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  • Martedì 6 febbraio 2024

La protesta degli agricoltori è partita da una chat

Almeno quella del movimento Riscatto agricolo, il primo a organizzarsi in Italia: gli altri si sono aggiunti man mano, in maniera un po' caotica e con obiettivi diversi

di Angelo Mastrandrea

Foto di agricoltori che guardano uno smartphone
Il presidio degli agricoltori di via Nomentana a Roma (ANSA/MASSIMO PERCOSSI)
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Il 10 gennaio Andrea Papa, un imprenditore agricolo originario del bresciano ma con l’azienda in provincia di Siena, e Salvatore Fais, che ha un allevamento di pecore a Piombino, hanno creato una chat su WhatsApp per discutere insieme ad altri amici agricoltori dei problemi del loro settore. L’idea gli era venuta da alcune chiacchiere scambiate al bar o al telefono, in cui si parlava «degli ultimi provvedimenti del governo, che ha rimesso l’IRPEF sui terreni agricoli, o delle politiche agricole europee che consentono di importare le materie prime da paesi dove i costi sono più bassi» dice Papa. Ma anche «dello squilibrio tra quanto ci vengono pagati i prodotti e il loro prezzo di vendita». Una delle prime domande sulla chat infatti era stata: «Un chilo di grano ce lo pagano 25 centesimi, ma quanto costa un chilo di pane al supermercato?».

Nel giro di pochi giorni la chat aveva raggiunto il numero massimo di partecipanti per un gruppo WhatsApp: 1.024. Per la maggior parte erano imprenditori agricoli, proprietari di decine e a volte centinaia di ettari di terreni coltivati e di stalle con centinaia o anche migliaia di animali. La gran parte di loro scriveva che il mestiere non è più remunerativo, e che anzi spesso «si lavora sotto i costi di produzione», dice Fais.

«Arrivavano tantissimi commenti, anche con toni molto duri», racconta Papa. «Dopo un paio di giorni siamo stati costretti a bloccarli perché ne arrivavano a centinaia e la chat era diventata ingestibile. Da allora l’abbiamo utilizzata solo per comunicare le nostre iniziative e diffondere le proposte». Poi è stato lui stesso a invitare altri amici della zona in cui è nato, cioè dalle parti di Brescia, a fare la stessa cosa. È nato così il gruppo “Rivolta agricola Lombardia”, che ha avuto un successo simile: in brevissimo tempo il meccanismo della chat su WhatsApp si è diffuso in diverse regioni. «Nel giro di un paio di settimane abbiamo raccolto più di 15mila adesioni in tutta Italia», dice Papa. In un mese “Riscatto Agricolo” è diventato il principale gruppo alla base delle proteste degli agricoltori, soprattutto nel centro e nel nord Italia.

Nello stesso periodo il “comitato Agricoltori traditi”, un gruppo di agricoltori calabresi, laziali e siciliani, aveva cominciato a organizzare proteste contro le politiche agricole europee e italiane in tutto il sud. Il comitato ha un’organizzazione più tradizionale. Il suo coordinatore è Danilo Calvani, un imprenditore agricolo di Pontinia, in provincia di Latina, che nel 2009 era stato uno dei fondatori della Lega nel Lazio e nel 2013 uno dei leader dei Forconi, un movimento di agricoltori, autotrasportatori e pescatori che protestarono contro le politiche di austerità europee e contro il governo di Mario Monti.

I Forconi furono sostenuti da gruppi di estrema destra, a partire da Forza Nuova, ma in alcune città alle manifestazioni parteciparono anche alcune organizzazioni sindacali e militanti della cosiddetta sinistra antagonista.

– Leggi anche: I Forconi, dieci anni fa

Foto dei trattori su una collina con agenti della polizia in primo piano

Trattori del presidio di via Nomentana a Roma, 5 febbraio 2024 (ANSA/MASSIMO PERCOSSI)

Quando sono cominciate le proteste in Francia e in Germania, il comitato Agricoltori traditi ha a sua volta aumentato le critiche contro il governo attraverso la sua pagina Facebook, chiedendo di «recedere da tutti i trattati comunitari che stanno uccidendo l’agricoltura» e di far dimettere il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, di Fratelli d’Italia. Hanno organizzato cortei di trattori in tutto il sud, raccogliendo migliaia di adesioni in particolare in Calabria e in Sicilia.

Nel frattempo si sono formati numerosi gruppi spontanei di agricoltori in tutta Italia, che hanno assunto forme e denominazioni un po’ improvvisate, come «La Sicilia alza la voce». In Abruzzo invece gli agricoltori che protestano si definiscono attraverso il motto «Uniti si vince» e l’organizzazione è molto informale, al punto che per partecipare alle assemblee basta chiamare ai numeri di cellulare degli organizzatori, stampati sotto i volantini di convocazione. «Il motivo principale per cui ci siamo trovati a protestare insieme è l’opposizione alla grande distribuzione organizzata, che controlla il prezzo delle materie prime e pure quello del prodotto finito», dice Roberto Rosati, che ha un’azienda agricola con 450 ettari di terreni in affitto a Bellente, in provincia di Teramo.

Solo in Campania le proteste sono organizzate da un’associazione, Altragricoltura, che già da anni è impegnata a favore della «sovranità alimentare». «Per noi non si tratta solo di una questione di soldi, ma di dove vanno questi soldi, anche perché i fondi comunitari hanno finanziato la speculazione industriale e non i piccoli agricoltori», dice il presidente Gianni Fabbris.

In molte regioni le proteste contro le politiche europee e i tagli del governo si mescolano a questioni locali, come quella dei branchi di lupi che sbranano le pecore e dei cinghiali che devastano i terreni. «Vorremmo che il governo facesse almeno un piano di abbattimento della fauna selvatica», dice Ernesto de Leonibus, un agricoltore di Città Sant’Angelo, in provincia di Pescara. Nel casertano si sono uniti alle proteste anche gli allevatori di bufale che contestano gli abbattimenti dei loro animali decisi dalla Regione Campania per eradicare la brucellosi, una malattia infettiva di origine batterica.

Il 31 gennaio trecento agricoltori di Riscatto Agricolo avevano bloccato l’ingresso di Fieragricola, la fiera dell’agricoltura a Verona, nel giorno dell’inaugurazione. All’evento era atteso anche il ministro Lollobrigida, che aveva poi accettato di incontrare una delegazione di manifestanti: questi gli avevano chiesto di intervenire sulla «forbice dei prezzi», cioè la differenza tra il prezzo pagato a loro per la materie prime e il prodotto finale venduto dalla grande distribuzione, di imporre l’obbligo di utilizzare materie prime italiane sui prodotti con il marchio «made in Italy» e di usare nelle mense scolastiche e ospedaliere solo cibi italiani.

La decisione di incontrare il ministro ha diviso il movimento degli agricoltori, mostrando la natura spontanea e in parte disorganizzata delle proteste. Il comitato Agricoltori traditi sulla sua pagina Facebook ha definito gli agricoltori che avevano incontrato il ministro come «un manipolo di opportunisti i quali, spacciandosi per rappresentanti dei contadini e della mobilitazione agricola, trattano con membri del governo per il loro personale tornaconto».

Nei giorni precedenti alla manifestazione in programma a Roma, che dovrebbe raggiungere il culmine giovedì, il comitato Agricoltori traditi ha organizzato raduni ad Albano, Capena, Cecchina, Fiano Romano e Palidoro, tutte città intorno alla capitale. Gli agricoltori di Riscatto Agricolo, invece, dopo aver bloccato per cinque giorni un tratto di strada fuori da un casello dell’autostrada A1 in provincia di Arezzo, sono arrivati a Roma già il 5 febbraio e si sono fermati su un terreno privato di proprietà di un costruttore lungo la via Nomentana, nel quadrante nord-est della città. Dopo appena 24 ore sulla spianata c’erano già 700 trattori, tutti provenienti dalle regioni del centro Italia.

A trovare il terreno per ospitare il raduno sono stati alcuni agricoltori della zona guidati da Velio Contu, un allevatore di origini sarde proprietario di un’azienda con un migliaio di pecore nella vicina Guidonia, sempre nel Lazio.

Contu dice di essere stato iscritto al movimento di estrema destra Forza Nuova, ce l’ha con gli ambientalisti che impongono regole che considera «teoriche» ma inapplicabili, con gli animalisti che «tutelano gli orsi invece delle persone», con la burocrazia statale che gli «impone ogni mattina di controllare il chip all’orecchio di ogni pecora». Ma anche con le associazioni di categoria come la Coldiretti, che è la più grande, «che fanno i loro interessi e non quelli degli agricoltori», con le multinazionali del fotovoltaico «che ci espropriano i terreni» e con i sindacati, definiti «i peggiori» perché non terrebbero in considerazione le specificità del lavoro agricolo e dei suoi turni di lavoro.

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