio visto nel 2022 con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Come in altri settori dove sono previsti, i sussidi possono condizionare negativamente il sistema, per esempio mantenendo in vita aziende non efficienti, che non si sentono incentivate a migliorarsi visto che tanto i fondi riducono il rischio di non essere redditizie.

Se accompagnati da incentivi, i sussidi possono però fare la differenza e indurre le aziende ad adottare comportamenti virtuosi, investendo per esempio in nuovi macchinari e tecnologie per aumentare la resa delle coltivazioni e ridurre il loro impatto ambientale. I sussidi sono inoltre importanti per tenere sotto controllo i prezzi di beni di prima necessità, che devono essere il più possibile accessibili a tutte le fasce della popolazione. Trovare il giusto equilibrio non è mai stato semplice e le cose si sono ulteriormente complicate circa cinque anni fa in seguito all’avvio di un enorme, e necessario, piano per ripensare l’economia europea e renderla più sostenibile: il “Green Deal”.

Dalla fattoria alla forchetta
Avviato nel 2020, il Green Deal è la serie di iniziative politiche proposte dalla Commissione europea per raggiungere in Europa entro il 2050 la neutralità carbonica (ovvero riuscire a rimuovere tanta anidride carbonica, o altri gas serra, quanta quella immessa nell’atmosfera). Il piano coinvolge tutti i settori produttivi, da quelli dell’industria all’energia passando per la mobilità, e riguarda naturalmente anche il settore agricolo. Tra le soluzioni da adottare ci sono l’efficientamento energetico, la riduzione del consumo di combustibili fossili e la tutela dell’ambiente attraverso iniziative per creare nuove foreste e ripristinare gli ecosistemi naturali.

Il progetto più importante all’interno del Green Deal per il settore agricolo è il cosiddetto “Farm to Fork”, letteralmente “dalla fattoria alla forchetta” in inglese. È anche in questo caso un piano estremamente ambizioso per:

Avere un impatto ambientale neutro o positivo, contribuire a mitigare il cambiamento climatico e ad adattarsi ai suoi impatti, invertire la perdita di biodiversità, garantire la sicurezza alimentare, la nutrizione e la salute pubblica, assicurando che tutti abbiano accesso a cibo sufficiente, sicuro, nutriente e sostenibile, preservare l’accessibilità economica dei prodotti alimentari generando ritorni economici più equi, favorendo la competitività del settore dell’approvvigionamento dell’UE e promuovendo il commercio equo.

Sulla base di queste dichiarazioni di indirizzo è previsto che le istituzioni europee producano leggi e direttive per il settore agricolo, utilizzando il meccanismo dei sussidi (la PAC) come principale strumento pratico per incentivare i produttori a comportamenti virtuosi o per sanzionare eventuali comportamenti scorretti.

Nelle intenzioni, il Farm to Fork aveva obiettivi molto ambiziosi come una forte riduzione dei fertilizzanti e dei pesticidi (che hanno effetti su molte specie importanti per gli ecosistemi), la conversione di un quarto dei terreni alle colture biologiche e la piantumazione di almeno 3 miliardi di alberi. Alcune proposte sono rimaste, mentre altre sono state via via riviste e ridotte di portata per venire incontro alle richieste del settore agricolo. In alcuni casi si è trattato di scelte obbligate perché alcuni provvedimenti erano impraticabili, in altri casi di cedimenti alle pressioni degli agricoltori, che riescono a esercitare molto bene la loro capacità di influenza a livello nazionale ed europeo soprattutto negli anni elettorali.

Cedimenti e concessioni
Il caso più evidente e discusso negli ultimi giorni è stato quello della Sustainable Use Regulation (SUR), che nell’ambito del Green Deal prevedeva una progressiva riduzione dei pesticidi entro il 2030. Martedì 6 febbraio la Commissione Europea ha deciso di rinunciare alla SUR, dopo che a novembre dello scorso anno la proposta sulla riduzione era già stata respinta dal Parlamento Europeo ed era quindi già esposta a una probabile cancellazione o comunque a una sua profonda revisione.

I pesticidi riducono il rischio di perdere interi raccolti a causa dei parassiti, ma il loro impiego su larga scala ha un forte impatto sugli ecosistemi e in particolare su una grandissima quantità di specie di insetti, che ne patiscono ugualmente gli effetti. Tra i più colpiti ci sono spesso gli insetti impollinatori, che hanno un ruolo centrale nella fecondazione di molte varietà di piante. Meno insetti significa anche meno cibo per molte specie di uccelli e di altri piccoli predatori, con un progressivo impoverimento della biodiversità, cioè di quanto è diversificato un certo ambiente naturale.

(Sean Gallup/Getty Images)

La rinuncia alla SUR, che era stata proposta nel giugno del 2022, è stata vista come una concessione agli agricoltori in vista delle imminenti elezioni europee che si terranno il prossimo giugno. La decisione è stata fortemente criticata da scienziati e scienziate che da anni studiano gli effetti dei pesticidi sull’ambiente, scoprendo spesso ricadute che danneggiano lo stesso settore agricolo. Lo scorso anno 6mila scienziati avevano firmato una lettera a sostegno della SUR, segnalando l’importanza di non rinviare ulteriormente la decisione sui pesticidi.

La notizia sull’abbandono della SUR è stata velocemente messa in secondo piano dall’annuncio della Commissione europea sulla riduzione del 90 per cento delle emissioni di gas serra entro il 2040, rispetto ai livelli del 1990. Ciò che però ha colpito diversi analisti è che il piano, ampiamente anticipato nelle scorse settimane, non contiene nessun riferimento specifico all’agricoltura, a differenza di alcune bozze circolate in precedenza. Il documento si limita a ricordare l’importanza del settore agricolo nel ridurre le emissioni di gas serra, ma non contiene informazioni più specifiche.

Anche se si tratta di una raccomandazione, quindi non vincolante e in un certo senso indirizzata alla futura Commissione che sarà scelta dopo le elezioni europee, le modifiche alle regole per il settore agricolo proprio mentre dilagavano le proteste con i trattori in molti paesi europei sono state notate da molti. Bas Eickhout, tra i parlamentari europei più in vista del gruppo dei Verdi, ha commentato in aula il documento dicendo: «Avete cancellato tutte le cose sull’agricoltura. Nascondere queste cose nella vostra comunicazione non fa certo sparire il problema».

Dalle comunicazioni della Commissione sono stati rimossi alcuni riferimenti a una riduzione entro il 2040 del 30 per cento del metano e di alcuni gas (NOS) prodotti dai motori termici, così come sono stati eliminati i passaggi sulla necessità di cambiare stili e abitudini di vita. In precedenza veniva per esempio raccomandato di consumare meno carne e prodotti caseari, visto che una quota importante dei gas serra deriva dalle attività degli allevamenti di animali. Oltre ai riferimenti sulla riduzione dei pesticidi, altre ipotesi riguardavano la riduzione dei sussidi per l’acquisto dei combustibili fossili, in modo da favorire il passaggio a macchinari agricoli meno inquinanti e più efficienti.

A fine gennaio la Commissione europea aveva anche annunciato una deroga all’applicazione di una regola molto contestata, ma ritenuta importante per favorire la biodiversità (che in ultima istanza ha comunque effetti positivi anche nelle coltivazioni). La regola prevede che gli agricoltori lascino incolto il 4 per cento dei propri terreni ogni anno, in modo da favorire una rigenerazione del terreno, la crescita di piante selvatiche e di piccoli ecosistemi popolati da una grande varietà di specie. Deroghe simili erano già state applicate in passato, rispondendo alle richieste degli agricoltori che avevano segnalato difficoltà legate alla produzione.

Ambiente e agricoltura
Le richieste e le rimostranze degli agricoltori variano molto e non è sempre semplice comprenderne la fondatezza, ma in questi anni è diventato evidente un certo disallineamento tra le scelte legate alle politiche agricole e quelle ambientali. Sono state adottate regole più rigide e spesso complesse per ridurre l’impatto ambientale del settore, senza che fossero affrontati fino in fondo alcuni dei problemi più rilevanti soprattutto per i produttori medio-piccoli, che hanno più difficoltà a fare investimenti e a mantenersi al passo con le nuove regole.

I progressi tecnologici per rendere più sostenibile il settore agricolo esistono, in alcuni casi anche da diverso tempo, ma alcuni di questi rimangono inaccessibili in particolare nell’Unione Europea. Le forti limitazioni all’impiego degli organismi geneticamente modificati (OGM), per esempio, possono rendere più necessario il ricorso ai pesticidi perché le coltivazioni sono meno resistenti ai parassiti. La richiesta di usarne meno potrebbe quindi avere un forte impatto sulla resa delle coltivazioni, già inferiori rispetto a quelle realizzate nei paesi dove gli OGM sono liberamente utilizzabili.

Buona parte dei paesi europei utilizza i semi di soia e mais OGM importati da Brasile, Argentina, Stati Uniti e Canada per gli animali da allevamento, spesso meno costosi dei loro analoghi non OGM prodotti internamente. Si determina in questo modo una sensibile disparità sul mercato, che finisce per favorire prodotti provenienti dall’estero e contro i quali è difficile competere.

Una protesta degli agricoltori in Bulgaria, il 6 febbraio (AP Photo/Valentina Petrova)

Come dimostra l’andamento del Green Deal fino a qui, gestire la transizione ecologica richiede enormi quantità di risorse e ha innumerevoli implicazioni, difficili da tenere sotto controllo in un’economia globale. Alcune ci sono più evidenti semplicemente perché ne abbiamo esperienza diretta nella vita di tutti i giorni, altre come quelle del settore agricolo ci appaiono più distanti o tendiamo proprio a ignorarle. Nelle nostre società il cibo è sempre disponibile e accessibile, in un modo o nell’altro, al punto da non portarci a pensare a cosa abbia reso possibile la sua esistenza sullo scaffale di un supermercato o sulla bancarella di un mercato.

Grazie alle maggiori conoscenze scientifiche e ai progressi tecnologici dell’ultimo secolo, non è mai esistito tanto cibo quanto oggi. Ma l’attuale modo di produrlo non è più sostenibile e deve essere ripensato nei suoi fondamentali. Molte delle tecnologie per farlo esistono già e in alcuni contesti sono già ampiamente utilizzate, ma la transizione verso questi sistemi e un modo diverso di pensare l’agricoltura richiede tempo, denaro e una certa capacità nel comunicare l’importanza del cambiamento a chi materialmente coltiva la terra.

Cedere a ogni rivendicazione e protesta, per quanto comprensibile in un quadro così complesso, potrebbe rivelarsi deleterio o per lo meno rischioso per un pezzo importante della transizione ecologica. Come ha spiegato Alan Matthews, esperto di economia agricola del Trinity College di Dublino: «Perché gli agricoltori dovrebbero fermarsi a questo punto, se vedono che i governi corrono ai ripari? I governi devono mantenere le loro posizioni e spiegare che dobbiamo raggiungere gli obiettivi ambientali. Parliamo piuttosto di questo, senza arrenderci».