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  • Martedì 6 febbraio 2024

Un anno di macerie, tende e container in Turchia

Il 6 febbraio 2023 un disastroso terremoto causava oltre 50mila morti e distruggeva intere città delle regioni meridionali: il ritorno alla normalità è ancora lontano

di Valerio Clari

Un quartiere di Hatay dopo le demolizioni (Photo by Chris McGrath/Getty Images)
Un quartiere di Hatay dopo le demolizioni (Photo by Chris McGrath/Getty Images)
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Nei giorni immediatamente successivi al terremoto che il 6 febbraio 2023 colpì le regioni centrali e meridionali della Turchia, e quelle nord-occidentali della Siria, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan fece promesse che apparvero subito piuttosto ambiziose. Era nel pieno della campagna elettorale per la rielezione e assicurò che il governo avrebbe ricostruito le case, consegnandole ai cittadini, in un anno. Qualche giorno dopo specificò che circa 320mila abitazioni sarebbero state disponibili entro febbraio 2024, e altre 320mila l’anno seguente.

Oggi, a un anno dal terremoto, ne sono state consegnate 46mila, molte negli ultimi giorni, in vista della ricorrenza. Più che raccontare una ricostruzione inefficiente, la distanza fra i due numeri evidenzia come quelle promesse furono avventate, o volutamente esagerate.

Il terremoto delle prime ore della mattina del 6 febbraio 2023 ebbe conseguenze enormi: fu di magnitudo 7.7 e causò danni nel nord della Siria e in dieci province turche, a cui si aggiunse, due settimane dopo, la zona di Defne, colpita da un distinto terremoto. Le repliche (cioè i successivi eventi sismici di entità inferiore) furono 83: la più forte di magnitudo 6.7. Nelle regioni colpite della Turchia (il paese che ha avuto i danni maggiori) vivono oltre 13 milioni di persone: gli sfollati furono 3 milioni, gli edifici danneggiati oltre mezzo milione, di cui 298.000 crollati o risultati inagibili in modo definitivo. I feriti furono oltre 100.000, i morti 53.537 in Turchia e 5.951 in Siria: nella sola Turchia un’inchiesta parlamentare ha stimato 148 miliardi di euro di danni, il 9 per cento del PIL del paese.

Nelle province turche più colpite, Hatay, Adiyaman e Kahramanmaras, intere città sono state distrutte: dopo una prima contestata risposta emergenziale, con le squadre di soccorso e gli aiuti che hanno incontrato difficoltà ad arrivare nelle zone più colpite, si è fatto ricorso a una mobilitazione internazionale per far fronte alle enormi necessità della popolazione. Alla AFAD, il corrispondente turco della nostra Protezione civile, si sono aggiunte ONU, Unione Europea e un gran numero di ong internazionali.

A un anno di distanza, esiste ancora una parte di sfollati che vive nei cosiddetti “campi informali”, agglomerati di tende che sono sorti più o meno spontaneamente in piazze, parchi e parcheggi, non sempre dotati di acqua corrente o bagni funzionanti. È una minoranza, comunque stimata in circa 100mila famiglie. La maggioranza di chi ha perso o ha dovuto lasciare la casa vive invece nei container, organizzati in enormi campi (ce ne sono 400 in tutta l’area colpita dal terremoto) fuori dai centri cittadini, ancora per lo più inagibili.

– Leggi anche: In Turchia gli sfollati vivono ancora nelle tende

Nelle zone più colpite oltre un terzo degli edifici deve essere distrutto, e i detriti vanno spostati altrove: è un lavoro immenso, che procede da mesi e che porta con sé problemi anche di natura ambientale e di salute. Le polveri sollevate dai macchinari che demoliscono gli edifici ancora in piedi sono moltissime, la quantità di macerie è difficile da smaltire, anche nelle grandi discariche che sono state aperte appositamente.

Jessie Thomson è capo delegazione in Turchia della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa internazionale, ong operativa sin dai primi giorni dopo il terremoto. Dice: «Oggi stiamo entrando in una nuova fase della risposta all’emergenza. Da una parte rispondiamo ancora alle esigenze di beni di prima necessità, come coperte, vestiti e stufe elettriche per affrontare le temperature invernali nei container. Dall’altra ora una delle principali attività è quella di aiutare la popolazione colpita a far ripartire le attività lavorative, soprattutto attraverso prestiti personali». Vengono forniti fondi per riaprire piccoli esercizi commerciali, soprattutto dentro nuovi container, e in alcuni casi recuperando negozi danneggiati ma agibili. Ma l’accesso al credito serve anche per far ripartire piccole aziende agricole, o per sostituire macchinari distrutti nel terremoto.

Il campo di Buyukdalyan (Photo by Burak Kara/Getty Images)

Per oltre un anno gran parte degli sfollati ha vissuto di aiuti (sono stati distribuiti 426 milioni di pasti caldi dall’inizio dell’emergenza) o trovando impiego nel settore edile per la demolizione e la ricostruzione. Per molti sono stati mesi di lunghe attese, con poche prospettive di un reale ritorno alla normalità, o anche a una condizione di parziale autosufficienza. L’accesso alle cure mediche o alle scuole per bambini e ragazzi resta complesso: alcune strutture temporanee sono state costruite vicino ai campi di container più grandi, in altre situazioni raggiungere scuole o ospedali può richiedere trasferimenti lunghi e difficili.

L’altra grande questione è quella della salute mentale e degli effetti psicologici a lungo termine del trauma causato dal terremoto. Molte famiglie hanno perso almeno un parente, la gran parte dei sopravvissuti è stata costretta a lasciare tutto ciò che aveva costruito nel corso degli anni e a ripartire da capo. Il terremoto ha causato problemi psicologici di varia natura soprattutto nei bambini, con aumento di casi di ansia, di comportamenti aggressivi o di isolamento. Dice Thomson: «Con psicologi e volontari lavoriamo a lungo termine sulla gestione del trauma: molti ancora hanno problemi a dormire, a entrare in luoghi chiusi, o hanno dovuto affrontare un inserimento in una realtà totalmente nuova».

Particolare attenzione deve essere riservata alle categorie più fragili: la convivenza forzata in spazi ridotti, l’assenza di privacy e di luoghi sociali, la difficoltà a trovare spazi privati e sicuri hanno portato a un aumento dei casi di violenza di genere e violenza verso i minori. Le ong organizzano corsi e attività per sensibilizzare sui temi, monitorano eventuali rischi e favoriscono l’inserimento delle donne nel mondo del lavoro, una cosa non comune nella Turchia meridionale, specie fuori dalle grandi città.

Le condizioni sono particolarmente difficili anche per oltre 1,5 milioni di rifugiati siriani che vivevano nell’area: alcuni si sono spostati in altre province (ci sono state parziali deroghe al divieto di cambiare zona di residenza valido per i rifugiati), la maggior parte è ancora ospitata nelle tendopoli gestite dalla protezione civile.

– Leggi anche: I profughi siriani in Turchia devono ricominciare da capo

Nonostante le promesse elettorali di Erdogan per molti sfollati il ritorno alla normalità non sarà questione di mesi, ma di anni. Sovraffollati e senza privacy, caldi d’estate e freddi d’inverno, i container sono destinati a essere la principale soluzione abitativa ancora per un lungo periodo. Alcuni dei progetti edilizi di ricostruzione sono appena partiti, in altri casi bisogna ancora valutare l’opportunità di ricostruire in zone che restano a forte rischio sismico.

Ovviamente con il passare del tempo diminuiscono anche le attenzioni dell’opinione pubblica: nonostante le necessità siano ancora molte, le principali ong raccontano che nel 2024 dovranno lavorare con budget ridotti di almeno un terzo rispetto al 2023. A settembre l’Unione Europea ha invece approvato uno stanziamento di ulteriori 400 milioni di euro per progetti di solidarietà per le zone colpite dal terremoto.

In Turchia intanto procedono anche le numerose inchieste relative al mancato rispetto delle norme antisismiche da parte dei costruttori, che quasi sempre lavorano assicurandosi appalti statali. Circa cento impresari edili sono sotto inchiesta: particolarmente raccontata è la storia di Nurdagi, dove sono crollati soprattutto gli edifici costruiti solo 5-6 anni prima da una società di proprietà di Yunus Kaya, un esponente del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), quello del presidente Erdogan: anche il sindaco, dello stesso partito, è stato arrestato per le presunte responsabilità nella costruzione di edifici non a norma.